Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


Studio Borgo Roma - Via Santa Teresa 47 (ingresso Via Bozzini 3/A), 37135, Verona.

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lunedì 28 dicembre 2020

L'esposizione ai metalli può interferire con la gravidanza

| REDAZIONE DOTTNET |

Alcuni di essi possono disturbare il sistema endocrino che è responsabile della regolazione degli ormoni del corpo

L'esposizione a metalli come nichel, arsenico, cobalto e piombo può interferire con la gravidanza. 

Infatti, secondo uno studio della Rutgers University, pubblicato sulla rivista Environment International, può interrompere gli ormoni di una donna. L'esposizione ai metalli è stata già associata a problemi alla nascita come parti pretermine e basso peso nei bambini e preeclampsia nelle donne.  Questa nuova ricerca mostra invece come alcuni metalli possono disturbare il sistema endocrino che è responsabile della regolazione degli ormoni del corpo e contribuire alla successiva salute dei bambini e al rischio di malattie. Nello studio i ricercatori hanno analizzato campioni di sangue e urina di 815 donne incinte di Porto Rico, zona individuata proprio per la sua alta concentrazione di aree inquinate. Gli studiosi hanno scoperto che i metalli possono agire come interferenti endocrini, alterando le concentrazioni di ormoni prenatali durante la gravidanza. Secondo quanto accertato, le alterazioni degli ormoni steroidei sessuali durante la gestazione sono state associate a una crescita fetale inadeguata, conseguenza di un basso peso alla nascita. Questa, spiegano gli studiosi, è fortemente associata alla crescita sana di un bambino e al rischio di malattie croniche, tra cui obesità e cancro al seno.

mercoledì 23 dicembre 2020

Declino cognitivo: formaggio e vino rosso potrebbero rallentarlo

Formaggio e vino a tavola possono rallentare il declino cognitivo. 


A dirlo è una ricerca dell’Iowa State University che è stata pubblicata sulla rivista scientifica Journal of Alzheimer’s Disease. Lo studio, realizzato su 1.787 persone dai 46 ai 77 anni, ha dimostrato come il formaggio sia l’alimento più protettivo contro i problemi cognitivi legati all’età, anche quando si è molto in là con gli anni. Il consumo quotidiano di alcol, in particolare di vino rosso, è stato inoltre correlato ai miglioramenti della funzione cognitiva. Gli studiosi hanno anche scoperto come il consumo settimanale di carne di agnello (e non di altre carni rosse), riesca a migliorare le capacità cognitive a lungo termine.


“A seconda dei fattori genetici che si hanno, alcuni individui sembrano essere più protetti dagli effetti dell’Alzheimer, mentre altri sembrano essere maggiormente a rischio. Detto questo, credo che le giuste scelte alimentari possano prevenire la malattia e il declino cognitivo”, spiega Brandon Klinedinst, uno dei ricercatori che ha condotto l’analisi. I ricercatori hanno valutato in questa ricerca il consumo di frutta fresca, frutta secca, verdure crude e insalata, verdure cotte, pesce azzurro, pesce magro, carne lavorata, pollame, manzo, agnello, maiale, formaggio, pane, cereali, tè e caffè, birra e sidro, vino rosso, vino bianco e champagne e liquori.

Redazione nutri & previeni.

sabato 19 dicembre 2020

La nostra nuova collaborazione con il Centro di Neuroscienze Cliniche di Verona

Siamo lieti di comunicare la nostra collaborazione con


Il Centro si occupa di diagnosi e trattamenti di vari disturbi di origine neuropsichica e di natura psicocomportamentale, utilizzando la disciplina delle neuroscienze cliniche e un approccio multidisciplinare.

Si tratta di un modello integrato ed innovativo, finalizzato ad una migliore comprensione del funzionamento cerebrale e del comportamento correlato, al fine di mettere a punto trattamenti personalizzati dei vari disturbi e patologie rilevate. 

I medici utilizzano anche la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), di cui si occupano fin dal 2007, oltre che di altre tecniche finalizzate al ripristino delle normali funzioni cerebrali, dei comportamenti e alla promozione di stili di vita sani.

Il Centro, vista l’attuale emergenza, è impegnato anche nel fornire supporto medico internistico domiciliare in telemedicina ai pazienti con COVID-19 in fase precoce.

Per informazioni consultate il nostro sito web https://www.neuroscienze.online


La modificazione del microbiota intestinale all'origine della depressione

Un intestino in salute contribuisce alla normale funzione cerebrale

PSICHIATRIA | REDAZIONE DOTTNET | 17/12/2020 16:59

Uno squilibrio nella flora batterica intestinale può causare il collasso di alcuni metaboliti responsabili della depressione. Dunque, un intestino in salute porta a contribuire alla normale funzione cerebrale. A dirlo è uno studio francese dell'Istituto Pasteur, dell'Inserm e del Cnrs pubblicato su Nature Communications

Il microbiota intestinale è il più grande serbatoio di batteri del corpo. I ricercatori hanno appena scoperto come una modificazione del microbiota intestinale, causata da stress cronico, possa essere all'origine di uno stato depressivo, in particolare provocando un collasso dei metaboliti lipidici nell'organismo. La loro diminuzione si traduce in un grave malfunzionamento del sistema di comunicazione derivato da loro stessi. Questi metaboliti, infatti, si legano ai recettori che sono anche l'obiettivo primario del Thc, il componente attivo più noto della cannabis.  I ricercatori hanno scoperto che quando gli endocannabinoidi non erano più presenti in una regione chiave del cervello che partecipa alla formazione di ricordi ed emozioni, l'ippocampo, si verifica uno stato depressivo. Grazie al lavoro di ricerca, poi, hanno identificato alcune specie batteriche che sono notevolmente ridotte negli animali con disturbi dell'umore. Al contrario, hanno dimostrato che con il trattamento orale con questi stessi batteri è possibile ripristinare un livello normale dei derivati ;;lipidici e, di conseguenza, curare lo stato depressivo. Ecco perché gli studiosi francesi parlano di "psicobiotici".

