Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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sabato 31 dicembre 2016

Successo di una dieta e batteri intestinali


Il successo di una dieta dimagrante potrebbe dipendere dai batteri che alberghiamo nell’intestino.

Le abitudini alimentari plasmano la composizione del microbiota intestinale e influenzano i risultati delle diete future. Lo rivela uno studio americano che potrebbe aprire la strada ad una nuova generazione di probiotici ‘amici della dieta’. Secondo questo studio, le persone abituate ad una dieta ricca di grassi e calorie hanno un microbiota intestinale in grado di mettere i bastoni tra le ruota alle diete ipocaloriche, sabotandone i risultati.

Se i risultati della dieta stentano a vedersi potrebbe essere colpa del microbiota residente dell’intestino. Una ricerca appena pubblicata su Cell Host and Microbe ha infatti dimostrato che il passaggio da una dieta americana piena di grassi e junk food ad una dieta sana, a basso contenuto calorico e ricca di verdure può non dare frutti immediati. Colpa di alcuni batteri intestinali che devono andare ‘perduti’ prima che la dieta possa avere successo.

“Quando prescriviamo a qualcuno una dieta – afferma Jeffrey Gordon, direttore del Center for GenomeSciences and Systems Biology della Washington University (St. Louis, USA) - è importante ricordare che i microbi possono influenzarne i risultati, anche in negativo. E studiando le comunità batteriche presenti nel microbiota di diverse persone siamo riusciti a individuare quali microrganismi sono in grado di promuovere gli effetti benefici di una determinata dieta”.

Per valutare come le pratiche dietetiche influenzino la composizione del microbiota intestinale e come il microbiota possa a sua volta condizionare la risposta ad un nuovo regime dietetico, i ricercatori americani sono andati ad esaminare campioni fecali di soggetti che seguivano un regime alimentare a basso contenuto calorico e ricco di vegetali e di individui che consumavano una dieta American-style, senza restrizioni di sorta. Questa analisi ha consentito di scoprire che i microbiota di questi due gruppi di soggetti differiscono profondamente.

In una seconda parte dello studio Gordon e colleghi hanno colonizzato dei gruppi di topi germ-free (cioè senza microbiota intestinale) con le due comunità di microbiota reperite nell’esperimento precedente, andando poi a nutrire gli animali con la stessa tipologia di dieta dei donatori o con quella alternativa. I topi colonizzati dal microbiota degli individui che seguivano la dieta americana, hanno mostrato una risposta più blanda alla dieta ricca di vegetali, come se i batteri abituati ad una dieta ben più ricca, ostacolassero in qualche modo i risultati della dieta ‘sana’.

A questo punto i ricercatori hanno tentato di individuare quali batteri fossero in grado di potenziare la risposta alla dieta sana, negli animali colonizzati dal microbiota abituato alla dieta americana, facendo ‘incontrare’ a piccoli gruppi questi topi con gli altri colonizzati dal microbiota degli individuati dediti ad una dieta ricca di vegetali. Questa ‘frequentazione’ ha portato ad un netto miglioramento dell’espressione dei risultati di una dieta salutare.
“Dobbiamo capire – spiega Nicholas Griffin primo autore dello studio - che le comunità microbiche che alberghiamo non sono ‘isole isolate’, ma parti di un arcipelago nel quale i batteri possono muoversi da un’isola all’altra, sono cioè quello che noi chiamiamo delle metacomunità. Molti dei batteri che sono migrati nel microbiota condizionato da una dieta americana, all’inizio non erano inizialmente presenti in molti dei soggetti abituati a consumare questo tipo di dieta.”

Si tratta di una scoperta importante che potrebbe portare a nuove strategie mirate a potenziare i risultati di una dieta a basso contenuto di calorie. Restano ancora da comprendere quali fattori determinino questo ‘scambio’ di microbi da un individuo all’altro.
Le categorie di microbi individuate in questo studio potrebbero dunque un giorno essere utilizzate come probiotici di prossima generazione da somministrare magari come coadiuvante delle diete.
Lo studio è stato finanziato dai National Institutes of Health e dal Wellcome Trust.

venerdì 9 dicembre 2016

Orzo per combattere obesità, depressione e demenza

Povero all’aspetto ma infinitamente ricco. E’ l’orzo, un cereale all’interno del quale potrebbe essere custodito il segreto per sconfiggere malattie come obesità, depressione e demenza. A dimostrarlo è stato uno studio condotto dall’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

La ricerca, rende noto la stessa Scuola Sant’Anna, è stata condotta in collaborazione con l’Istituto di Neuroscienze del Cnr di Pisa, Jol White del Gruppo Telecom Italia e Granoro che ha sviluppato una linea di pasta con farina di orzo beta, ovvero la varietà contenente la più alta concentrazione di beta-glucano idrosolubile. E’ infatti questa la molecola responsabile dei benefici dell’orzo sulla salute, un agente naturale che agisce sulle proteine su cui si poggia il nostro Dna favorendo l’espressione di geni protettivi.

Secondo lo studio condotto dal Sant’Anna di Pisa, mangiare alimenti ricchi di beta-glucano idrosolubile, come pasta, pane, biscotti o altri preparati a base di orzo, è in grado di rendere l’organismo più resistente allo stress, all’obesità e ai rischi correlati, che creano le basi per lo sviluppo di disturbi del comportamento e della memoria.

Il ‘segreto’ del beta-glucano d’orzo è che agisce da difensore della funzione di una zona del cervello chiamata ippocampo, centro di elaborazione delle emozioni e sede della memoria, nonché primo interlocutore del cuore. La ricerca ha preso a modello il comportamento sociale e biologico dei topi. “Abbiamo osservato le dinamiche che si creano tra diversi individui – spiega Vincenzo Lionetti, responsabile della ricerca – e siamo giunti alla conclusione che l’orzo non potrà risolvere le cause sociali dello stress della società di oggi, dalla disoccupazione o dal mobbing, ma può senz’altro aiutarci a non ammalarci”.

mercoledì 30 novembre 2016

Alimentazione e salute mentale

Il legame tra cibo e benessere psicofisico

Una buona alimentazione può contribuire non solo alla salute fisica, ma anche al benessere mentale. A suggerirlo sono diversi studi a cui la rivista "Clinical Psychological Science" dedica una serie di articoli che fanno il punto su questo nuovo - e difficile - campo di ricerca.
Ovviamente, come è sottolineato nella premessa agli articoli, l'attenzione alla dieta non è un'alternativa alle terapie nei casi di problemi conclamati e nemmeno una garanzia a non incorrere in questo tipo di difficoltà. Tuttavia questi studi possono mettere in evidenza interessanti correlazioni e aiutare a capire il ruolo di alcuni processi fisiologici e metabolici - dallo stress ossidativo alle disfunzioni mitocondriali fino alle disbiosi gastrointestinali e ai processi infiammatori - nel benessere psichico.

Alcuni studi precedenti avevano suggerito una possibile associazione fra una dieta ricca di carni, grassi e cibi trasformati e il rischio di sviluppare sintomi ansiosi o depressivi e, al contrario, una riduzione del rischio correlata a una dieta mediterranea ricca di frutta e verdura, ad alto contenuto di grassi insaturi, come quelli di noci e pesce, e povera di alimenti trasformati.

Lo studio ora pubblicato da Almudena Sánchez-Villegas e colleghi, delle Università di Las Palmas de Gran Canaria e dell'Università della Navarra a Pamplona, conferma l'esistenza di una forte correlazione fra significativa diminuzione del rischio (del 50 per cento circa) e dieta mediterranea, ma quando questa è inserita in un più generale "stile di vita mediterraneo", come lo chiamano gli autori, caratterizzato anche da una buona attività fisica e ricche relazioni sociali.

