Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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venerdì 25 marzo 2016

Bruciare calorie aumenta il volume del cervello e lo protegge


Uno studio statunitense evidenzia che le persone anziane - che spendono più energia praticando ogni settimana una costante attività fisica - tendono ad avere più materia grigia nel cervello, rispetto ai coetanei meno attivi, preservando così anche le funzioni cognitive.

L’esercizio fisico, comprese le camminate e la corsa, sembra essere legato alla preservazione delle strutture cerebrali, anche tra gli individui con sintomi lievi e gravi di declino mentale. È quanto emerge da uno studio condotto da un team guidato da James T. Becker, docente di psichiatria presso la School of Medicine dell’Università di Pittsburgh.”Osservando i volumi di alcune regioni cerebrali critiche si può prevedere il passaggio dalla cognizione normale ad un certo grado di perdita, da lieve a grave, delle funzioni cognitive “, ha detto Becker.

Le evidenze dello studio
I ricercatori hanno analizzato i dati di uno studio a lungo termine che indagava la salute cardiovascolare di 876 persone di non oltre 65 anni di età, al momento dell’arruolamento, che erano stati sottoposti a valutazioni delle funzioni cognitive, imaging volumetrico cerebrale e avevano risposto a questionari che indagavano le loro attività fisiche. In questi soggetti hanno poi stimato il dispendio energetico settimanale sulla base delle risposte ai questionari, e utilizzato il totale delle calorie bruciate in relazione all’attività praticata. In circa la metà dei pazienti che erano ormai ultra 78enni il volume della materia grigia è stato misurato con scansioni cerebrali.

Così – dopo aver aggiustato i dati per possibili fattori che avrebbero potuto influenzare il volume cerebrale tra cui le dimensioni del cranio, l’età, il sesso, eventuali lesioni della materia bianca cerebrale, decadimento cognitivo lieve e presenza di Alzheimer – i ricercatori hanno scoperto che un maggior dispendio energetico nelle attività del tempo libero era associato a un aumento del volume della materia grigia, in molte regioni del cervello. “Il dispendio energetico può essere correlato al rilascio del fattore neurotrofico cerebrale (BDNF), che promuove la crescita e la differenziazione di nuovi neuroni nel cervello”, ha spiegato Becker.

Il volume della materia grigia nel cervello si riduce tipicamente con l’età. Ma studi del passato hanno suggerito che un aumento del BDNF come risultato dell’esercizio fisico potrebbe aiutare a conservare una quantità “più giovane” di materia grigia. “L’attività, e il risparmio conseguente della struttura cerebrale sono i protagonisti principali della preservazione del cervello e della sua riserva cognitiva”, ha detto Becker. “Così, in presenza di una malattia degenerativa come il morbo di Alzheimer, una riserva cerebrale superiore estende il tempo cerebrale libero da demenza. Più intensa è l’attività fisica praticata e meglio staranno il cuore e il cervello”.

Ha concluso Becker:”I nostri dati suggeriscono che potrebbe non essere importante il tipo di attività fisica praticata, quanto invece la quantità di calorie spese, dal momento che il maggiore impatto è stato visto in chi aveva un dispendio calorico intorno al 25% e oltre”.

I ricercatori hanno riconosciuto alcuni limiti dello studio. Per primo il fatto che la ridotta attività fisica osservata nei partecipanti allo studio potrebbe essere il risultato di un declino generale della salute associato con la demenza. Inoltre non hanno indagato se il maggior volume della materia grigia associato all’esercizio avesse avuto alcun effetto protettivo sulle funzioni cognitive.

Fonte: J Alz Dis 2016

Kathryn Doyle

venerdì 4 marzo 2016

Celiachia: troppe diagnosi sbagliate

Gonfiore addominale, stanchezza generalizzata e mal di testa sono solo alcuni dei sintomi comuni a celiachia ed intestino irritabile ma, secondo gli esperti, la diagnosi vera per un paziente su cinque, può essere sensibilità al glutine non celiaca che potrebbe, secondo alcune stime, riguardare fino ad una persona su 10. 

A dimostrarlo è il “Glutox” uno studio tutto italiano, promosso dalla Associazione italiana gastroenterologi ospedalieri (Aigo), pubblicato sulla rivista scientifica Nutrients. Un lavoro coordinato dal Centro per la Prevenzione e Diagnosi della Malattia Celiaca della Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, che ha coinvolto 15 centri di gastroenterologia ospedalieri in tutta Italia ed esaminato 140 pazienti di età compresa tra i 18 ed i 75 anni per un periodo di circa 6 mesi. Risultato: se si interrompe l’assunzione di glutine tre pazienti su cinque, non soffrono più dei sintomi e dei disturbi sinora attribuiti alla sindrome dell’intestino irritabile o ad altre alterazioni del funzionamento dell’apparato digerente. Inoltre, 1 su cinque risponde sintomatologicamente alla reintroduzione “nascosta” del glutine.

Lo studio
“Lo studio Glutox, grazie all’osservatorio qualificato delle gastroenterologie ospedaliere, è partito con l’intento di dare una dimensione epidemiologica alla sensibilità al glutine non celiachia (SGNC)” spiega il dottor Luca Elli, coordinatore dello studio e membro del Dr. Schr Institute. In assenza di biomarker specifici, la diagnosi di sensibilità al glutine non celiaca avviene per esclusione. Per verificare, quindi, che i sintomi dichiarati dai pazienti fossero effettivamente causati dal glutine ed escludere altre cause, gli esperti hanno disegnato un percorso di tre settimane con dieta priva di glutine e hanno verificato l’andamento dei sintomi. Dopo questo periodo, per essere certi della diagnosi è stato integrato come modello di verifica lo studio in “doppio cieco” nel quale né i medici né i pazienti erano a conoscenza di cosa assumevano. I pazienti sono stati divisi in due gruppi, uno ha assunto glutine e l’altro un placebo per marcare in modo scientifico la differenza tra sintomi reali ed effetto psicosomatico. “Il successo dello studio – conclude Elli – è stato quello di aver identificato in modo chiaro un sottoinsieme di pazienti con diagnosi certa di SGNC tra quelli reattivi al glutine.

Questo approccio rappresenta un punto di partenza per lo sviluppo di un protocollo diagnostico per la SGNC ed in assoluto è il primo lavoro ad aver integrato i criteri di Salerno. Infine c’è un riscontro molto pratico: per un numero rilevante di pazienti si apre la prospettiva di una terapia dietetica di facile introduzione, come l’alimentazione senza glutine, quale soluzione al proprio stato di malessere, con il conseguente abbandono di terapie farmacologiche inadatte e spesso gravate da importanti effetti collaterali.