venerdì 18 dicembre 2020

Il glutammato tra i responsabili delle emicranie

NEUROLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 16/12/2020 13:56

Grandi e numerosi "sbuffi" di glutammato nel cervello potrebbero aiutare a spiegare l'insorgenza dell'emicrania con aura

Grandi e numerosi "sbuffi" di glutammato nel cervello potrebbero aiutare a spiegare l'insorgenza dell'emicrania con aura - e potenzialmente essere coinvolti in un'ampia fascia di malattie neurologiche, tra cui ictus e lesioni cerebrali traumatiche. Lo dice uno studio condotto da un team di ricercatori guidato dalla prof.ssa Daniela Pietrobon dell'Università di Padova e dal prof. K.C.   Brennan dell'Università dello Utah. È ormai chiaro che l'emicrania è una malattia del cervello, ma le disfunzioni cerebrali che la causano rimangono in gran parte misteriose. Lo studio, condotto su topi da laboratorio, ha evidenziato che un aumento anomalo di glutammato nello spazio extracellulare - l'area tra le cellule cerebrali - può innescare onde di depolarizzazione simili a tsunami che si diffondono nel cervello causando emicrania e altri disturbi del sistema nervoso.

"Questi topi - dice Pietrobon - mostrano una aumentata suscettibilità alla "cortical spreading depolarization (Csd)", un'onda di depolarizzazione che insorge spontaneamente nel cervello degli emicranici e dà origine alla cosiddetta aura emicranica. Abbiamo dimostrato che nel cervello di questi topi c'è una rallentata e poco efficace rimozione del glutammato durante l'attività cerebrale, e che questo difetto è responsabile dell'aumentata suscettibilità alla Csd". Brennan ha implementato una nuova tecnica che permette di misurare otticamente il glutammato che viene rilasciato durante l'attività cerebrale di un topo sveglio e ha collaborato con Pietrobon per studiare le variazioni di glutammato durante l'attività cerebrale nei topi modello di emicrania in cui la rimozione del glutammato alle sinapsi eccitatorie è rallentata. Ha così scoperto che nella corteccia cerebrale dei topi mutati ci sono di tanto in tanto degli "sbuffi"di glutammato, cioè aumenti localizzati di glutammato, che non sono presenti nei topi selvatici non mutati.

Lo studio ha poi dimostrato che l'insorgenza della Csd è preceduta da una raffica di questi sbuffi di glutammato. Inibendo gli sbuffi di glutammato viene inibita anche l'insorgenza della Csd. Gli 'sbuffi' potrebbero perciò svolgere un ruolo chiave nell'insorgenza dell'attacco di emicrania con aura nell'uomo. "Non abbiamo alcuna evidenza diretta che questi sbuffi di glutammato siano presenti nella corteccia cerebrale umana - osserva Pietrobon -. Però ci sono dati nei pazienti emicranici che mostrano un alto livello di glutammato nel liquido cerebrospinale rispetto ai controlli sani. Bloccando il rilascio di glutammato inibendo localmente i canali del calcio dei terminali sinaptici neuronali abbiamo bloccato gli sbuffi e anche l'insorgenza della Csd nei topi modello di emicrania, ma non è pensabile un trattamento sistemico con tali bloccanti nell'uomo in quanto si andrebbe a bloccare la trasmissione sinaptica fisiologica del cervello. Sembra migliore la strategia di andare ad inibire specifici recettori del glutammato o andare ad aumentare la velocità e l'efficacia di rimozione del glutammato rilasciato". 

mercoledì 9 dicembre 2020

Sclerosi multipla, le cellule sono sane ma danneggiate da infiammazione

 

NEUROLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 07/12/2020 13:44

Lo rivela Science Advances che ha pubblicato due studi internazionali nati dal programma BRAVEinMS dell'Università Vita-Salute San Raffaele.

Arriva una svolta nella ricerca sulla sclerosi multipla: la scoperta - pubblicata sulla rivista Science Advances in due studi internazionali nati dal programma BRAVEinMS, coordinato da Gianvito Martino, prorettore alla ricerca e alla terza missione dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano - per la prima volta indica che le cellule finora indicate come responsabili della malattia perché danneggiate sono invece sane, ma la loro attività è compromessa dall'infiammazione dell'ambiente in cui si trovano.

Le cellule in questione sono quelle che producono la sostanza che riveste e protegge le connessioni fra le cellule nervose, la mielina, e i nuovi dati indicano che sono indistinguibili nelle persone con la malattia e in quelle sane. I nuovi risultati confermano quelli di una ricerca pubblicata lo scorso settembre dagli stessi ricercatori sulla rivista Acta Neurologica e sono stati ottenuti facendo regredire nello sviluppo cellule nervose prelevate da tre persone con la sclerosi multipla e da tre persone sane. Si sono ottenute così delle cellule immature, chiamate “staminali pluripotenti indotte”, ed è emerso che erano indistinguibili fra loro, mentre la loro capacità di produrre la mielina era compromessa solo quando le cellule si trovavano a contatto con cellule infiammatorie.

