Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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giovedì 4 settembre 2014

Bere tè allunga la vita

Uno studio francese condotto su 131 mila persone dimostra che i consumatori di tè presentano una riduzione della mortalità non cardiovascolare del 24%; il consumo di caffè avrebbe invece un effetto neutro sulla mortalità per cause cardiache e non.


03 SET - “Dovendo scegliere se bere un tè o un caffè – sostiene Nicolas Danchin, cardiologo dell’Hôpital européenGeorges-Pompidoudi Parigi-probabilmente è meglio orientarsi sul primo. Entrambi le bevande occupano un posto importante nella nostra vita e i loro effetti sull’apparato cardiovascolare sono stati ampiamente indagati, anche se le ricerche hanno prodotto risultati contrastanti. Per questo abbiamo deciso di studiare gli effetti del consumo di tè e caffè sulla mortalità cardiaca e non, in una vasta popolazione francese a basso rischio di malattie cardiovascolari”.

Gli oltre 131 mila partecipanti, di età compresa tra i 18 e i 95 anni, sono stati arruolati presso l’IPC Preventive Medicine Center di Parigi, tra il 2001 e il 2008; ilfollow up medio per ciascuno è stato di 3,5 anni. Il consumo di caffè, stabilito mediante questionari, veniva classificato come ‘assente’, ‘da 1 a 4’ o ‘più di 4’ tazze al giorno. In generale, gli uomini tendono a bere più caffè le donne amano di più il tè.
I consumatori di caffè presentavano un profilo di rischio cardiovascolare peggiore dei non bevitori di caffè, in quanto più spesso fumatori: a fumare erano il 17% dei non bevitori di caffè, il 31% di quelli che ne consumavano da 1 a 4 tazze al giorno e il 57% dei forti consumatori (oltre 4 tazze al giorno). I consumatori di caffè erano inoltre un po’ meno attivi fisicamente rispetto ai non estimatori della bevanda scura: solo il 41% riferivano un discreto livello di attività fisica, rispetto al 45% dell’altro gruppo.

I forti consumatori di tè, presentavano un profilo di rischio, opposto rispetto ai grandi bevitori di caffè: il 34% dei non bevitori di tè erano fumatori, rispetto al 24% di chi beveva 1-4 tazze di tè al giorno e al 29% di chi ne beveva più di 4 tazze.
Il forte consumo di tè correlava anche con una riduzione dei valori pressori; rispetto ai non bevitori di tè, nei forti consumatori la sistolica era più bassa di 4-5 mmHg e la diastolica di 3 mmHg

In questo periodo si sono verificati 95 decessi per cause cardiovascolari e 632 per cause non cardiovascolari. Il consumo di caffè non risultava statisticamente correlato ad un aumento della mortalità cardiovascolare o non cardiovascolare, ma non presentava neppure particolari benefici. Tra i consumatori di tè è stato registrato invece un trend in diminuzione per la mortalità cardiovascolare, che sfiorava la significatività statistica; notevole invece l’impatto del consumo di tè sulla mortalità per cause non cardiovascolari, che risultava ridotta del 24%. Curiosamente, a godere di più dei benefici del tè sembrano essere gli ex fumatori o quelli ancora in attività. Estendendo l’analisi al 2011, per un totale di sei anni di follow-up, questo dato risultava confermato.

“Il tè contiene anti-ossidanti – conclude Danchin – che possono risultare benefici; certo, i consumatori di tè seguono inoltre anche uno stile di vita più salutare e anche questo ha il suo peso. Ma ritengo che sia comunque legittimo raccomandare di bere tè, anziché il caffè”.

Maria Rita Montebelli

martedì 2 settembre 2014

La luce che cancella i brutti ricordi


Potrebbe rendersi utile nella terapia delle dipendenze...da cibo

Un elegante esperimento condotto su topini di laboratorio rivela l’area cerebrale deputata a rivestire di emozioni i ricordi e svela come l’esposizione ad una luce particolare possa riscrivere i sentimenti, associati ad una determinata memoria.


30 AGO - Si chiama optogenetica ed è una metodica che combina tecniche ottiche e genetiche, sfruttando la luce per manipolare l’attività dei neuroni. Un gruppo di scienziati del Massachusetts Institute of Technology (MIT) l’ha utilizzata per ‘riscrivere’ i ricordi , o meglio per cancellare e modificare le emozioni collegate ad un ricordo specifico. L’esperimento di manipolazione della memoria emotiva, condotto su topini di laboratorio, è descritto da Susumu Tonegawa e colleghi del RIKEN–MIT Center for Neural Circuit Genetics e del Howard Hughes Medical Institute presso il Massachusetts Institute of Technology (USA), in un elegante lavoro pubblicato su Nature.

Ai ricordi, inevitabilmente restano attaccate emozioni, belle o brutte, che possono modificarsi nel corso del tempo anche se il contenuto del ricordo di per sé rimane intatto. Un dessert al cioccolato mangiato durante una cena romantica, può rivestirsi di ricordi piacevoli e gratificante finché dura la relazione e ammantarsi di emozioni spiacevoli alla rottura della stessa. “La valenza emotiva della memoria è malleabile – spiegano gli autori del lavoro - in virtù della loro proprietà ricostruttiva intrinseca e questo viene sfruttato in clinica per trattare i comportamenti disadattivo”. Non è ancora del tutto chiaro tuttavia in quale zona del cervello i ricordi si ammantino di emozioni, anche se è noto che le memorie vengono immagazzinate in zone diverse del cervello.