Tasnime N. Akbaraly e colleghi hanno invece scoperto che seguire a lungo una dieta con un alto "indice infiammatorio dietetico" - indice che esprime la tendenza di una certa dieta a stimolare l'innesco di processi infiammatori - è associata (ma solo nelle donne) a un aumento del 66 per cento del rischio di sviluppare sintomi depressivi.

Jerome Sarris, dell'Università di Melbourne, e colleghi, si sono concentrati sui potenziali interventi nutrizionali per il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), esaminando l'effetto dell'integrazione dietetica con l'aminoacido N-acetilcisteina. Grazie a un trial randomizzato e controllato, hanno scoperto che, per quanto questo tipo di integrazione non riduca i sintomi del disturbo sulla popolazione generale dei pazienti testati, i dati suggeriscono una possibile risposta positiva nei soggetti più giovani e in quelli in cui la sintomatologia aveva iniziato a manifestarsi da meno tempo.

Jane Pei-Chen Chang, del Medical University Hospital di Taiwan, e colleghi hanno trovato nei bambini complesse relazioni tra il consumo di alimenti, sintomi fisici e prestazioni cognitive. In particolare, hanno scoperto che il deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e la severità dei suoi sintomi sembrano correlati alla presenza di sintomi da carenza di acidi grassi essenziali (omega-2 e omega-6), nonostante i livelli di assunzione di questi bambini fosse uguale a quella del gruppo di controllo. Se confermata, questa relazione lascerebbe intravedere un possibile problema di metabolizzazione di queste sostanze nei soggetti con ADHD.

Infine, Joanna Lothian, dell'Università di Canterbury, e colleghi hanno condotto uno studio preliminare sull'effetto di complessi multivitaminici e multiminerali sull'insonnia, che si può presentare come disturbo a sé stante ma che spesso è associata ad altri problemi di salute mentale, che aggrava. I risultati hanno mostrato un miglioramento dei sintomi, che però - osservano i ricercatori - dovranno essere confermati da ulteriori ricerche.

venerdì 23 settembre 2016

Quando c’è lo stress mangiare sano non basta

I molti che credono che per la salute sia sufficiente seguire una dieta sana, dovrebbero sapere che questa precauzione non basta, se la giornata è veramente stressante. Lo stress, infatti, può vanificare l’effetto positivo del consumo di grassi buoni (insaturi, come quelli di semi e frutta secca, o quelli del pesce) come dimostra uno studio pubblicato sulla rivista Molecular Psychiatry. La ricerca è stata condotta presso la Ohio University da Jan Kiecolt-Glaser ed è, secondo gli autori, il primo studio che dimostra che lo stress può cancellare gli effetti positivi sulla salute che provengono dal consumo di grassi buoni.

Lo studio
Gli esperti hanno coinvolto un campione di donne e hanno servito loro due tipi di colazioni, una tipica americana con biscotti e salsa grassa o salsicce, l’altra ricca di olio di girasole e semi; i ricercatori erano all’oscuro di chi mangiava la colazione ‘pesante’ e ricca di grassi cattivi e chi quella sana ricca di semi e oli salutari. Dopo il pasto tutte le donne sono state sottoposte a esami del sangue e dai risultati i ricercatori hanno intuito chi aveva mangiato ”pesante” e chi no.

Le donne che avevano avuto la colazione sana ricca di grassi insaturi presentavano valori del sangue migliori rispetto alle altre. Ma quando lo stress entra in scena, la situazione cambia. Se il giorno precedente le donne avevano vissuto condizioni di stress (giornata difficile a lavoro o a casa), anche dopo la colazione sana i risultati dell’esame del sangue non lasciavano intravedere niente di buono.

In altri termini quando lo stress entra in gioco i valori ematici delle donne che avevano mangiato i grassi saturi erano assolutamente indistinguibili da quelli delle altre che avevano consumato un pasto sano (valori elevati di quattro sostanze legate a infiammazione e rischio di placche sulle pareti dei vasi). I risultati, conclude Kiecolt-Glaser, vanno letti però come un ulteriore invito a mangiare bene, sì da non farsi cogliere impreparati quando qualche fonte di stress si affaccia all’orizzonte.

mercoledì 21 settembre 2016

Steatosi epatica: arriva un test del sangue per identificarla


Un semplice prelievo di sangue per sapere con esattezza se e quanto il nostro fegato è ‘grasso’. Presto tutto questo sarà possibile grazie ad uno studio dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, pubblicato sulla rivista scientifica Plos One. Una novità più che interessante perché di questa temibile malattia, la steatosi epatica non alcolica (NAFLD), soffrirebbe nel mondo circa un miliardo e mezzo di persone. In Italia il 25% della popolazione e tra questi sempre più bambini.

La steatosi epatica non alcolica
La malattia in se è ‘benigna’ eppure preoccupante, perché può rappresentare un fattore predisponente a patologie epatiche più gravi, quali la steatoepatite, caratterizzata da infiammazione e necrosi del fegato, e può condurre successivamente alla fibrosi e cirrosi epatica. Il 5-10% dei pazienti con cirrosi del fegato sviluppano l’epatocarcinoma, terza causa di morte per cancro nel mondo. Attualmente la NAFLD può essere diagnosticata con precisione solo attraverso la biopsia epatica, un esame invasivo e costoso, consistente in un prelievo del tessuto epatico da sottoporre a esame istologico, o tramite ultrasonografia, un test di screening.

Lo studio
L’Università Campus Bio-Medico di Roma ha invece realizzato una possibilità inedita: un chip, ovvero una piattaforma 3D in grado di ‘funzionare’ come un fegato umano vero. E questo permetterà fra qualche tempo di verificare con un semplice prelievo ematico, grazie a questa piattaforma, la presenza patologica di grasso nel fegato. Permettendo di somministrare terapie tempestive e mirate per la cura di questa sindrome. Con questo speciale approccio, destinato a superare gli attuali limiti delle sperimentazioni in vitro e su modelli animali, sarà ora possibile, secondo i ricercatori, indagare l’origine della steatosi epatica non alcolica, una delle patologie epatiche più diffuse dei Paesi sviluppati. L’obiettivo è quello di individuare biomarcatori utili alla diagnosi precoce e alle terapie, riconoscibili grazie a un semplice prelievo di sangue.

Diabete: scoperto ormone che aiuterà nella diagnosi precoce


Si chiama betatrofina, ed è un ormone prodotto nell’uomo dal fegato che ‘misura’ la funzionalità delle beta cellule del pancreas e si candida per questo a diventare un biomarcatore per la diagnosi precoce di diabete. E un giorno, secondo i ricercatori, per la sua capacità di stimolare la formazione di nuove cellule produttrici di insulina, potrebbe diventare anche una possibile ‘cura’ per il diabete tipo 1 e tipo 2.
La scoperta è frutto di una ricerca condotta dai ricercatori della Società Italiana di Diabetologia (SID) e presentata al Congresso dell’Associazione europea per lo studio sul diabete (Easd) in corso a Monaco di Baviera. Il diabete mellito, con le sue complicanze, è uno dei maggiori problemi sanitari dei Paesi economicamente evoluti e la sua prevalenza è in continuo aumento, al punto da indurre gli esperti a parlare di epidemia mondiale di diabete.