"Si tratta di una svolta importante nella comprensione dei meccanismi alla base della sclerosi multipla", ha osservato Martino. "La sclerosi multipla - ha proseguito Martino - è sempre stata considerata una malattia della mielina, cioè una malattia che peggiora progressivamente proprio perché le cellule che producono mielina (gli oligodendrociti) non riescono più a produrne di funzionante. La causa di tutto ciò si era pensato potesse essere dovuta ad un difetto intrinseco degli oligodendrociti". I nuovi risultati indicano adesso "che non è così - ha rilevato Martino - e che le cellule che producono mielina delle persone con SM non sono difettose in sé, anzi sono in grado di produrre mielina sana e funzionante. È l'ambiente infiammato in cui si trovano che ne condiziona l'efficienza rigenerativa”.

L’obiettivo del programma internazionale che Martino dirige, sostenuto dalla Progressive MS Alliance (PMSA) con il contributo dell'Associazione Italiana Sclerosi Multipla (Aism) con la sua Fondazione, è sviluppare nuove terapie per la sclerosi multipla con il contributo di otto centri di ricerca. Ai due studi appena pubblicati hanno contribuito, con il San Raffaele, University Hospital di Münster, Icm (Institut du Cerveau et de la Moelle épinière, l'Hôpital Pitié Salpêtrière) e McGill University di Montreal.

venerdì 27 novembre 2020

Dal cioccolato un aiuto per la mente

 

NUTRIZIONE | REDAZIONE DOTTNET | 24/11/2020 14:08

Lo suggerisce uno studio sulla rivista Scientific Reports, basato sull'analisi degli effetti del consumo di una bevanda a base di cacao, arricchita con flavonoidi.

Il cioccolato, soprattutto quello molto fondente, ricco di antiossidanti potrebbe aiutare l'agilità mentale potenziando velocità e accuratezza di esecuzione di test che mettono alla prova appunto le proprie funzioni cognitive. Lo suggerisce uno studio sulla rivista Scientific Reports, basato sull'analisi degli effetti del consumo di una bevanda abase di cacao, arricchita con flavonoidi, antiossidanti naturali presenti anche nel cioccolato nero (quello dal gusto più amaro), ma abbondanti soprattutto in frutta e verdura. Condotto da esperti della University of Birmingham, lo studio mostra che dopo aver consumato il drink a base di cacao arricchito di flavonoidi, i partecipanti vanno meglio alle prove mentali cui sono stati sottoposti, specie se queste prove sono molto complicate e specie se sperimentalmente i ricercatori riducono la concentrazione di ossigeno nell'ambiente dove sono eseguiti i test cognitivi. Secondo quanto visto con la risonanza magnetica i flavonoidi agiscono migliorando circolazione sanguigna e livelli di ossigenazione del cervello. Naturalmente, ricordano gli autori del lavoro, i flavonoidi sono molto abbondanti specie in frutta e verdura, alimenti globalmente più sani del cioccolato.

lunedì 26 ottobre 2020

Malattie infiammatorie intestinali: attenzione al fruttosio


La dieta è una parte fondamentale nella prevenzione e nella gestione delle malattie. Ora un nuovo studio suggerisce che il consumo di fruttosio può peggiorare l’infiammazione intestinale comune nelle malattie infiammatorie intestinali (Ibd).
Questo tipo di patologie è in aumento in tutto il mondo. Secondo i Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie, ogni anno vengono diagnosticati circa tre milioni di americani con Ibd, con un aumento di un milione rispetto all’incidenza della fine degli anni Novanta. Il consumo di una dieta occidentale, compreso il fruttosio, è associato a tassi crescenti di obesità e diabete, e l’Ibd può essere una delle malattie aggravate dall’assunzione di fruttosio.

I risultati dello studio forniscono la prova di un legame diretto tra il fruttosio e l’Ibd e sottolineano come un elevato consumo di fruttosio possa peggiorare la malattia nelle persone che già ne soffrono.
Il fruttosio è stato testato nei topi, nei quali si è osservato un peggioramento dell’infiammazione del colon, insieme a notevoli effetti nei batteri intestinali. Adesso gli esperti pensano a sviluppare interventi per prevenire gli effetti pro-infiammatori del fruttosio e valutare se questa dieta aumenti la tumorigenesi associata alle coliti. Questo secondo punto è particolarmente importante perché i pazienti affetti da Ibd sono a maggior rischio di sviluppare il cancro al colon a causa dell’infiammazione cronica dell’intestino.


(Cellular and Molecular Gastroenterology and Hepatology, http://dx.doi.org/10.1016/j.jcmgh.2020.09.008)

giovedì 15 ottobre 2020

Covid: col sovrappeso si rischia un'infezione grave

INFETTIVOLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 13/10/2020 10:38

Il Cdc statunitense ha aggiornato il proprio 'warning' aggiungendo questa categoria

Essere sovrappeso, anche se non si arriva all'obesità, aumenta il rischio di conseguenza gravi in caso di infezione da Covid-19. Lo afferma il Cdc statunitense, che ha aggiornato il proprio 'warning' aggiungendo appunto questa categoria, mentre prima era considerato a rischio maggiore solo chi era obeso. Già dall'inizio della pandemia, sottolinea il documento del Cdc, l'obesità era stata indicata tra i fattori di rischio, perchè le persone obese hanno un maggior tasso di malattie respiratorie e un ridotto volume polmonare. Le prove 'a carico' dell'essere sovrappeso sono minori, spiegano gli esperti, "ma sono sufficienti a far aggiungere la condizione nella lista di quelle che potrebbero aumentare il rischio di malattia grave". Alcuni studi hanno evidenziato ad esempio che chi vive questa condizione ha il doppio del rischio di essere intubato rispetto a chi ha un indice di massa corporea normale e il 40% di rischio in più sia di essere ricoverato che di morte. Una possibile spiegazione, concludono gli autori, sta nel fatto che i chili in più indeboliscono il sistema immunitario. Fra i fattori che aumentano il rischio, sottolinea il Cdc, ci sono sicuramente invece anche il fumo, i tumori e alcune malattie croniche, come il diabete.


