Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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venerdì 24 febbraio 2017

Dieta e batteri intestinali: un ruolo nell'Alzheimer

I batteri intestinali possono giocare un ruolo nella malattia di Alzheimer
La composizione della flora intestinale è di grande interesse per la ricerca sulla malattia di Alzheimer.

Un nuovo studio condotto dall’Università di Lund in Svezia ha dimostrato che i batteri intestinali possono accelerare lo sviluppo della malattia di Alzheimer. I risultati aprono la strada a nuove opportunità per la prevenzione e il trattamento della malattia.

I batteri intestinali hanno un impatto importante sulla nostra salute attraverso l’interazione tra il sistema immunitario, la mucosa intestinale e la nostra dieta. La composizione della flora intestinale deriva dai batteri che riceviamo alla nascita, dai nostri geni e dalla nostra dieta.

Studiando topi sani e topi malati, i ricercatori hanno scoperto che i topi affetti dal morbo di Alzheimer hanno una diversa composizione della flora batterica intestinale rispetto ai topi sani. I ricercatori hanno anche studiato la malattia di Alzheimer nei topi che erano completamente privi dei batteri intestinali, per testare ulteriormente il rapporto tra batteri intestinali e la malattia ed hanno scoperto che i topi senza batteri avevano una quantità significativamente minore di placche beta-amiloide nel cervello, il segno distintivo della malattia di Alzheimer.

Per chiarire il legame tra flora intestinale e l’insorgenza della malattia, i ricercatori hanno trasferito i batteri intestinali di topi malati nei topi privi di batteri ed hanno scoperto che i topi che hanno ricevuto i batteri intestinali da topi malati hanno sviluppato più placche beta amiloidi nel cervello rispetto ai topi che hanno ricevuto il trasferimento di batteri intestinali da topi sani. “E’ stato sorprendente verificare che i topi che mancavano completamente di batteri hanno sviluppato meno placche beta amiloidi nel cervello”, dice il ricercatore Frida Fak Hallenius, del Food for Health Science Centre alla Lund.

I risultati indicano che ora si può iniziare a ricercare nuovi modi per prevenire la malattia e ritardarne l’insorgenza. I ricercatori affermano: “Riteniamo che questo sia un importante passo avanti poichè attualmente siamo in grado di alleviare solo i sintomi della malattia di Alzheimer con farmaci antiretrovirali”.

Si continua quindi a studiare il ruolo dei batteri intestinali nello sviluppo della malattia di Alzheimer e testare nuovi tipi di strategie preventive e terapeutiche basate sulla modulazione della flora batterica intestinale, attraverso la dieta e nuovi tipi di probiotici.

Celiachia e infiammazioni intestinali: individuato l'interruttore

E’ stato scoperto un ‘interruttore molecolare’ che sembra causare le malattie infiammatorie intestinali – morbo di Crohn e rettocolite ulcerosa – e la celiachia; una scoperta che potrebbe portare a trattamenti più efficaci e mirati. Lo confermano i risultati di una ricerca, condotta da scienziati del King’s College di Londra e dello University College di Londra (UCL) che sono stati pubblicati sulla rivista PLOS Genetics.

La scoperta
A svolgere questo ruolo chiave è una molecola del sistema immunitario chiamata T-bet, che regola il rischio genetico in malattie specifiche. T-bet svolge un ruolo importante nel coordinare le risposte immunitarie e, in pazienti con infiammazione intestinale cronica, e quando ha un comportamento anomalo, provoca la reazione immunitaria che porta allo sviluppo dell’infiammazione intestinale. Questo indicherebbe che, per la prima volta, i ricercatori possono avere un obiettivo specifico su cui indirizzare gli sforzi per mettere a punto nuovi trattamenti per queste condizioni autoimmuni croniche che colpiscono milioni di persone al mondo. Una grande quantità di lavoro, nel corso degli ultimi dieci anni, è stato fatto sulla predisposizione genetica alle malattie autoimmuni come in effetti sono quelle infiammatorie intestinali e la celiachia. Tuttavia, è stato molto difficile sviluppare trattamenti efficaci perché nello sviluppo di queste malattie sono coinvolti un gran numero di geni e ciascuno contribuisce in una parte molto piccola.

Commenti degli autori
“La nostra ricerca delinea un focus specifico su cui concentrarsi per lo sviluppo di nuove terapie per queste malattie che hanno un effetto profondo sulla vita dei malati”, ha commentato uno degli autori senior dello studio, Graham Lord del King’s College London. “Capire come il nostro DNA influenza il nostro rischio di sviluppare malattie specifiche – aggiunge il coautore Richard Jenner, dell’UCL Cancer Institute – è la chiave per lo sviluppo di terapie di precisione per le più gravi malattie. C’è ancora molto lavoro da fare prima di arrivare a nuovi trattamenti, ma questa scoperta è un significativo passo avanti”.