Nel corso dell’ultimo decennio le conoscenze sulla patogenesi e la storia naturale del diabete sono cresciute notevolmente per quanto riguarda epidemiologia, predizione, funzione delle cellule beta del pancreas e potenziali nuove forme di immunoterapia per salvaguardare quelle ancora attive al momento della diagnosi. “Questi dati si inseriscono in un importante area di ricerca sulla prospettiva sulla possibilità di identificare dei biomarcatori della funzione delle beta cellule pancreatiche – commenta Giorgio Sesti, presidente della Società Italiana di Diabetologia (SID) – e di identificare precocemente la malattia”.

giovedì 15 settembre 2016

Verdure a foglia verde potenziano forza muscolare




Grazie alla presenza dei nitrati, le verdure a foglia verde, come gli spinaci che ne contengono in buone quantità, sembrano giovare alla forza muscolare migliorando le performance sportive. Lo dimostra uno studio condotto dall’Università di Leuven, in Belgio, pubblicato sulla rivista Frontiers in Physiology.
Lo studio
Gli studiosi hanno preso in esame un campione ristretto di 27 persone moderatamente allenate, ad alcune delle quali è stato dato un supplemento di nitrati (che però appunto possono essere acquisiti anche con l’alimentazione), prima di uno specifico programma di allenamento per giunta in alcun casi a bassi livelli di ossigeno, una situazione simile a quella riscontrabile in altitudine.

Dopo sole cinque settimane è stato osservato un cambiamento della composizione delle fibre muscolari che è collegato a un miglioramento delle performances sportive. Anche se il messaggio che arriva dallo studio è quello che mangiare verdure o comunque acquisire i nitrati possa aiutare nello sport, gli studiosi avvertono tuttavia che è meglio non esagerare: la sicurezza di queste sostanze a quantità troppo elevate per l’uomo non è stata ancora provata.

giovedì 8 settembre 2016

Ovaio policisitico: pochi ginecologi monitorano tolleranza al glucosio e profilo lipidico


Sono pochi i ginecologi che richiedono il test di tolleranza al glucosio a due ore e il profilo lipidico alle donne con sindrome dell’ovaio policistico (PCOS), anche se sono due test altamente raccomandati. A sottolinearne l’importanza anche l’ACOG (American Congress of Obstetricians and Gynecologists), che ha raccomandato a tutti i clinici di richiedere sempre questi due esami: ogni due/cinque anni la curva glicemica e ogni due anni i test per valutare la dislipidemia.

Il sondaggio
In una ricerca condotta online da Amy Dhesi del Kaiser Permanente Medical Center di Los Angeles e dai suoi colleghi, è stato chiesto ai ginecologi quali test avrebbero richiesto per i pazienti con PCOS ad una prima visita e come avrebbero poi gestito il follow-up.

Il team di ricerca ha ottenuto una risposta da 157 medici. Di questi circa la metà ha dichiarato che almeno il 10% dei propri pazienti soffre di PCOS. Il 22% dei medici intervistati non richiederebbe un qualsiasi test di screening durante la prima visita per almeno la metà delle loro pazienti con PCOS.

Tra i test comuni più prescritti per lo screening della tolleranza al glucosio ci sono l’emoglobina A1C e i livelli basali di glucosio nel sangue a digiuno, secondo quanto riportato nel lavoro pubblicato dall’ American Journal of Obstetrics and Gynaecology. Solo il 7% degli intervistati avrebbe prescritto un test di tolleranza al glucosio a due ore nel corso della prima visita. Più alta la percentuale dei ginecologi attenti ai valori del colesterolo: il 54% ha infatti detto di richiedere un profilo lipidico a digiuno alle proprie pazienti con PCOS. Solo nove medici tra quelli intervistati è solito prescrivere entrambe le analisi alle donne con la sindrome dell’ovaio policistico.

Tra i principali motivi per cui il test a due ore non viene richiesto la scomodità d’esecuzione per la paziente e, secondo più di un ginecologo su cinque, la scarsa influenza che il risultato avrebbe sulle modalità di trattamento proposto.

Fonte: Am J Obster Gynecol 2016

lunedì 8 agosto 2016

Obesità infantile: danni al fegato da cibo spazzatura e zuccheri raffinati

Secondo una ricerca della Fondazione italiana fegato (Fif) condotta nei laboratori dell’Area Science Park di Trieste, e pubblicata sulla rivista Plos One, che analizza la cattiva alimentazione e le conseguenze patologiche dell’obesità infantile, l’obesità nei bambini mette a rischio soprattutto il fegato. Con una dieta a base di junk food – il cibo spazzatura – e di zuccheri raffinati è infatti in agguato l’insorgenza della sindrome metabolica, con le relative implicazioni a carico di quest’organo, che non è più in grado di smaltire l’eccesso di grasso.

Studio sui topi
Lo studio, iniziato su roditori, ha consentito di sviluppare un modello che riproduce l’insorgenza della sindrome metabolica in età infantile con le sue implicazioni a carico del fegato, le cui cellule a un certo punto non sono più in grado di smaltire l’eccesso di grasso. Il risultato è il manifestarsi della steatosi epatica non alcolica (Nafld) e della steatoepatite non alcolica (Nash). I ricercatori della Fif hanno riscontrato che nell’età pediatrica la progressione della malattia è più veloce, con prognosi generalmente più grave rispetto agli adulti. E’ inoltre emersa una differenza di genere nella velocità di sviluppo della malattia, che vede nei maschi di topo una progressione più rapida nella fase iniziale, anche se il danno finale risulta equivalente tra maschi e femmine.

Più in dettaglio, lo studio consisteva nell’alimentare sei topi con una dieta ad alta percentuale di grassi e aggiunta di fruttosio nell’acqua, cominciata subito dopo lo svezzamento (tre anni umani) e proseguita per 16 settimane, fino all’età adulta (30 anni umani). Il 100% dei soggetti di entrambi i sessi ha sviluppato la steatosi epatica in quattro settimane e un certo grado di fibrosi (“cicatrici” nel fegato) in otto settimane, con l’86% dei maschi e il 15% delle femmine con fibrosi di stadio 2 (il “punto di non ritorno”) in sedici settimane.

“Considerando che l’obesità infantile è in esplosione anche da noi – commenta Claudio Tiribelli, direttore della Fif e tra gli autori dell’articolo – e che il danno al fegato da sindrome metabolica diventerà nei prossimi anni la principale causa di trapianto, il modello sarà un’ottima piattaforma per studiare i meccanismi che portano al danno, capire le differenze maschio/femmina e testare farmaci e nuovi approcci diagnostici”.

Bambini. Il “fegato grasso” aumenta il rischio di diabete.

Una ricerca americana evidenzia che negli Stati Uniti circa sette milioni di bambini sono affetti da steatosi epatica, ovvero la malattia del “fegato grasso”. E quasi un terzo di questi piccoli sono colpiti anche da una condizione di pre-diabete o da malattia diabetica. “La NAFLD, o steatosi epatica non alcolica, è uno dei maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di diabete di tipo 2 in età pediatrica – dice Jeffrey B. Schwimmer, direttore della Clinica per il fegato grasso dell’ospedale pediatrico Rady di San Diego e principale autore dello studio – La prevalenza del diabete di tipo 2 è di circa 1 su 2.500 persone nella popolazione generale, di 1 su 200 nei bambini afflitti da obesità e di 1 su 15 nei bambini con steatosi epatica non alcolica”.