mercoledì 7 ottobre 2020

La modifica del microbiota dell'intestino da vecchi porta a un calo della memoria

 

GASTROENTEROLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 03/10/2020 13:06

La modificazione delle specie batteriche del microbiota intestinale, che si verifica durante l'invecchiamento, causa un calo significativo della memoria, anche di quella spaziale. Lo dimostra una ricerca internazionale guidata dal team dell'Università di Firenze, coordinato da Claudio Nicoletti, che è stata pubblicata sulla rivista scientifica Microbiome. Lo studio - che ha coinvolto ricercatori della University of East Anglia e del Quadram Institute Bioscience di Norwich (Gb), in collaborazione con le Università di Milano, Siena e Nottingham - ha valutato gli effetti di un trapianto di microbiota intestinale, ottenuto da topi anziani, in riceventi giovani.

"Che il microbiota e l'asse intestino-cervello siano estremamente importanti per la nostra salute è cosa nota - racconta Claudio Nicoletti, professore associato di Anatomia umana dell'ateneo di Firenze -. Non era però ancora stata dimostrata la diretta influenza delle modificazioni del microbiota legate all'invecchiamento sul sistema nervoso centrale e sulle funzioni cognitive e comportamentali che esso controlla". Nella ricerca inizialmente i topi giovani che avevano ricevuto il trapianto di microbiota "invecchiato" non hanno mostrato alterazioni nei comportamenti legate a ansia o attività motoria. Ciò che i ricercatori hanno osservato però è stata una significativa diminuzione della memoria e in particolare di quella spaziale, legata all'orientamento. Le ulteriori analisi condotte hanno chiarito come tali deficit cognitivi siano collegati all'alterazione di una serie di proteine dell'ippocampo - un'importante area del sistema nervoso centrale - che giocano un ruolo nella neurotrasmissione e dinamicità sinaptica. 

ricercatori hanno osservato inoltre che le cellule della microglia, che rivestono una funzione di controllo delle cellule neuronali, mostravano tipici segni di invecchiamento. "Le nostre analisi - spiega il ricercatore - suggeriscono che durante l'invecchiamento la diminuzione di specie batteriche intestinali che producono molecole come gli acidi grassi a catene corta, importanti per lo sviluppo e il funzionamento del sistema nervoso centrale, siano almeno in parte responsabili del declino delle facoltà cognitive". "Lo studio dimostra inoltre come il corretto funzionamento dell'asse intestino-cervello sia fondamentale per il mantenimento di importanti funzioni cognitive in tarda età - commenta Nicoletti - e suggerisce che, anche per gli esseri umani, interventi sulla composizione del microbiota possano in futuro contribuire a limitare i danni dell'invecchiamento sul sistema nervoso centrale".

giovedì 1 ottobre 2020

Dai batteri dell'intestino una cura per le malattie metaboliche


DIABETOLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 29/09/2020 13:50

Comprendere i meccanismi attraverso i quali il microbioma influenza l'equilibrio metabolico potrebbe avere importanti ricadute su prevenzione, diagnosi e trattamento delle patologie legate all'insulino-resistenza











Il microbioma dell'intestino è in grado di influenzare il metabolismo. L'attività di molti organi è infatti influenzata da sostanze prodotte dai batteri e queste, in maniera diretta o indiretta, influenzano numerosi processi fisiologici e malattie. Tra loro, anche l'obesità e il diabete. Quindi, la comprensione dei meccanismi attraverso i quali il microbioma influenza l'equilibrio metabolico potrebbe avere importanti ricadute su prevenzione, diagnosi e trattamento delle patologie legate all'insulino-resistenza. In uno studio condotto all'Università di Tor Vergata e presentato dai giovani soci Sid per il 56esimo congresso annuale dell'Easd (European Association for the study of diabetes) emerge proprio come un metabolita dell'intestino potrà essere in futuro una possibile terapia per le malattie metaboliche. "Dati preliminari del nostro laboratorio - commenta Mara Mavilio, del dipartimento di medicina dei sistemi dell'Università degli Studi di Roma Tor Vergata - ottenuti da uno studio su 42 soggetti, hanno rivelato una diversa espressione di cluster metagenomici, geni intestinali quali la Pck1 e metaboliti sistemici come Ipa nei soggetti obesi rispetto ai normopeso. Inoltre, studi condotti da altri gruppi di ricerca riportano la capacità di Ipa, un metabolita intestinale prodotto dai microbi, di modulare la risposta infiammatoria".

Il microbiota intestinale, proprio con il rilascio di alcuni metaboliti come l'Ipa, sarebbe in grado di ridurre, spiega Mavilio, "lo stato pro-infiammatorio e le alterazioni glucidiche presenti in condizioni patologiche come l'obesità, proponendo così nuovi target terapeutici per la cura e la prevenzione delle malattie metaboliche". L'Ipa, dice Massimo Federici, ordinario di medicina interna a Tor Vergata, "ha potenzialità da esplorare sia come biomarcatore di rischio metabolico, sia come agente terapeutico". Per Francesco Purrello (nella foto), presidente della Sid, la Società italiana di diabetologia, ci sono "riflettori accesi da alcuni anni sull'importanza del microbiota e del microbioma intestinale nell'insorgenza e nella progressione del diabete". "Si tratta di un sistema complesso - aggiunge - che agisce anche sul sistema immunitario e sui meccanismi dell'infiammazione cronica, che sicuramente hanno profonde influenze sul metabolismo di zuccheri e lipidi. Da queste ricerche ci aspettiamo svolte importanti nel prossimo futuro".

venerdì 4 settembre 2020

La forza della mano può indicare il rischio di diabete 2

Lo rileva una ricerca dell'Università di Bristol e della Eastern Finland, pubblicata su Annals of Medicine 

