Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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venerdì 27 novembre 2015

I batteri intestinali regolano l'appetito

Un nuovo studio suggerisce che dopo un pasto i batteri dell’intestino producono alcune proteine ​​che possono intervenire nel controllo di quando e quanto mangiare. Questa è l’evidenza di uno studio proveniente dal laboratorio della Rouen University INSERM’s Nutrition Gut & Brain, in Francia pubblicato sulla rivista Cell Metabolism.

Sergueï Fetissov, autore senior dello studio, ha scoperto che alcuni batteri della flora intestinale, circa 20 minuti dopo un pasto, rilasciano proteine che direttamente e indirettamente accendono nel cervello i neuroni deputati a regolare l’appetito e la sensazione di sazietà. Gli esperti hanno isolato queste proteine batteriche nell’intestino e nel sangue e poi le hanno testate su topi. E’ così emerso che i roditori che ricevevano un’iniezione di queste proteine batteriche, non mangiavano anche se erano a digiuno, a riprova del fatto che tali molecole inducono la sazietà.

Gli stessi ricercatori hanno anche visto che i segnali batterici della sazietà agiscono, sia stimolando la produzione del peptide YY (ormone intestinale della sazietà), sia attivando direttamente il cervello. Questa scoperta è coerente con i risultati di recenti ricerche secondo cui la flora batterica intestinale ha un ruolo fondamentale nel regolare il peso corporeo e quando è alterata nella sua composizione microbica può favorire l’obesità.

Ecco perché la dieta può non funzionare

Vi siete mai chiesti perché che la vostra dieta non ha funzionato? Ecco la risposta. Uno studio israeliano che ha monitorato i livelli di zucchero nel sangue di 800 persone nel corso di una settimana, suggerisce che anche se tutti hanno mangiato lo stesso pasto, il modo con cui viene metabolizzato, è diverso da una persona all’altra.

I risultati, pubblicati sulla rivista Cell, dimostrano le potenzialità della “nutrizione personalizzata”, un metodo che serve per aiutare le persone a identificare quali alimenti possono aiutare o ostacolare i loro obiettivi di salute.

Il livello di zucchero che si misura nel sangue è in stretta associazione con diversi problemi di salute come il diabete e l’obesità, è facile da misurare, tramite un monitoraggio continuo del glucosio nel sangue (glicemia). Gli alimenti vengono anche classificati in base all’Indice Glicemico (IG) cioè in base a come un determinato alimento influisce sulla glicemia dopo averlo mangiato. Inoltre l’IG viene utilizzato da medici e nutrizionisti per pianificare una dieta sana. Tuttavia, questo sistema era basato sui risultati di alcuni studi che verificavano le variazioni della glicemia di piccoli o medi gruppi, dopo l’assunzione degli alimenti.

Il nuovo studio, condotto da Eran Segal e Eran Elinav del Weizmann Institute of Science in Israele, ha scoperto che l’IG di un determinato cibo non è un valore prefissato, ma dipende dal singolo individuo. Per tutti i partecipanti, i ricercatori hanno raccolto i dati attraverso questionari sulla salute, misure corporee, esami del sangue, monitoraggio del glucosio, campioni di feci e un app applicata al telefono cellulare, è stata utilizzata per comunicare lo stile di vita e l’assunzione di cibo (tutte le misure sono state rilevate per un totale di 46.898 pasti). Inoltre, i volontari hanno ricevuto, per colazione, alcuni pasti standardizzati/identici.

Come previsto, l’indice di massa corporea (Imc) e l’età erano associati con i livelli di glucosio nel sangue dopo i pasti. Tuttavia, i dati hanno anche rivelato che diverse persone mostrano reazioni molto diverse per lo stesso cibo, anche se le loro risposte individuali non sono cambiate da un giorno all’altro.

“Si può pensare che la maggior parte delle raccomandazioni dietetiche siano basate su uno di questi sistemi di classificazione, tuttavia, ciò che le persone non hanno evidenziato, o forse non hanno pienamente apprezzato, è che ci sono profonde differenze nelle risposte della glicemia tra gli uni e gli altri e questa è una grave mancanza anche negli studi fino ad ora pubblicati “, ha detto Segal, del dipartimento di Informatica e Matematica Applicata del Weizmann Institute.

Obesità infantile e rischio cardiopatie

Avere una severa obesità da piccoli è associato a fattori di rischio cardiometabolici più alti. Questa associazione sembra più forte nei maschi che nelle femmine. È il risultato di uno studio americano, pubblicato sul New England Journal of Medicine.
Nella ricerca sono stati usati i dati di bambini e ragazzi, in sovrappeso e obesi, tra i 3 e il 19 anni di età, raccolti nell'ambito del National Health and Nutrition Examination Survey tra il 1999 e il 2012. Lo scopo dello studio era valutare i fattori di rischio cardiometabolico rispetto al grado di obesità.
Sono stati misurati altezza e peso, i diversi valori di colesterolo, trigliceridi, la pressione arteriosa, l'emoglobina glicata e il glucosio a digiuno.
Tra i 8.579 bambini e ragazzi con un Bmi uguale o superiore all'85esimo percentile, il 47% era in sovrappeso, il 36% aveva un'obesità di 1° grado, il 12% di 2° grado e il 5% di 3° grado. I valori di alcuni indicatori cardiometabolici, ma non di tutti, erano maggiori al crescere del grado di obesità, soprattutto nei maschi. Riguardo al colesterolo HDL, il livello era più basso al crescere del grado di obesità. Dopo aver tenuto conto dell'età, dell'etnia e del sesso, è risultato che più grave è l'obesità, maggiore il rischio di un basso livello di colesterolo HDL, alta pressione diastolica e sistolica e alti livelli di trigliceridi e di emoglobina glicata.
I ricercatori hanno quindi concluso che i bambini e giovani con un eccessivo accumulo di grasso corporeo possono essere maggiormente a rischio.

Fonte:
Skinner, Asheley C., et al. "Cardiometabolic Risks and Severity of Obesity in Children and Young Adults." New England Journal of Medicine 373.14 (2015): 1307-1317.