La NAFLD può essere responsabile di cicatrici epatiche e può portare a insufficienza epatica e alla necessità di ricorrere a un trapianto di fegato. Questa patologia – che può originare da una predisposizione genetica, ma può anche essere correlata all’obesità e ad alcuni farmaci – può essere trattata ma non curata definitivamente. Nei soggetti adulti la steatosi epatica non alcolica si correla con un anomalo metabolismo degli zuccheri. Le persone con NAFLD che hanno il diabete tipo 2 hanno un rischio più elevato di incorrere in una grave forma di malattia epatica, la steato-epatite non alcolica (NASH) che porta a un elevato rischio di cirrosi e cancro del fegato.

Lo studio
I ricercatori hanno valutato 675 bambini sotto i 18 anni di età con NAFLD. L’indice medio di massa corporea (BMI) era di 32, al di sopra della soglia clinica per l’obesità, che è 30. Il 23% dei bambini con NAFLD presentava una condizione di pre-diabete e quasi il 7% aveva un diabete di tipo 2. Le femmine con NAFLD hanno avuto cinque volte più probabilità di avere il diabete di tipo 2 rispetto ai maschi. Gli studiosi hanno anche segnalato che oltre il 40% dei bambini con diabete tipo 2 era affetto da NASH, rispetto al 34% dei bambini con pre-diabete e il 22% di quelli con livelli glicemici normali.

“Quando il fegato diventa grasso, alcune delle sue vie metaboliche progressivamente si deteriorano, in primo luogo quella che modula la sensibilità all’insulina – sottolinea Valerio Nobili, capo dell’Unità di ricerca del fegato all’ospedale Bambino Gesù di Roma – Attualmente il trattamento della NAFLD consiste nel migliorare lo stile di vita, in particolare l’alimentazione, l’attività fisica e il benessere mentale. In base ai risultati di questo studio, i bambini con steatosi epatica andrebbero monitorati circa i valori di zuccheri nel sangue e la progressione della malattia epatica, il diabete e le conseguenze di entrambi queste patologie”.

Fonte: JAMA Pediatr 2016

lunedì 25 luglio 2016

Sindrome dell’intestino irritabile. Efficace la dieta ‘a basso FODMAP’

Un editoriale pubblicato sul British Medical Journal rilancia l’importanza e l’efficacia della dieta a basso contenuto di FODMAP cioè di alimenti contenenti oligosaccaridi, disaccaridi, monosaccaridi e polioli, molto fermentabili e scarsamente assorbibili. E’ una dieta molto restrittiva, difficile da seguire a lungo ma che nelle mani di un bravo dietologo potrebbe permettere di individuare quali gli alimenti ‘no’, da escludere decisamente, e portare invece a reintrodurre gradualmente tutti gli altri

Si chiama sindrome dell’intestino irritabile, colpisce almeno una persona su 10 nella popolazione generale, è una condizione decisamente fastidiosa, quando non invalidante e non ha ancora una terapia.
Di qui l’interesse della proposta di un trattamento basato sulla sola dieta, ripresa da un editoriale pubblicato sul British Medical Journal, a firma di Benjamin Lebwohl e Peter H.R Green del Celiac Disease Center della Columbia University (New York). 

Chi è affetto da intestino irritabile presenta tipicamente una serie di disturbi addominali (diarrea, stipsi, meteorismo, dolori addominali) che possono essere scatenati o aggravati dal consumo di alcuni alimenti. Neppure l’eziologia di questa condizione è del tutto chiaro anche se si ipotizza un ruolo dei batteri intestinali. Per questo motivo di recente sono stati proposti per il suo trattamento antibiotici e agenti influenzanti la motilità intestinale, attraverso un’azione sulla secrezione di fluidi o sul sistema nervoso enterico. Ma l’opzione più gradita dai pazienti negli ultimi anni è stata la cosiddetta dieta a basso contenuto di FODMAP, cioè di alimenti contenenti oligosaccaridi, disaccaridi, monosaccaridi e polioli; si tratta di cibi altamente fermentabili e poco assorbibili che portano ad un aumento della flora batterica ileo-colica. Appartengono a questa categoria gli alimenti contenenti fruttosio (frutta e dolcificanti), lattosio, fruttani (prodotti a base di frumento), galatto-oligosaccaridi (legumi) e polioli (come xilitolo e mannitolo presenti nella frutta e nei dolcificanti artificiali).


Per l’effetto dei FODMAP sul microbiota, Gibson e Shepherd sono arrivati a proporli in passato quale possibile trigger di malattie infiammatorie intestinali (Crohn e RCU) ed è stato proposto di utilizzare la dieta a basso contenuto di FODMAP nel trattamento di queste condizioni, finora però senza grandi risultati. Più interessanti invece sono le prove che si stanno accumulando a favore di questa dieta nella sindrome dell’intestino irritabile. Una metanalisi su sei trial randomizzati riguardanti la dieta a basso contenuto di FODMAP ha infatti indicato una riduzione significativa (-56%) della gravità dei sintomi in chi la segue. 

Un’altra patologia nella quale la dieta a basso FODMAP potrebbe avere un razionale d’impiego è l’intolleranza al glutine ‘senza celiachia’. E’ anche questa una sindrome dalla patogenesi incerta; chi ne soffre riferisce sintomi quali meteorismo, dolori addominali e alterazioni dell’alvo ma a volte anche fatigue e cefalea dopo aver consumato cibi ricchi di glutine, pur non essendo sicuramente celiaci. In questi soggetti la dieta a basso contenuto di FODMAP sembra molto efficace.
Gli autori dell’editoriale tendono però a spegnere un po’ l’entusiasmo sull’approccio dietetico al trattamento della sindrome dell’ intestino irritabile e all’inteolleranza al glutine perché non è ancora noto se questa dieta mantenga la sua efficacia nel lungo termine; inoltre, essendo una dieta molto restrittiva, la compliance del paziente potrebbe non durare a lungo. Infine, anche in chi la dovesse adottare in maniera ferrea sul lungo periodo, non è noto se questo sia in grado di modificare il microbiota ileo-colico in maniera tale da portare ad un controllo durevole dei sintomi. Sul lungo periodo inoltre, una dieta del genere potrebbe richiedere una supplementazione di minerali e vitamine. 

Gli autori ritengono che probabilmente non tutti i FODMAP siano responsabili dei sintomi dell’intestino irritabile in tutti i pazienti; studi futuri dovrebbero dunque appurare se un approccio dietetico meno restrittivo possa avere comunque valore. Un breath test al fruttosio positivo ad esempio potrebbe consentire di restringere la lista nera degli alimenti da evitare a quelli contenenti fruttosio, piuttosto che includere di default tutti i FODMAP. Di certo, spetta ad un nutrizionista esperto ‘accompagnare’ il paziente ad adottare una dieta FODMAP e a reintrodurre via via in maniera controllata i singoli alimenti.
Infine, ricordano gli autori, la sindrome dell’intestino irritabile potrebbe consistere in un gruppo molto eterogeneo di condizioni, che rispondono in maniera diversa ad una serie di strategie dietetiche, piuttosto che ad una singola dieta ‘a taglia unica’.

giovedì 21 luglio 2016

Cannella per riattivare il cervello

Sembra che la cannella, una delle spezie più utilizzate e amate, oltre ad essere una scelta di gusto possa far bene anche al cervello; lo rende più reattivo migliorando apprendimento e memoria. E’ quanto emerge da uno studio sui topi realizzato dal Rush University Medical Center, negli Usa, e pubblicato su Journal of Neuroimmune Pharmacology.