La forza che abbiamo nello stringere o impugnare qualcosa può essere un indicatore del rischio di sviluppare diabete di tipo 2. Lo rileva una ricerca dell'Università di Bristol e della Eastern Finland, pubblicata su Annals of Medicine.Fino a poco tempo, c'erano prove incoerenti sulla relazione tra la forza di presa e il diabete di tipo 2. In una recente revisione della letteratura che ha visto l'analisi di dieci studi pubblicati sull'argomento, gli stessi ricercatori hanno dimostrato che le persone con valori più elevati di forza di presa della mano avevano un rischio ridotto del 27% di sviluppare il diabete di tipo 2.In quest' ultima ricerca, gli studiosi hanno seguito 776 uomini e donne di età compresa tra 60 e 72 anni senza una storia di diabete per un periodo di 20 anni e hanno misurato la potenza della presa della mano utilizzando un dinamometro a impugnatura. Ai pazienti è stato chiesto di stringere le impugnature del dinamometro con la mano dominante con il massimo sforzo isometrico e mantenerlo per cinque secondi.Un'analisi dei risultati ha dimostrato che il rischio di diabete di tipo 2 è risultato ridotto di circa il 50% per ogni unità di aumento del valore della forza della presa. Questa associazione è persistita anche dopo aver preso in considerazione diversi fattori consolidati che possono influenzare il diabete di tipo 2 come età, storia familiare di malattia, attività fisica, fumo, ipertensione, circonferenza della vita e glicemia a digiuno. Quando le informazioni sulla forza di presa della mano sono state sommate a questi fattori consolidati che sono già noti per predire il diabete di tipo 2, la previsione del rischio di malattia è migliorata ulteriormente."La valutazione della forza di presa- spiega l'autore principale dello studio Setor Kunutsor- è semplice, poco costosa e non richiede competenze e risorse molto qualificate e potrebbe essere potenzialmente utilizzata nell'identificazione precoce di soggetti ad alto rischio di futuro diabete di tipo 2".


 DIABETOLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | fonte: Annals of Medicine

martedì 28 aprile 2020

L'obesità è un ulteriore fattore di rischio per COVID-19


SANITÀ PUBBLICA | REDAZIONE DOTTNET | 27/04/2020 15:20

Il riconoscimento dei fattori di rischio di morbidità e mortalità è importante per determinare le strategie di prevenzione e per indirizzare i pazienti verso terapie adeguate.

I fattori di rischio associati a COVID-19 comprendono ipertensione, età avanzata, diabete e stato di immunodepressione. Uno studio condotto a New York su 3.615 pazienti sintomatici SARS-CoV-2 positivi ha mostrato che il 21% aveva un indice di massa corporea (BMI) compreso tra 30 e 34 ed il 16% >35. Il 51% delle persone visitate è stato dimesso dal pronto soccorso, il 37% ospedalizzato ed il 12% è stato direttamente ammesso o trasferito in terapia intensiva dopo il ricovero. Una differenza significativa per quanto riguarda l’ospedalizzazione e l’assistenza in terapia intensiva è stata riscontrata solo nei pazienti di età inferiore a 60 anni: quelli con un valore di BMI tra 30 e 34 mostravano circa il doppio di probabilità di essere ammessi in terapia intensiva rispetto agli individui con un BMI <30. Quelli con BMI >35 avevano fino a 3,6 volte più probabilità. Nelle persone al di sotto dei 60 anni - generalmente meno colpite da Covid-19 rispetto a quelle di età più avanzata - l’obesità sembra essere un ulteriore fattore di rischio, sinora non identificato, di ospedalizzazione e terapia intensiva.

Autori: Jennifer Lighter, Michael Phillips, Sarah Hochman et al

Titolo: Obesity in patients younger than 60 years is a risk factor for Covid-19 hospital admission

Rivista: Clinical Infectious Diseases, Published: 09 April 2020

giovedì 23 aprile 2020

Covid e animali domestici: tutto quello che bisogna sapere

Esiste la possibilità che gli animali da compagnia possano contrarre l’infezione attraverso il contatto con persone affette da Covid-19 e sviluppino occasionalmente la malattia. 
Al contrario non esistono evidenze che gli animali da compagnia svolgano un ruolo nella diffusione del virus all’uomo. 
Le persone positive al Covid-19 dovrebbero quindi evitare di avere contatti con gli animali e non dovrebbero, nei limiti del possibile, occuparsi del loro accudimento. 

I nostri animali domestici sono a rischio Covid-19? E possono trasmettere il virus all'uomo? A far luce e definitiva chiarezza sulla controversa questione è l'ultimo rapporto tecnico dell'Istituto superiore di sanità. Qui si spiega innazitutto che gli animali da compagnia possono essere potenzialmente esposti al virus Sars-CoV-2 in ambito domestico e contrarre l’infezione attraverso il contatto con persone infette. Ciononostante, allo stato attuale, non esistono evidenze che gli animali da compagnia svolgano un ruolo epidemiologico nella diffusione all’uomo di Sars-CoV-2. 

"La diffusione dell’infezione da virus Sars-CoV-2 nell’uomo avviene per contatto interumano - si spiega nel rapporto -. Tuttavia, i gatti, i furetti e, in misura minore, i cani sono suscettibili all’infezione con Sars-CoV-2. Non esistono evidenze che gli animali da compagnia abbiano un ruolo epidemiologico nella diffusione del virus all’uomo ma esiste la possibilità che gli animali da compagnia possano contrarre l’infezione attraverso il contatto con persone affette da Covid-19 e sviluppino occasionalmente malattia".