Vincere la depressione con la dieta mediterranea

La dieta mediterranea, insieme con altri accorgimenti a tavola, può essere d’aiuto anche per contrastare la depressione. In pratica si tratta di evitare alcuni cibi (ad esempio dolci e bibite) dando la preferenza ad altri (cereali integrali, legumi, uova, carni magre, olio d’oliva). E’ quanto rivela una sperimentazione clinica condotta in Australia da Felice Jacka della Deakin University.

Le premesse
Secondo quanto riferito sulla rivista BMC Medicine, il nuovo studio clinico si basa su una serie di evidenze scientifiche pubblicate in cui si misurava il rischio di depressione di persone che adottavano una dieta sana o, invece, inclini a mangiare in modo scorretto. Da questi studi emergeva che la depressione è più frequente tra coloro che conducono una dieta poco salubre così Jacka ha pensato di allestire una sperimentazione clinica per vedere se effettivamente la dieta mediterranea potesse in qualche modo trattare il disturbo depressivo.

Lo studio
Nello studio Smiles, Jacka ha coinvolto 67 pazienti con depressione da moderata a grave: metà del campione ha seguito per 12 settimane una dieta mediterranea modificata a base sostanzialmente di cereali integrali, molti legumi, carne magra, uova, pesce latticini non zuccherati. con un limitatissimo consumo di bibite e alcolici Il resto del campione per le 12 settimane doveva invece continuare la propria dieta di sempre. Il livello di depressione di tutti i partecipanti è stato misurato con una scala (da 0 a 60 dove 60 indica depressione grave e 0 remissione) prima e dopo le 12 settimane. E’ così emerso che tra coloro che hanno seguito la dieta mediterranea il livello di depressione è calato; in alcuni pazienti si è addirittura raggiunta la remissione.

Resta comunque da approfondire quali siano gli ingredienti della dieta mediterranea con effetti antidepressivi, ma è probabile che sia un mix di tutto ad esempio la ricchezza di grassi buoni che proteggono il cervello e il ridotto consumo di zuccheri tossici per il cervello.

giovedì 9 febbraio 2017

Soia e tumore della mammella: il paradosso.

La soia protegge contro il tumore della mammella, ma guai a farsi prendere dalla passione dopo la diagnosi del tumore perché può vanificare la risposta al tamoxifene e favorire la comparsa di recidive. Questo in sintesi il messaggio di uno studio appena pubblicato su Clinical Cancer Research. 

Mangiare o bere prodotti a base di soia durante il trattamento per tumore della mammella fa bene o male? I ricercatori del Georgetown Lombardi Comprehensive Cancer Center rispondono a questa domanda in uno studio appena pubblicato su Clinical Cancer Research. 

La ricerca, condotta su modelli animali (ratto), ha consentito di individuare le modalità attraverso le quali un consumo costante di soia sul lungo periodo migliora l’efficacia del tamoxifene e riduce il rischio di recidiva del tumore della mammella. Lo stesso studio rivela però anche che iniziare a consumare prodotti a base di soia per la prima volta durante il trattamento con tamoxifene riduce l’efficacia di questo farmaco e dunque facilita la comparsa di recidive.

Ad esercitare questo effetto ‘positivo’ o ‘negativo’ sull’outcome del trattamento con tamoxifene è soprattutto la genisteina, uno degli isoflavoni più attivi della soia.

“Da tempo è noto il cosiddetto paradosso della genisteina – spiega Leena Hilakivi-Clarke, professore di oncologia al Georgetown Lombardi - un composto che ha una struttura simile a quella degli estrogeni e che è in grado, entro certo limiti, di attivare i recettori per gli estrogeni. E’ noto che gli estrogeni svolgono un importante ruolo nella crescita del tumore della mammella; per questo l’elevato consumo alimentare di soia tra le donne asiatiche correla con un tasso di tumore della mammella cinque volte inferiore a quello registrato nelle donne dei Pesi occidentali, che di soia ne consumano molto meno. Ma allora perché la soia, che mima gli estrogeni, risulta protettiva contro il cancro della mammella nelle donne asiatiche?”