Studio sui topi
I roditori presi in esame per la ricerca hanno ricevuto per un mese cannella in polvere. Nell’organismo la spezia è stata metabolizzata in sodio benzoato e l’attenzione dei ricercatori si è focalizzata in particolare sull’area cerebrale dell’ippocampo, una sorta di ‘centralina’ della memoria. Quando il sodio benzoato entrava nel cervello aumentavano i livelli di una proteina detta “CREB”, coinvolta proprio nella memoria e nell’apprendimento, e migliorava anche la plasticità dei neuroni cerebrali. Questo ha permesso ai topi con scarse capacità cognitive di raggiungere livelli di apprendimento e memoria normali, mentre gli stessi effetti non sono stati osservati in quelli che già avevano buone capacità in questi due ambiti. “Servono ulteriori ricerche – spiega l’autore dello studio, Kalipada Pahan – se i risultati fossero replicati in studenti con scarse capacità di apprendimento sarebbe un importante avanzamento”.

martedì 28 giugno 2016

Alimentazione e peso influenzano qualità del sonno

Una ricerca dell’Università della Pennsylvania, presentata a Sleep 2016, meeting della American Academy of Sleep Medicine e della Sleep Research Society dimostra che la qualità del sonno è anche una questione di alimentazione e peso. Le persone con qualche chilo in più, rispetto a quelle di peso normale, trascorrono più tempo del loro sonno nella fase Rem (Rapid eye movement), cioè quella in cui si sogna, caratterizzata da un aumento della frequenza cardiaca, da una respirazione più veloce e da un sonno meno ristoratore rispetto alle fasi non Rem.

Lo studio
Gli studiosi hanno osservato 36 adulti sani, seguendoli per 10 ore in due notti consecutive in ospedale. Durante la seconda notte è stata eseguita una polisonnografia, esame che registra i cambiamenti fisiologici che avvengono durante il sonno, mentre la composizione corporea e il dispendio energetico a riposo sono stati valutati il mattino seguente alla prima notte di sonno e in entrambi i giorni è stata misurata l’assunzione di cibo o bevande.

Dai risultati è emerso che gli adulti in sovrappeso mostravano una più alta percentuale di tempo trascorso nella fase Rem, ma anche che una maggiore assunzione di proteine prediceva una minore quantità di sonno trascorsa in fase 2, in cui frequenza cardiaca e respirazione sono relativamente normali e la temperatura corporea si abbassa leggermente. “Inserita in un contesto culturale in cui vi è una crescente pressione a sacrificare il sonno per mantenere la produttività, la ricerca evidenzia come comportamenti e stile di vita influenzino la qualità del sonno”, spiega l’autrice dello studio Andrea M. Spaeth.

martedì 7 giugno 2016

Dieta troppo ricca di zucchero? Ci si “rimette” anche la faccia

Non si tratta solo di far aumentare la carie dentale o i chili di troppo e la circonferenza della vita. Una dieta troppo ricca di zuccheri, danneggia anche il viso, facendolo apparire più vecchio. In inglese si chiama ‘sugar face’, cioè “faccia di zucchero”, che si manifesta con acne, borse sotto gli occhi e pelle pallida e grassa. A spiegarlo è l’Associazione dei dermatologi inglesi, come segnala il quotidiano The Independent.

Spiega l’esperta
”I cibi ricchi di zucchero – precisa la dermatologa Tamara Griffiths – hanno un alto indice glicemico, che produce un notevole carico di zuccheri nel corpo e forti fluttuazioni dell’insulina. Nel tempo tutto ciò può portare allo sviluppo di resistenza all’insulina e diabete, che possono accelerare il processo di invecchiamento”. Lo zucchero inoltre distrugge il collagene, facendo perdere freschezza e tonicità alla pelle. ”L’ingestione di cibi zuccherati – continua – agisce direttamente sull’invecchiamento della pelle, danneggiando le molecole che si producono quando gli zuccheri si combinano con proteine e grassi, in un processo noto come glicazione, e si legano al collagene e altri componenti della pelle”. Inoltre lo zucchero è un agente disidratante, e aumenta la produzione di olio nella pelle, rendendola più ‘unta’ e piena di acne. Tuttavia, concludono i medici, se la dieta è bilanciata ed è inserito in uno stile di vita sano, un po’ di zucchero non fa male. Quella che deve preoccupare è una dieta con alto contenuto di zuccheri. Il sistema sanitario inglese raccomanda un consumo giornaliero non superiore ai 30 grammi.

giovedì 21 aprile 2016

Obesità infantile e fegato grasso dipendono dal microbiota

Uno studio condotto da ricercatori dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, pubblicato sulla rivista Hepatology rivela, per la prima volta, il ruolo di alcuni batteri coinvolti nello sviluppo dell’obesità e del fegato grasso nei bambini. Sono stati individuati nel microbiota intestinale, l’insieme di microorganismi residenti nel tubo digerente, più conosciuti col nome di ‘flora intestinale’. Una scoperta rilevante, spiegano gli specialisti, perché apre la strada alla messa a punto di integratori specifici ‘personalizzati’ a base di microrganismi, i cosiddetti probiotici, che potranno essere utili per la cura di queste malattie.

Studio e prospettive

Nello studio è stato descritto un modello di microbiota associato a fegato grasso e obesità. I ricercatori hanno in pratica scoperto che nell’intestino dei bambini obesi e con fegato grasso, alcune specie batteriche sono presenti in sovrabbondanza (Ruminococcus e Dorea) se paragonate a quelle presenti in un soggetto sano, mentre altre scarseggiano (Oscillospira). L’associazione tra alterazione della flora intestinale e obesità, affermano, apre dunque ora la strada alla creazione di probiotici ‘a misura’ dei piccoli pazienti, favorendo la guarigione dell’organo nel caso di fegato grasso e il recupero del peso ottimale nel caso di obesità. Ma i vantaggi sarebbero anche di natura economica. Aumenta infatti il consumo di integratori e se in Europa la spesa media pro capite annuale per acquisti di integratori alimentari, di cui i probiotici costituiscono la parte più rilevante, è di 27 euro, in Italia si attesta invece a 41 euro pro capite. Ingente il giro di affari correlato ai probiotici: si calcola che nel 2016 si spenderanno nel mondo 42 miliardi di dollari. Un uso più ‘mirato’ dei probiotici, rilevano gli esperti, significherebbe dunque anche un risparmio per i cittadini.

Dallo studio ”emergono due evidenze molto importanti, soprattutto per i pediatri – afferma Valerio Nobili, responsabile del dipartimento delle malattie epato-metaboliche dell’ospedale -. In primis che per avere un fegato sano bisogna avere un intestino sano, popolato cioè da batteri ‘amici’. La seconda evidenza è la necessità di una più scientifica e aggiornata prescrizione dei probiotici per i bambini”. Da questo lavoro infatti, sottolinea, ”si conferma l’importanza strategica del ruolo dei probiotici nell’obesità e nel fegato grasso, ma anche e soprattutto la necessità di nuove associazioni e formulazioni di batteri per combattere tali patologie”. Parallelamente però, conclude lo specialista, ”si afferma l’inutilità dell’uso indiscriminato delle formulazioni già esistenti”.

giovedì 7 aprile 2016

Sovrappeso: i giovani perdono la memoria

I giovani in sovrappeso sembrano avere problemi con la memoria episodica, cioè quella che conserva, nel lungo termine, i ricordi delle azioni compiute nel corso della vita. Lo ha evidenziato uno studio del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Cambridge (Regno Unito) secondo cui “l’eccesso del peso può influire su struttura e funzioni del cervello”.