A tal proposito si chiaresce come, a fronte di oltre 2,3 milioni di casi di Covid-19 riportati nell’uomo, in tutto il mondo sono stati segnalati solo quattro animali (due cani e due gatti) con diagnosi certa per Sars-CoV-2 in condizioni naturali. "Ciononostante, occorre agire con un principio di precauzione ed evitare che gli animali possano contrarre l’infezione ed eliminare il virus, analogamente a quanto accade nell’uomo e come suggerito dalle infezioni sperimentali".

Dall'Istituto superiore di sanità spiegano poi che ridurre l’incertezza sulla caratterizzazione del rischio Sars-CoV-2 negli animali da compagnia "consentirà di formulare raccomandazioni più efficaci e di adeguare le misure di gestione del rischio Covid-19 con un approccio One-Health. Seguendo un criterio di rischio, la sorveglianza epidemiologica negli animali da compagnia dovrebbe concentrarsi sui soggetti esposti a persone affette da Covid-19, in particolare su quei soggetti che sviluppano malattia clinica e sugli animali morti. Per poterla realizzare, occorre una stretta e attiva collaborazione tra tutte le figure coinvolte nell’accudimento, cura e tutela sanitaria degli animali".

Quanto invece al rischio di esposizione a Sars-CoV-2 per gli animali da compagnia, questo nel rapporto viene conseiderato "assimilabile a quello cui sono esposte le persone che vivono nel medesimo nucleo abitativo. Nei nuclei con persone con sospetta o confermata Covid-19, occorre adottare misure di riduzione del rischio di esposizione, anche per gli animali".

Le persone positive al Covid-19 dovrebbero quindi evitare di avere contatti con gli animali presenti nel contesto domestico e non dovrebbero, nei limiti del possibile, occuparsi del loro accudimento. "Questo dovrebbe essere assicurato prioritariamente grazie all’aiuto di un familiare o convivente e in caso di necessità, prevedendo il ricorso ad aiuti esterni. Gli aiuti esterni dovrebbero adottare misure di protezione individuali e procedure che permettano di minimizzare il rischio di esposizione diretto (contatto con le persone presenti nel nucleo abitativo) o indiretto (contatto con l’ambiente abitativo). Gli aiuti esterni devono essere informati in anticipo se l’animale di cui si prendono cura appartiene ad un nucleo in cui vivono o hanno vissuto persone con sospetta o confermata Covid-19".

Si spiega inoltre come, in corso di epidemia Covid-19, "occorre evitare gli spostamenti non necessari, compresi quelli presso il medico veterinario di fiducia o, viceversa, da parte del veterinario per le visite domiciliari. Le visite veterinarie ambulatoriali e domiciliari, in particolar modo se condotte su animali provenienti da contesti abitativi con persone con diagnosi sospetta o confermata di Covid-19, devono essere realizzate con l’impiego di DPI e di procedure atte a minimizzare il rischio di esposizione. L’eventuale ricovero presso cliniche veterinarie, di animali provenienti da contesti abitativi con persone con diagnosi sospetta o confermata di Covid-19, deve prevedere la presenza di strutture e procedure atte a garantire la minimizzazione del potenziale rischio per il personale e gli altri animali eventualmente ricoverati".

"L’allontanamento temporaneo dell’animale dall’abitazione - si spiega nel Rapporto - deve avvenire solo per motivi di benessere, bisogni fisiologici (passeggiata) o di urgenza (cure veterinarie urgenti). L’affidamento esterno dell’animale è previsto solo nel caso di impossibilità a provvedere alla salute e al benessere dell’animale da parte del proprietario e dei familiari. Per il ricollocamento dell’animale si dovrebbe tenere conto del rischio di esposizione a Sars-CoV-2 nel contesto domestico da cui si allontana. La possibilità di eseguire un test diagnostico consente, qualora il risultato sia negativo, il trasferimento in qualsiasi contesto. Gli animali con diagnosi di infezione da Sars-CoV-2 devono essere segnalati alla Asl, posti in apposita struttura e sottoposti a monitoraggio".

In ogni caso, si sottolinea come le risorse per la diagnostica di Sars-CoV-2 (tamponi, reagenti, capacità organizzativa e di laboratorio) debbano essere prioritariamente destinate alla diagnostica in campo umano.

Arriviamo così al capitolo DPI. "La scelta dei DPI da parte di proprietari, volontari, veterinari, ecc., dovrebbe essere orientata da una valutazione del rischio relativamente allo stato sanitario dell’animale, al contesto nel quale si opera e alla tipologia di attività svolta".

In conclusione, si chiarisce che chi si prende cura degli animali in contesti abitativi con persone con sospetta o confermata Covid- 19, dovrebbe prestare particolare attenzione all’insorgenza di sintomi respiratori o gastroenterici (difficoltà respiratorie, tosse, vomito, diarrea, inappetenza, febbre) a carico dell’animale. "L’insorgenza di questi sintomi andrebbe tempestivamente segnalata per via telefonica al veterinario di fiducia. I casi di malattia per i quali sono state escluse le diagnosi differenziali che potrebbero spiegare la condizione clinica dell’animale andrebbero segnalati al Servizio Veterinario della Asl ed eventualmente sottoposti a test per Sars-CoV-2, da parte di un laboratorio autorizzato".

"Gli animali che dovessero venire a morte nei contesti domiciliari in cui vivono persone con sospetta o confermata Covid-19, dovrebbero essere segnalati al Servizio Veterinario della Asl e inviati all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale territorialmente competente, per gli accertamenti diagnostici del caso. Gli animali positivi ai test diagnostici per Sars-CoV-2 dovrebbero essere segnalati al Servizio veterinario della Asl ed essere posti in isolamento presso una struttura idonea dedicata, fino alla guarigione. Nei contesti abitativi in cui vivono persone con sospetta o confermata Covid-19, è possibile valutare l’opportunità di mantenere l’animale presso l’abitazione, solo se si realizzano condizioni abitative tali da consentire di limitare in modo efficace il contatto dell’animale positivo con altri animali e persone presenti nell’abitazione". 