Oltre il 70% dei tumori della mammella (nel 2012 ne sono stati registrati 1,67 milioni di nuovi casi nel mondo) hanno recettori per gli estrogeni; il tamoxifene e le altre terapie endocrine utilizzate per questo tumore hanno appunto lo scopo di ridurre questo effetto di promozione della crescita tumorale tipico degli estrogeni. Purtroppo, circa la metà delle pazienti trattate con questi farmaci finiscono con il diventare resistenti a queste terapie e/o sviluppano una recidiva tumorale.

Lo studio appena pubblicato è riuscito ad evidenziare su modello di ratto di tumore della mammella che è il timingdi assunzione della genisteina il fattore cruciale per far pendere l’ago della bilancia verso un outcome positivo o al contrario negativo nei soggetti in trattamento con tamoxifene.

Chi è abituato da tempo a consumare prodotti a base di soia prima della comparsa di un tumore della mammella, mostra una migliore immunità globale contro questa forma di tumore che lo protegge dallo sviluppo e dalle recidive di tumore della mammella. “La genisteina – spiega il leader dello studio Xiyuan Zhang – inibisce anche il meccanismo dell’autofagia che consente alle cellule tumorali di sopravvivere e che spiega perché funziona il tamoxifene.”

Studi condotti in passato su donne non hanno dimostrato effetti negativi del consumo di soia sull’outcome del tumore della mammella; addirittura le donne asiatiche o caucasiche che consumano anche solo 1/3 di tazza di latte di soia al giorno (l’equivalente di 10 mg di isoflavoni) sono quelle che presentano il più basso rischio di recidiva di tumore della mammella.

Dunque un effetto protettivo importante. Ma la storia è molto diversa, sembra suggerire questo studio, se la passione per la soia scatta dopo che il tumore della mammella ha fatto la sua comparsa.
In questo studio su animali da esperimento, cominciare ad assumere genisteina dopo la comparsa del tumore ha fatto si che non si scatenasse una risposta immunitaria anti-cancro; “inoltre – spiega Zhang - anche se non sappiamo ancora attraverso quale meccanismo, questo ha reso gli animali resistenti agli effetti benefici del tamoxifene,aumentando così il rischio di una recidiva”.

I ratti che avevano consumato genisteina da adulti presentavano infatti un rischio di recidiva di carcinoma della mammella del 7% dopo trattamento con tamoxifene, contro il 33% di quelli esposti alla genisteina solo dopo la comparsa del tumore.

“Siamo riusciti a risolvere il puzzle del rapporto genisteina-cancro della mammella nel nostro modello di ratto, riuscendo a spiegare perfettamente il paradosso osservato negli studi animali e sull’uomo condotti in passato. Molti oncologi consigliano tout court alle loro pazienti di non assumere dei supplementi di isoflavoni o di consumare alimenti a base di soia. Ma i nostri risultati – afferma Hilakivi-Clarke - suggeriscono un messaggio più sfumato: le pazienti con cancro della mammella dovrebbero continuare a consumare alimenti a base di soia dopo la diagnosi, ma non è il caso di cominciare a consumarli dopo una diagnosi di cancro della mammella, se non si è mai assunta in precedenza la genisteina.”

giovedì 2 febbraio 2017

Bulimia: elettrostimolazione cerebrale efficace e poco invasiva

Un esperimento condotto presso il King’s College di Londra e pubblicato sulla rivista Plos One ha rivelato che stimolando il cervello con una impercettibile corrente si spengono i sintomi della bulimia. I pazienti trattati riducono le abbuffate, hanno più autocontrollo a tavola, diminuiscono i comportamenti a rischio come i digiuni, e manifestano meno preoccupazioni relativamente al proprio corpo e al proprio peso.

L’esperimento
Questi risultati sono stati ottenuti su 39 pazienti con bulimia trattati con la stimolazione transcranica a corrente diretta, (tecnica già in uso in America contro la depressione) che consiste nell’applicare degli elettrodi sulla scalpo e, tramite questi, inviare una corrente del tutto indolore e non invasiva (che il soggetto neppure percepisce) alla sua corteccia cerebrale. I ricercatori hanno sottoposto l’intero campione sia a una seduta di 20 minuti di stimolazione vera, sia a una stimolazione placebo ed hanno osservato quanto l’uno e l’altro trattamento incidessero sui sintomi riportati dai pazienti il giorno dopo la seduta.

E’ emerso che la stimolazione vera, ma non quella placebo, riduce in modo considerevole i sintomi della bulimia, con effetti osservabili il giorno dopo la stimolazione stessa. Secondo i ricercatori un ciclo prolungato di sedute di stimolazione transcranica potrebbe avere effetti a lungo termine sui pazienti bulimici e potrebbe essere una valida alternativa alla psicoterapia che non funziona su tutti i pazienti.