Lo studio
I ricercatori inglesi, si legge sul sito In a Bottle che ha riportato lo studio, “hanno trovato un’associazione tra elevato indice di massa corporea e minori prestazioni su un test di memoria episodica”. Gli scienziati hanno esaminato 50 partecipanti tra i 18 e i 35 anni, con un Indice di massa corporea (Imc) compreso tra 18 e 51: un valore tra 18-25 è considerato sano, da 25-30 indica sovrappeso, e oltre 30 significa obesità.

Ai partecipanti è stato chiesto di nascondere degli oggetti in alcune scene complesse (ad esempio un deserto con le palme). Dopo due giorni è stato chiesto loro di ricordare dove e quando li avevano nascosti. “Nel complesso, il gruppo con l’Imc più alto ha avuto prestazioni inferiori legate al ricordo e al recupero”. Secondo gli scienziati, “i risultati sembrano suggerire che i cambiamenti strutturali e funzionali nel cervello nelle persone con un alto indice di massa corporea possono essere accompagnati da una ridotta capacità di formare e recuperare i ricordi della memoria episodica. Questo può portare a un aumento dei deficit cognitivi che accompagnano l’obesità nell’età adulta”.

venerdì 25 marzo 2016

Bruciare calorie aumenta il volume del cervello e lo protegge


Uno studio statunitense evidenzia che le persone anziane - che spendono più energia praticando ogni settimana una costante attività fisica - tendono ad avere più materia grigia nel cervello, rispetto ai coetanei meno attivi, preservando così anche le funzioni cognitive.

L’esercizio fisico, comprese le camminate e la corsa, sembra essere legato alla preservazione delle strutture cerebrali, anche tra gli individui con sintomi lievi e gravi di declino mentale. È quanto emerge da uno studio condotto da un team guidato da James T. Becker, docente di psichiatria presso la School of Medicine dell’Università di Pittsburgh.”Osservando i volumi di alcune regioni cerebrali critiche si può prevedere il passaggio dalla cognizione normale ad un certo grado di perdita, da lieve a grave, delle funzioni cognitive “, ha detto Becker.

Le evidenze dello studio
I ricercatori hanno analizzato i dati di uno studio a lungo termine che indagava la salute cardiovascolare di 876 persone di non oltre 65 anni di età, al momento dell’arruolamento, che erano stati sottoposti a valutazioni delle funzioni cognitive, imaging volumetrico cerebrale e avevano risposto a questionari che indagavano le loro attività fisiche. In questi soggetti hanno poi stimato il dispendio energetico settimanale sulla base delle risposte ai questionari, e utilizzato il totale delle calorie bruciate in relazione all’attività praticata. In circa la metà dei pazienti che erano ormai ultra 78enni il volume della materia grigia è stato misurato con scansioni cerebrali.

Così – dopo aver aggiustato i dati per possibili fattori che avrebbero potuto influenzare il volume cerebrale tra cui le dimensioni del cranio, l’età, il sesso, eventuali lesioni della materia bianca cerebrale, decadimento cognitivo lieve e presenza di Alzheimer – i ricercatori hanno scoperto che un maggior dispendio energetico nelle attività del tempo libero era associato a un aumento del volume della materia grigia, in molte regioni del cervello. “Il dispendio energetico può essere correlato al rilascio del fattore neurotrofico cerebrale (BDNF), che promuove la crescita e la differenziazione di nuovi neuroni nel cervello”, ha spiegato Becker.

Il volume della materia grigia nel cervello si riduce tipicamente con l’età. Ma studi del passato hanno suggerito che un aumento del BDNF come risultato dell’esercizio fisico potrebbe aiutare a conservare una quantità “più giovane” di materia grigia. “L’attività, e il risparmio conseguente della struttura cerebrale sono i protagonisti principali della preservazione del cervello e della sua riserva cognitiva”, ha detto Becker. “Così, in presenza di una malattia degenerativa come il morbo di Alzheimer, una riserva cerebrale superiore estende il tempo cerebrale libero da demenza. Più intensa è l’attività fisica praticata e meglio staranno il cuore e il cervello”.

Ha concluso Becker:”I nostri dati suggeriscono che potrebbe non essere importante il tipo di attività fisica praticata, quanto invece la quantità di calorie spese, dal momento che il maggiore impatto è stato visto in chi aveva un dispendio calorico intorno al 25% e oltre”.

I ricercatori hanno riconosciuto alcuni limiti dello studio. Per primo il fatto che la ridotta attività fisica osservata nei partecipanti allo studio potrebbe essere il risultato di un declino generale della salute associato con la demenza. Inoltre non hanno indagato se il maggior volume della materia grigia associato all’esercizio avesse avuto alcun effetto protettivo sulle funzioni cognitive.

Fonte: J Alz Dis 2016

Kathryn Doyle

venerdì 4 marzo 2016

Celiachia: troppe diagnosi sbagliate

Gonfiore addominale, stanchezza generalizzata e mal di testa sono solo alcuni dei sintomi comuni a celiachia ed intestino irritabile ma, secondo gli esperti, la diagnosi vera per un paziente su cinque, può essere sensibilità al glutine non celiaca che potrebbe, secondo alcune stime, riguardare fino ad una persona su 10. 

A dimostrarlo è il “Glutox” uno studio tutto italiano, promosso dalla Associazione italiana gastroenterologi ospedalieri (Aigo), pubblicato sulla rivista scientifica Nutrients. Un lavoro coordinato dal Centro per la Prevenzione e Diagnosi della Malattia Celiaca della Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, che ha coinvolto 15 centri di gastroenterologia ospedalieri in tutta Italia ed esaminato 140 pazienti di età compresa tra i 18 ed i 75 anni per un periodo di circa 6 mesi. Risultato: se si interrompe l’assunzione di glutine tre pazienti su cinque, non soffrono più dei sintomi e dei disturbi sinora attribuiti alla sindrome dell’intestino irritabile o ad altre alterazioni del funzionamento dell’apparato digerente. Inoltre, 1 su cinque risponde sintomatologicamente alla reintroduzione “nascosta” del glutine.

Lo studio
“Lo studio Glutox, grazie all’osservatorio qualificato delle gastroenterologie ospedaliere, è partito con l’intento di dare una dimensione epidemiologica alla sensibilità al glutine non celiachia (SGNC)” spiega il dottor Luca Elli, coordinatore dello studio e membro del Dr. Schr Institute. In assenza di biomarker specifici, la diagnosi di sensibilità al glutine non celiaca avviene per esclusione. Per verificare, quindi, che i sintomi dichiarati dai pazienti fossero effettivamente causati dal glutine ed escludere altre cause, gli esperti hanno disegnato un percorso di tre settimane con dieta priva di glutine e hanno verificato l’andamento dei sintomi. Dopo questo periodo, per essere certi della diagnosi è stato integrato come modello di verifica lo studio in “doppio cieco” nel quale né i medici né i pazienti erano a conoscenza di cosa assumevano. I pazienti sono stati divisi in due gruppi, uno ha assunto glutine e l’altro un placebo per marcare in modo scientifico la differenza tra sintomi reali ed effetto psicosomatico. “Il successo dello studio – conclude Elli – è stato quello di aver identificato in modo chiaro un sottoinsieme di pazienti con diagnosi certa di SGNC tra quelli reattivi al glutine.

Questo approccio rappresenta un punto di partenza per lo sviluppo di un protocollo diagnostico per la SGNC ed in assoluto è il primo lavoro ad aver integrato i criteri di Salerno. Infine c’è un riscontro molto pratico: per un numero rilevante di pazienti si apre la prospettiva di una terapia dietetica di facile introduzione, come l’alimentazione senza glutine, quale soluzione al proprio stato di malessere, con il conseguente abbandono di terapie farmacologiche inadatte e spesso gravate da importanti effetti collaterali.

venerdì 26 febbraio 2016

Dieta e fertilità. Il profondo legame tra metabolismo energetico e riproduzione.