Fonte:
Quotidiano Sanità
Rapporto ISS

mercoledì 8 aprile 2020

Riapertura al pubblico dello Studio Nutrizionistico

Gentili Pazienti, 

vi comunico la riapertura al pubblico dello Studio Nutrizionistico. 

La nostra attività rientra tra quelle ritenute essenziali da ultimo DPCM pertanto dopo aver sanificato e riordinato logisticamente l'ambulatorio per far fronte alle normative vigenti in fase di emergenza sanitaria siamo tornati operativi e pronti ad accogliere i pazienti. 

Info e prenotazioni al 349.6674360. 


Vi auguriamo Buona Pasqua!

lunedì 6 aprile 2020

Dieta personalizzata nel trattamento del cancro

Le diete su misura potrebbero un giorno svolgere un ruolo chiave nel trattamento del cancro, “affamando” i tumori di nutrienti chiave e persino aumentando l’efficacia di alcuni farmaci. 

Kanarek e colleghi, con il loro lavoro, hanno approfondito tre aree: come la limitazione di alcuni nutrienti influisce sul metabolismo cellulare e sull’interazione con le vie di segnalazione; come la supplementazione di alcuni nutrienti o l’esaurimento degli stessi potrebbe essere usato per curare il tumore e, infine, come dieta e terapia possono fornire un trattamento del cancro su misura.

Le restrizioni dietetiche del glucosio e del fruttosio, che alimentano la crescita del tumore, sono probabilmente utili nel trattamento di molti tipi di cancro, osservano gli autori. Sebbene non vi siano prove sufficienti per raccomandare, ad esempio, una dieta chetogenica, “ridurre il consumo di glucosio, monitorare i suoi livelli nel sangue e la secrezione di insulina nei pazienti e aiutare i pazienti a mantenere una dieta a basso contenuto di carboidrati probabilmente migliorerà la sopravvivenza a molti pazienti con il cancro”.

Altri potenziali approcci discussi da Kanarek e dal suo team comprendono la restrizione dietetica di aminoacidi come metionina e serina; l’integrazione con istidina o mannosio; e l’esaurimento farmacologico di asparagina, arginina, cistina, acido folico.

Altri possibili obiettivi trattati nella revisione includono glutammina e glutammato, aspartato, alanina e acidi grassi.

“Sebbene la manipolazione dietetica di molti dei metaboliti esaminati qui abbia mostrato un chiaro beneficio pre-clinico e alcuni di essi abbiano mostrato risultati promettenti negli studi clinici, non ci sono ancora linee guida chiare o regimi raccomandati di modificazione dietetica per i pazienti con cancro – conclude Kanarek – Occorre un maggior lavoro clinico e più ricerca preclinica sulla comprensione di come le modifiche dietetiche inibiscono il cancro in vivo prima che gli interventi dietetici diventino un approccio comune alla terapia contro il cancro”.


Fonte: Nature
Anne Harding
(Versione italiana Quotidiano Sanità/Nutri&Previeni)

venerdì 13 marzo 2020

Pesare troppo invecchia ed indebolisce le vie respiratorie

L'eccesso di peso riduce la funzione polmonare. Se si perde peso nel corso degli anni è però possibile invertire questa tendenza.
Mai come in questo momento in cui una pandemia che colpisce le vie respiratorie rischia di diventare il flagello della popolazione mondiale, questa evidenza dovrebbe spingerci, conclusa l'emergenza, a riconsiderare le nostre priorità e ad iniziare veramente a prenderci cura di noi stessi. Come? Attraverso una adeguata e sana alimentazione e ad una regolare attività fisica. 

E' giunto il momento di smetterla con le scuse del troppo lavoro, di pranzi e cene di lavoro, della vita sociale, della mancanza di tempo e così' via. Covid-19 ci insegna che in caso di necessità il lavoro può e deve essere interrotto, i pranzi e le cene di lavoro possono e devono essere sospese, la vita sociale può e deve essere riconsiderata e rimodulata, il tempo per prenderci cura di noi stessi può e deve essere trovato.
Le catastrofi spesso segnano un confine storico-temporale importante. Speriamo che questa catastrofe segni l'inizio del "Rinascimento salutistico popolare". Una nuova era in cui prima di tutto viene la nostra salute; non il lavoro, l'economia, i vari impegni, il divertimento...ma la nostra salute...perchè solo la nostra salute ci potrà tornare utile contro una nuova eventuale catastrofe come quella che stiamo vivendo!

Un eccessivo aumento di peso può accelerare l'”invecchiamento” polmonare, mentre perdere peso produrrebbe l’effetto opposto. È quanto suggerisce un ampio studio internazionale pubblicato da Thorax. Per due decenni, i ricercatori – guidati da Gabriela Prado Peralta, dell’Istituto di salute globale di Barcellona- hanno seguito oltre 3000 adulti tra i 20 e i 44 anni.
Per la maggior parte di loro, l’aumento di peso nel tempo è stato associato ad un’accelerazione del declino naturale della capacità polmonare che si accompagna all’età. Ma quando gli adulti più giovani erano obesi all’inizio e hanno successivamente perso peso nel tempo, hanno fatto registrare una capacità polmonare simile a quella delle persone normopeso che sono rimaste tali.