I ricercatori del MIT hanno preso in esame il complesso baso-laterale dell’amigdala, ritenuta l’area deputata al conferimento di un’emozione negativa o positiva ai ricordi e il giro dentato dell’ippocampo, un magazzino della memoria, in un gruppo di topini per studiare l’attivazione delle cellule di queste aree durante la formazione di un ricordo.
Ai topi maschi veniva fornita un’emozione negativa (causata da una piccola scossa elettrica) o positiva (la possibilità di interagire con una topina), portando così l’animale a preferire o ad evitare una certa localizzazione nel momento in cui la memoria veniva riattivata optogeneticamente.

Successivamente, per cancellare l’emozione negativa o positiva, associata ad un certo gruppo di neuroni, i topini venivano condizionati con l’esperienza emotiva opposta, mentre i neuroni della memoria erano attivati in modo artificiale con la luce. I ricercatori hanno così dimostrato che i circuiti neurali del giro dentato vengono attivati nel corso dei tentativi di modificare le emozioni associate ad un certo ricordo e questo porta ad alterare le tracce mnesiche nel giro dentato e nell’amigdala, che possono essere ricondizionate e riscritte, dando così luogo a nuove associazioni ricordo-emozioni.

Maria Rita Montebelli

Alzheimer. L'azione anti-infiammatoria del melograno come strategia nutrizionale preventiva


Neuroscienze e Nutrizione: melograno contro l'Alzheimer.

La punicalgina, un polifenolo contenuto nel succo di melograno, ha una potente azione anti-infiammatoria e potrebbe trovare impiego come strategia nutrizionale preventiva nei disordini neurodegenerativi. I risultati della ricerca in un lavoro appena pubblicato su Molecular Nutrition & Food Research.


26 AGO - Si chiama punicalagina ed è un polifenolo del melograno che potrebbe trovare posto un giorno nell’armamentario terapeutico del morbo di Alzheimer. E non solo. La scoperta di Olumayokun Olajide, uno scienziato di origini nigeriane dell’Università di Huddersfield (UK), che dedica la sua vita allo studio delle proprietà anti-infiammatorie di prodotti naturali, è stata appena pubblicata su Molecular Nutrition & Food Research.
La punicalagina, secondo Olajide, potrebbe rallentare la progressione del morbo di Alzheimer, attenuando i sintomi legati alla neuro-infiammazione; ma potrebbe essere utile anche nel trattamento della sintomatologia dolorosa dell’artrite reumatoide e di altre patologie infiammatorie e neurodegenerative. Sono i risultati preliminari ottenuti dopo due anni di sperimentazione, che rappresentano la base per una nuova fase di ricerca, volta ad esplorare la possibilità di rallentare lo sviluppo di demenze tipo Alzheimer attraverso la somministrazione di questo polifenolo.

La punicalgina, secondo gli sperimentatori inglesi, è in grado di inibire la risposta infiammatoria della microglia (i macrofagi residenti nel sistema nervoso centrale), responsabile a sua volta della distruzione di gruppi di neuroni che determina il peggioramento delle condizioni dei pazienti con Alzheimer. L’antiossidante del melograno non viene presentato come una possibile cura per questa condizione ma, secondo i ricercatori inglesi, potrebbe comunque riuscire a rallentare la progressione della malattia.

Per la ricerca, condotta in collaborazione tra il dipartimento di Farmacologia dell’Università di Huddersfield e l’Università di Friburgo (Germania) sono state utilizzate cellule nervose isolate di ratto sulle quali è stata sperimentata l’azione della punicalagina. In coltura cellulare, il polifenolo estratto dal melograno ha inibito la produzione di TNF-alfa, IL-6 e prostaglandina E2.
Il pretrattamento della microglia di ratto con punicalgina, prima dell’esposizione a stimolo con lipopolisaccaride (LPS), un potente trigger infiammatorio, ha determinato una significativa inibizione della produzione di TNF-alfa, IL-6 e prostaglandina E2. Anche la produzione di cicclo-ossigenasi-2 e della prostastaglandina E sintetasi 1 microsomiale sono risultate ridotte dal pretrattamento con punicalgina. La punicalgina infine interferisce anche con il signalling dell’NF-kB.

Questi risultati, secondo i ricercatori inglesi, dimostrano che la punicalgina è in grado di inibire la neuro-infiammazione a livello della microglia, attivata da LPS, andando ad interferire con il segnale NF-kB; questo ne suggerisce un possibile impiego come strategia di nutrizione preventiva nei disordini neurodegenerativi.

“E’ noto che il consumo regolare di melograno – ricorda Olajide - fa bene alla salute da tanti punti di vista, compreso quello di prevenire la neuro-infiammazione correlata alla demenza. Per questo è consigliabile consumare succo di melograno puro che ha una concentrazione di punicalagina del 3,4%”.
Gli scienziati di Huddersfield hanno annunciato che cercheranno di mettere a punto dei derivati della punicalagina, somministrabili sotto forma di compresse.

Maria Rita Montebelli