Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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martedì 15 gennaio 2019

Obesità e grasso sulla pancia potrebbero restringere il cervello

I chili di troppo, e in particolare il grasso accumulato sulla pancia, potrebbero essere associati a restringimento del volume del cervello. Lo rivela uno studio condotto da Mark Hamer, della Loughborough University nel Leicestershire, (Inghilterra). Pubblicato sulla rivista Neurology, lo studio ha coinvolto 9.652 individui di età media 55 anni, di cui il 19% obesi. Oltre all'obesità (calcolata in base all'indice di massa corporea di ognuno) gli esperti hanno tenuto conto anche del rapporto tra circonferenza vita e circonferenza fianchi, che dà una misura di quanto grasso si accumula sulla pancia (una misura da tempo associata a problemi di salute, ad esempio rischio cardiovascolare). Tutti i partecipanti sono stati sottoposti a risonanza magnetica per misurare i volumi complessivi del cervello e di specifiche aree neurali. È emerso non solo che chi è obeso tende ad avere un cervello più piccolo, ma che questo è vero ancor di più in presenza dell'eccesso di grasso addominale, quindi di un elevato rapporto vita/fianchi. Infatti chi è sia sovrappeso, sia ha molto grasso addominale, ha un volume medio di materia grigia (la parte del cervello che ingloba il corpo dei neuroni) di 786 centimetri cubi, contro un volume di 793 centimetri cubi per chi, pur essendo obeso, non ha tanto grasso a livello addominale.

NEUROLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 10/01/2019 13:42

fonte: Neurology

venerdì 11 gennaio 2019

I batteri dell'intestino possono predirre l'obesità nei bimbi.

La composizione del microbiota intestinale, l' insieme di microrganismi che a migliaia di miliardi abitano l'intestino umano, può aiutare a predire il rischio di obesità infantile. A suggerirlo è un gruppo internazionale di ricercatori tra cui studiosi dell' università di Bologna, in un lavoro pubblicato su 'Communications Biology' (gruppo Nature). I risultati mostrano come all' interno del 'puzzle' di fattori che portano all' obesità ci siano specifiche configurazioni del microbiota che possono favorirne lo sviluppo. Conoscerle può quindi permettere di definire regimi alimentari personalizzati, utili a combattere l' eccessivo aumento di peso nei bambini. Gli autori hanno avuto la possibilità, nel contesto del progetto europeo 'MyNewGut' - riporta una nota dall' ateneo Alma Mater - di analizzare la composizione del microbiota di 70 bambini in due diversi momenti: all' inizio dello studio, quando tutti avevano un peso normale, e a distanza di 4 anni, quando 36 di loro avevano acquisito un peso eccessivo. Confrontando i dati raccolti insieme alle informazioni sulle abitudini alimentari e ad altri parametri antropometrici, biochimici e immunologici, i ricercatori hanno messo a punto un quadro che indica un possibile ruolo del microbiota nel processo di sviluppo dell' obesità.

"I nostri risultati - spiega Patrizia Brigidi, professoressa dell' UniBo tra gli autori dello studio - mostrano che i bambini che hanno acquisito peso eccessivo mangiando cibo con alto contenuto di grassi e carboidrati possiedono anche un alto grado di infiammazione sistemica e un profilo alterato di microbiota intestinale, con un basso livello di biodiversità". Specifiche abitudini alimentari possono insomma agire sulla configurazione del microbiota e di conseguenza anche su parametri metabolici e infiammatori. "In alcuni casi però - aggiunge Simone Rampelli, ricercatore UniBo - queste combinazioni di dieta, infiammazione e microbiota erano già presenti prima dello sviluppo dell' obesità, il che suggerisce una sorta di potenziale predittivo dell' asse microbiota-dieta-ospite".

Secondo gli studiosi, "che il microbiota intestinale abbia un ruolo rilevante per la salute dell' uomo è ormai certificato da numerosissimi studi scientifici. Molte ricerche, in particolare, hanno messo in luce come il complesso sistema di microrganismi che abita il nostro intestino sia un mediatore chiave per regolare l' impatto delle abitudini alimentari sul metabolismo e in generale sul nostro stato immunologico. Per questo - evidenziano - si ritiene che il microbiota sia anche capace di influenzare la nostra predisposizione a sviluppare disordini di diversa natura, inclusi quelli associati a una cattiva alimentazione". La specifica configurazione del microbiota, insieme ai dati sulle abitudini alimentari, può essere dunque utilizzata per fornire indicazioni sul pericolo di sviluppare forme di obesità nei bambini.

"In questa visione - conclude Silvia Turroni, altra ricercatrice UniBo coinvolta nello studio - il microbiota altro non è che una singola, ma importante tessera di un mosaico complesso di fattori che concorrono allo sviluppo dell' obesità". Tenere sotto controllo questo sistema intrecciato di elementi diventa allora molto importante per garantire la salute dei bambini: "Lo studio del microbiota potrebbe diventare la chiave per mettere a punto raccomandazioni alimentari su misura, evitando così il rischio di eccessivi aumenti di peso", concludono i ricercatori. Lo studio è firmato da Simone Rampelli, Kathrin Guenther, Silvia Turroni, Maike Wolters, Toomas Veidebaum, Kourides Yiannis, Dénes Molnár, Lauren Lissner, Alfonso Benitez-Paez, Yolanda Sanz, Arno Fraterman, Nathalie Michels, Patrizia Brigidi, Marco Candela e Wolfgang Ahrens. Per l' ateneo Alma Mater sono stati coinvolti i ricercatori del Laboratorio di Ecologia microbica della salute attivo al Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie.

GASTROENTEROLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 09/01/2019 14:31

fonte: 'Communications Biology'

Nell'olio di oliva una sostanza per combattere l'obesità nei bambini


Bambino Gesù, malato di steatosi il 15% dei bimbi: aumenta all'l'80% se sono obesi

L'idrossitirosolo, una sostanza contenuta nell'olio di oliva, migliora lo stress ossidativo, l'insulino resistenza e la steatosi epatica nei bambini obesi e affetti da fegato grasso. Lo dimostra uno studio condotto da medici e ricercatori dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e pubblicato suAntioxidant and Redox Signaling. L'obesità è uno dei principali problemi mondiali sia nei bambini che negli adolescenti. L'aumento del numero dei bambini con sovrappeso e obesità nei Paesi industrializzati ha portato al parallelo aumento di casi di fegato grasso o steatosi epatica non alcolica (NAFLD).

Negli ultimi vent'anni infatti la steatosi ha raggiunto proporzioni epidemiche anche tra i più piccoli diventando la patologia cronica del fegato di più frequente riscontro nel mondo occidentale. In Italia si stima che ne sia affetto circa il 15% dei bambini, ma si arriva fino all'80% tra i bambini obesi. Tra le cause del fegato grasso c'è l'aumento dello stress ossidativo che le cellule subiscono come conseguenza dell'obesità. In questo studio i ricercatori si sono avvalsi dell'esperienza del dipartimento di chimica, biologia e farmacologia dell'Università di Messina. Quello condotto dai medici del Bambino Gesù è il primo trial pediatrico con l'uso dell'idrossitirosolo, un fenolo dell'olio di oliva con elevato potere antiossidante. Il problema è che per avere il desiderato effetto antiossidante sarebbe necessario usare grosse quantità di olio d'oliva col serio rischio di diventare obesi, poiché l'olio d'oliva è molto calorico.

Ma oggi è possibile usare, grazie ai progressi della tecnologia farmaceutica, solo le sostanze antiossidanti dell'olio d'oliva senza avere l'effetto calorico ma solo gli effetti benefici. "Questi prodotti assolutamente naturali - spiega Valerio Nobili, responsabile di epatologia, gastroenterologia e nutrizione del Bambino Gesù - possono essere integrati nella dieta dei bambini obesi per combattere le complicanze dell'obesità come lo stress ossidativo (invecchiamento cellulare, danno delle pareti delle arterie e vene) l'insulino resistenza e la steatosi epatica".


NUTRIZIONE | REDAZIONE DOTTNET | 07/01/2019 13:51

fonte: Antioxidant and Redox Signalin

Grasso addominale e tumore al seno: c'è relazione


Pericolo anche per donne non in sovrappeso.

Grasso di troppo, soprattutto addominale, e tumore del seno: il binomio sarebbe estremamente pericoloso secondo un nuovo studio americano. La ricerca ha individuato rischi quasi due volte piu' alti di sviluppare cancro mammario invasivo in donne peraltro in buona forma fisica, ma con adipe in eccesso e in particolare nella zona addominale. La ricerca realizzata al Cancer Center del Weil Cornell Medicine di New York, si e' concentrata esclusivamente sullo studio di donne con un 'indice di massa corporea' (BMI) nei limiti della norma. Che non indicava quindi un livello di grasso eccessivo nel corpo delle pazienti.

Piu' di 3.460 donne in menopausa tra i 50 ed i 79 anni sono state seguite per 16 anni: 182 hanno sviluppato cancro della mammella. La analisi condotta dal team guidato da Andrew Dannenberg, ha osservato rischi piu' alti di quasi due volte nelle volontarie con il livello di adipe piu' alto, particolarmente sulla pancia. I dati sono pubblicati su 'Jama Oncology'. "Per alcune donne senza predisposizioni genetiche al tumore, il grasso in eccesso potrebbe essere una delle spiegazioni al manifestarsi del cancro", ha osservato Dannenberg. Tra i motivi della pericolosità dei grassi superflui figurerebbe il loro ruolo nell'aumentare il livello di infiammazione nell'organismo.

ONCOLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 01/01/2019 14:31

Dalla dieta stop alla demenza


Attraverso modifiche dei batteri intestinali.

Un giorno anche con la dieta si potrà contribuire a controllare l'Alzheimer: è l'obiettivo ultimo di un progetto di ricerca che ha preso il via presso la University of Aberdeen (Scozia) e che coinvolgerà pazienti e soggetti sani di controllo. Secondo quanto annunciato in una nota dell'ateneo, il progetto all'inizio verterà sul vedere se il microbiota dei pazienti è diverso e riconoscibile rispetto a quello di individui sani. 

Poi in un secondo tempo l'obiettivo sarà vedere se modificando il microbiota intestinale dei pazienti attraverso l'alimentazione o l'integrazione con probiotici si possono ottenere dei benefici in termini di riduzione dei sintomi fisici e psicologici della demenza. Inizialmente lo studio consisterà nella raccolta di campioni di feci di tre gruppi di individui: pazienti con demenza e disturbi comportamentali; persone con demenza ma senza problemi di comportamento; un gruppo di controllo di persone sane senza demenza.

"E' divenuto evidente che esiste una comunicazione bidirezionale tra microbiota intestinale e cervello - spiega il coordinatore del progetto Alex Johnstone. Il nostro obiettivo sarà identificare se cambiamenti nella dieta possano influenzare i sintomi clinici della demenza". "Questo studio unico nel suo genere potrebbe portare allo sviluppo di interventi dietetici come soluzione per prevenire problemi comportamentali e fisici che sono associate a prognosi negativa nel paziente con demenza" - continua. "Vogliamo verificare che l'asse intestino-cervello giochi un ruolo chiave nei disturbi comportamentali associati alla demenza".


NUTRIZIONE | REDAZIONE DOTTNET | 01/01/2019 14:28