Lo studio
Peralta e colleghi hanno analizzato i dati dell’European Community Respiratory Health Survey, un ampio studio di popolazione che da decenni monitora la salute di oltre 10.000 adulti in 11 Paesi europei e in Australia.
“Tra i partecipanti nelle normali categorie di peso, sovrappeso o obesi in giovane età adulta, l’aumento ponderale da moderato a elevato è stato associato a un più rapido declino della funzionalità polmonare durante il periodo di studio”, osserva Peralta.

Le persone che erano obese in giovane età avevano una funzione polmonare più scarsa rispetto ai loro coetanei normopeso, ma la perdita di chili sembrava invertire gli effetti negativi dell’obesità sulla funzione polmonare.

“Questo è il primo studio che analizza gli effetti della variazione di peso sulla funzionalità polmonare per un periodo di 20 anni e in un campione di popolazione variegato”, aggiunge Gabriela Prado Peralta, del’Istituto di salute globale di Barcellona. “Due meccanismi probabilmente spiegano come l’aumento di peso causi un declino della funzionalità polmonare. In primo luogo, la presenza di una grande quantità di massa grassa nel torace e nell’addome limita lo spazio per l’espansione del polmone durante l’inalazione. In secondo luogo, il tessuto adiposo è una fonte di sostanze infiammatorie che possono danneggiare il tessuto polmonare e ridurre il diametro delle vie aeree”.

Fonte: Reuters Health News

Covid-19 potrebbe attaccare anche il fegato

Il 54% dei pazienti con coronavirus sviluppa anomalie al fegato durante la progressione della malattia. Per gli esperti, i pazienti con condizioni epatiche preesistenti potrebbero essere più sensibili alla Sars-CoV-2 e dovrebbero essere monitorati più attentamente



Secondo un piccolo studio condotto in Cina, ben il 54% dei pazienti con Covid-19 sviluppa anomalie degli enzimi epatici durante la progressione della malattia. L’insufficienza epatica è stata segnalata fino nel 60% dei pazienti con sindrome respiratoria acuta grave (Sars) e in pazienti con infezione da coronavirus della sindrome respiratoria mediorientale (Mers). Entrambi condividono la somiglianza della sequenza genomica con il coronavirus Sars2 (Sars-CoV-2), che è responsabile di Covid-19.



Lo studio
Fu-Sheng Wang e colleghi del Centro nazionale di ricerca clinica per le malattie infettive di Pechino hanno utilizzato i dati di sette casi di studio e del Fifth Medical Centerr of Pls General Hospital di Pechino per valutare in che modo il Covid-19 interessa il fegato. Complessivamente, tra il 2 e l’11% dei pazienti con Covid-19 ha presentato anomalie epatiche e tra il 14 e il 53% dei casi di Covid-19 ha avuto livelli anormali di alanina aminotransferasi e aspartato aminotransferasi durante la progressione della malattia.

I pazienti con Covid-19 grave sembravano avere tassi di disfunzione epatica più alti e i pazienti sintomatici hanno avuto maggiori probabilità di avere enzimi epatici elevati rispetto ai pazienti con malattia subclinica. La gamma glutamil transferasi, un biomarcatore diagnostico per la lesione dei colangiociti, è stata elevata nel 54% dei pazienti Covid-19 ricoverati al Fifth Medical Center, mentre solo un paziente (l’1,8%) ha avuto livelli elevati di fosfatasi alcalina.

Altrove, l’analisi patologica del tessuto epatico di un paziente deceduto per Covid-19 non ha trovato inclusioni virali nel fegato. La malattia epatica cronica colpisce circa 300 milioni di persone in Cina, ma finora l’interazione tra malattia epatica esistente e Covid-19 non è stata studiata.

“Considerando il loro stato immuno-compromesso, sono necessari una sorveglianza più intensa o approcci terapeutici personalizzati per i pazienti gravi con Covid-19 con condizioni preesistenti come malattie epatiche avanzate, specialmente nei pazienti più anziani con altre comorbilità – hanno concluso gli autori – Le ricerche future dovrebbero concentrarsi sulle cause di danno epatico in Covid-19 e sull’effetto delle comorbidità epatiche esistenti sul trattamento e sull’esito di Covid-19”.

Fonte: The Lancet Gastroenterology and Hepatology
Will Boggs
(Versione italiana per QuotidianoSanità/Popular Science)


domenica 1 marzo 2020

Dieta mediterranea per proteggerci dai virus



La Dieta mediterranea rende l'organismo più forte e combatte la fragilità delle persone anziane perché migliora la flora batterica intestinale, indispensabile per far funzionare il sistema immunitario e difendersi da infiammazioni e infezioni e dagli attacchi di virus e batteri. Lo fa sapere Assolatte, sulla base dello studio europeo Nu-Age condotto per un anno su un panel di anziani in cinque paesi europei, Italia compresa. Con l'allarme per l'epidemia da coronavirus, Assolatte precisa che "un microbiota intestinale in salute produce sostanze antivirali, mentre se la flora batterica è alterata, ad esempio per l'assunzione di antibiotici o per un'alimentazione squilibrata, non riesce più a proteggerci dagli attacchi esterni".

Via libera, dunque, a frutta e verdura, legumi e cereali, pesce e olio extravergine di oliva e ai prodotti lattiero-caseari, come latte, yogurt, formaggi e burro. Assolatte ricorda che i prodotti lattiero-caseari apportano batteri e lieviti che promuovono la salute dell'intestino. Yogurt e latti fermentati, in particolare, sono ricchi di batteri 'amici' come i bifidobatteri e i lattobacilli, che svolgono un ruolo fondamentale nella regolazione del sistema immunitario perché abbassano il pH dell'intestino, creando così un ambiente inospitale per i batteri 'cattivi', quelli che provocano le infezioni intestinali



NUTRIZIONE | REDAZIONE DOTTNET | 26/02/2020