Nei mammiferi femminili, si sono sviluppati diversi meccanismi, nel corso dell'evoluzione, atti ad integrare stimoli ambientali, nutrizionali e ormonali per garantire la riproduzione in condizioni energetiche favorevoli e inibirla in caso di scarsità di cibo.

Questa strategia metabolica potrebbe essere un vantaggio in ambienti nutrizionalmente poveri, ma al giorno d'oggi purtroppo va a colpire la salute delle donne.

La disponibilità illimitata di sostanze nutritive, in associazione con un dispendio energetico ridotto, porta alle alterazioni di molte vie metaboliche col venir meno della inter-relazione finemente sincronizzata tra il metabolismo energetico e la fertilità femminile.

Sovrappeso, obesità e, di contro, anche l'attività fisica intensa sono tutte condizioni che alterano i profili di specifici di ormoni, come l'insulina e le adipochine, compromettendo la fertilità. Inoltre, specifiche classi di sostanze nutritive assunte in abbondanza possono influenzare la fertilità femminile agendo su particolari vie di segnalazione: acidi grassi, carboidrati, proteine ​​e componenti alimentari associate (come perturbatori endocrini) hanno di per sé attività fisiologiche e la loro assunzione senza equilibrio, sia in termini quantitativi che qualitativi, potrebbe mettere in pericolo l'omeostasi metabolica e la fertilità nelle donne in premenopausa.

Anche se siamo lontani da identificare una "dieta della fertilità", uno stile di vita e interventi dietetici correttivipotrebbero rappresentare una strategia promettente e preziosa per gestire l'infertilità nelle donne prima della menopausa.

Nelle donne in età fertile, l'aderenza alla dieta di tipo mediterraneo sembra ridurre il rischio di aumento di peso e la resistenza all'insulina, aumentando così la probabilità di una gravidanza, come suggerito da uno studio che mostra un aumento del 40% durante la gravidanza con successo tra le coppie sottoposte a inseminazione in vitro.

Diversi studi condotti su animali da esperimento suggeriscono che l'aumentata assunzione di oli vegetali ricchi di acido linoleico, un acido grasso n-6, che può essere ottenuto solo dalla dieta, può migliorare il processo riproduttivo. Infatti, l'acido linoleico e altri acidi grassi n-6, precursori delle prostaglandine, potrebbero svolgere un ruolo importante nell’inizio del ciclo mestruale, la crescita e lo sviluppo di follicoli antrali pre e l’ovulazione, così come nel mantenimento della gravidanza ottimizzando la recettività endometriale. Alcuni studi hanno dimostrato che il consumo di n-6 PUFA invece di MUFA è stato associato ad un ridotto rischio di infertilità ovulatoria.

Autori: Fontana R, Torre SD.
Fonte: Nutrients. 2016 Feb 11;8(2). pii: E87. doi: 10.3390/nu8020087.

Sclerosi Multipla. Lesioni cerebrali fanno perdere il senso del gusto

Molti pazienti affetti da sclerosi multipla perdono la capacità di distinguere i diversi gusti, un effetto che sarebbe associato alle lesioni a livello del cervello provocate dalla sclerosi multipla, la malattia autoimmune cronica che colpisce il sistema nervoso centrale. In uno studio americano infatti, i pazienti con sclerosi hanno distinto con più difficoltà, rispetto alle persone sane, i quattro gusti identificabili con la lingua: il dolce, l’aspro, l’amaro e il salato. La ricerca, coordinata da Richard Doty dell’Università della Pennsylvania, è stata pubblicata online sul Journal of Neurology. “Questo studio dimostra chiaramente che le sclerosi multipla è comunemente associata con una diminuzione della capacità di identificare i quattro gusti, sia nella parte anteriore che nella parte posteriore della lingua”, hanno scritto i ricercatori americani. “I dati raccolti dimostrano che la perdita di funzionalità della lingua sarebbe correlata alle lesioni in vaste aree dei lobi frontale e parietale”.

Doty, in un’intervista, ha anche sottolineato che molti pazienti affetti da Sclerosi Multipla sono in uno stato di malnutrizione. “Anche se servono ancora molte ricerche, il nostro studio, insieme ad altri, suggerisce che un significativo numero di pazienti con Sclerosi Multipla subiscono la perdita del gusto e dell’olfatto, perdite che possono impattare negativamente sull’alimentazione, sul piacere del cibo e sullo stato nutrizionale”, ha aggiunto il ricercatore americano.

Lo studio

Nello studio, sono stati coinvolti 73 pazienti con sclerosi multipla e 73 persone sane, abbinati sulla base dell’età, del sesso, dell’etnia e dell’educazione. Tutti i partecipanti si sono sottoposti a 96 test per distinguere i gusti dolce (saccarosio), aspro (acido citrico), amaro (caffeina) e salato (cloruro di sodio) nelle quattro parti (sinistra, destra, anteriore e posteriore) in cui viene comunemente divisa la lingua per la percezione del gusto. Sessantatré partecipanti allo studio si sono anche sottoposti a risonanza magnetica in 52 diverse regioni del cervello, per associare i risultati dei test del gusto al numero e al volume delle lesioni cerebrali causate dalla sclerosi. Lo studio ha dimostrato che la prevalenza nelle disfunzioni associate alla percezione del gusto tra i malati di Sclerosi Multipla era dal 15 al 32% più alta rispetto ai controlli. Una percentuale che corrisponde circa alla metà dei casi di neurite, l’infiammazione del nervo ottico che costituisce una caratteristica nella diagnosi di questa patologia autoimmune. “Questo suggerisce che l’alterazione del senso del gusto, anche se più modesta e meno evidente rispetto al difetto di visione, è una caratteristica abbastanza comune nei malati di Sclerosi Multipla”, hanno scritto gli autori.

I risultati

I dati raccolti hanno evidenziato che un maggior numero di pazienti affetti da sclerosi scendeva costantemente sotto il quinto percentile, rispetto ai controlli, nell’identificare l’amaro (15,07%), l’aspro (21,9%), il dolce (24,66%) e il salato (31,50%). I deficit nel riconoscere i gusti erano presenti in entrambe le parti della lingua, sia nella regione anteriore che in quella posteriore, mentre le donne con sclerosi si sono dimostrate più accurate nel distinguere i gusti rispetto ai pazienti di sesso maschile. I risultati hanno anche mostrato che i punteggi raggiunti nei test del gusto erano inversamente proporzionali ai volumi delle lesioni presenti a livello del lobo temporale e del lobo frontale, sia mediale che superiore, e al numero di lesioni presenti nella parte sinistra e destra del lobo frontale superiore, nella parte destra del giro cingolato anteriore e nella parte sinistra dell’opercolo parietale. Nessun deficit, invece, risultava correlato a lesioni a livello del Ponte di Varolio, del tronco encefalico o di altre zone.

L’influenza della sclerosi sul senso del gusto potrebbe coinvolgere più aree cerebrali, dal momento che lo studio ha mostrato che le strutture direttamente associate alla funzione del gusto hanno poche lesioni correlate alla patologia autoimmune. E questo, sempre secondo gli autori, potrebbe spiegare perché molti pazienti hanno funzioni sensoriali gustative normali. Doty ha anche fatto notare che i medici raramente misurano l’olfatto o il gusto nei pazienti affetti da Sclerosi Multipla e molti malati non sanno di aver perso questa capacità fino a che non si sottopongono a specifici test. “Sicuramente, la consapevolezza da entrambe le parti, sia del paziente che del medico, del deficit sensoriale della lingua potrebbe portare a una migliore consulenza nutrizionale per migliorare lo stato generale di salute del paziente”, ha dichiarato, aggiungendo che uno studio più allargato sarebbe necessario per esplorare i fattori che contribuiscono all’alterazione del senso del gusto e per studiare eventuali approcci farmacologici per ridurre questi effetti”.

Fonte: Journal of Neurology

giovedì 11 febbraio 2016

La dieta senza glutine non è adatta per gli atleti

La dieta senza glutine non è adatta agli atleti, che spesso si “autodiagnosticano” un’intolleranza al glutine, può rivelare carenze, causare stress e non aiuta a migliorare la performance, come dimostra, per la prima volta, uno studio australiano.

La performance
“Se guardiamo agli sport di alta performance, la dieta senza glutine può rivelarsi carente”, scrive la responsabile dello studio, la dietista dello sport Dana Lis dell’Università di Tasmania, sul Journal of the American College of Sport Medicine. “Non sappiamo tuttavia se comprometta direttamente l’energia di un atleta e l’assunzione di certe sostanze nutrienti, o semplicemente crei ansia attorno al cibo”.

Lo studio
Lo studio ha seguito 13 ciclisti da competizione per due settimane, sottoponendoli a quello che essi ritenevano una dieta senza glutine. Ma in una sperimentazione a doppio cieco controllato e con placebo, alcuni dei partecipanti sono stati ‘ingannati’ e alimentati con forti quantità di glutine in barrette indistinguibili da quelle senza glutine. Gli atleti, nessuno dei quali soffriva di intolleranza al glutine, non sapevano quale tipo di barretta avevano ricevuto. Alla fine di ciascuna settimana, prove ciclistiche di un’ora non hanno rivelato differenze di performance fra i due gruppi. I ricercatori hanno anche testato i partecipanti per sintomi gastrointestinali, benessere psicologico e marker ematici di infiammazioni e lesioni intestinali, senza che emergesse alcuna differenza. Numerosi atleti si “autodiagnosticano”, spesso con l’aiuto di internet, con condizioni legate al glutine, che invece colpiscono solo il 5-10% della popolazione, scrive Dana Lis. “Molti atleti si concentrano nell’eliminare il glutine piuttosto che in una dieta sana ed equilibrata, con le calorie necessarie per il loro sport”, aggiunge. Secondo un sondaggio su oltre 900 atleti, fra cui medaglie d’oro olimpiche, condotto dalla studiosa nel 2013, il 41% dei partecipanti senza diagnosi di intolleranza al glutine ha dichiarato di mangiare senza glutine per almeno la metà del tempo. Solo il 13% ha detto di evitare il glutine a causa di condizioni mediche. “E’ una moda che crea stress non necessario agli atleti che competono attorno al mondo”, conclude Lis.

Smascherati “falsi miti” sulla dieta diffusi in Internet

Migliaia di persone si affidano a Internet alla ricerca di consigli per raggiungere e condurre uno stile di vita sano. In particolare gli internauti più assidui si soffermano su suggerimenti che riguardano la dieta e le tendenze diffuse dai media in proposito sono tante e tali che può essere difficile decidere quali siano i consigli di cui veramente fidarsi e quali, invece, sono da eliminare del tutto in quanto privi di qualsiasi ragionevole fondamento scientifico. Come si può fare per non incorrere in consigli e comportamenti sbagliati e quali sono i miti da sfatare? Eccone alcuni illustrati da Lisa Malloneenutrizionista qualificata del centro universitario americano Texas A & M University Baylor College of Dentistry.

I dolci senza glutine sono più sani
“I dolci senza glutine non sono più sani degli altri dolci che lo contengono”, ha detto Lisa Mallonee. “In effetti, i sostituti del glutine possono aumentare il contenuto calorico e contribuire all’aumento di peso. Detto questo – continua- è chiaro che chi ha la celiachia o è ipersensibile al glutine deve mangiare alimenti senza glutine. Ma i dolci senza glutine si dovrebbero mangiare con moderazione e nel contesto di una dieta equilibrata”.

Gli alimenti senza grassi e senza zuccheri sono utili ad avere un corpo “senza grasso”
In effetti, quando le parole sugar-free o fat-free (‘senza zucchero’ o ‘senza grassi’) si trovano ben in vista, per esempio sulle etichetta di una confezione di cioccolato, è facile sentirsi meno in colpa e si finisce per mangiare l’intera tavoletta in una volta sola . “La scritta ‘senza grassi’ e ‘senza zucchero’ non va intesa come se si trattasse di alimenti senza calorie”, ha detto Mallonee. “Non importa che tipo di cibo si mangia, perché se si mangiano più calorie di quante se ne stanno spendendo, si aumenta di peso comunque”. E’ necessario non lasciarsi ingannare dalle scritte ed è importante leggere attentamente le etichette poste sugli alimenti. In realtà, il contenuto di grassi in molti di questi alimenti con la scritta ‘senza zucchero’ può essere estremamente elevato. Più o meno i grassi sono simili a quelli dei dolci senza glutine, dato che quando i grassi vengono rimossi dal cibo, per ottener un gusto gradevole e simile all’alimento originario, vengono aggiunti ingredienti artificiali che possono portare con se più calorie.

I carboidrati fanno ingrassare
I singoli carboidrati non causano aumento di peso, invece, è il tipo di carboidrati che scegliamo di mangiare che porta ad un aumento di tessuto adiposo nel corpo. “Abbiamo bisogno di carboidrati, perché sono la nostra fonte principale di carburante”, ha detto Mallonee. “Il vero problema dei carboidrati si trova nella dieta americana, ricca di carboidrati raffinati e alimenti trasformati. Eccedere con questi carboidrati raffinati contribuirà all’aumento di peso”. Mallonee raccomanda comunque di mantenere una dieta equilibrata con un contenuto maggiore di carboidrati complessi e minore in carboidrati semplici o trasformati. “I fabbisogni di un americano in media possono essere riassunti nei seguenti consigli: maggior consumo di frutta, verdura, cereali integrali e di alimenti meno elaborati, carboidrati raffinati e prodotti derivati dalla farina bianca,” ha aggiunto.

Il cibo sano è più costoso
“In effetti, comperare più alimenti freschi, potrebbe voler dire spendere di più, rispetto ad acquistare alimenti trasformati o fast food, ma nel bilancio generale, è molto probabile che mantenere uno stile di vita poco sano venga a costare di più in termini di spese mediche”, ha detto Mallonee. “Bisogna guardare l’impatto sulla salute a lungo termine”. Secondo Mallonee, è possibile mangiare bene ad un prezzo economico prima di tutto scegliendo la frutta e la verdura di stagione, piuttosto che frutta e ortaggi fuori stagione che costeranno sicuramente di più.

Gli spuntini notturni fanno aumentare il peso
Non importa a che ora si sta mangiando tanto quanto ciò che si mangia, ha sottolineato l’esperta. “Non importa a che ora del giorno si mangia fino a quando si sta mantenendo una dieta equilibrata, consumando cibi con moderazione e bruciando più calorie di quante se ne mangiano”.

Il digiuno è importante per purificare il corpo
L’esperta ha sottolineato che lei non consiglia mai il digiuno a meno che non vi siano scopi religiosi. “Abbiamo già uno strutturato sistema di purificazione nei reni e nel fegato”, ha detto. “Può essere pericoloso un digiuno prolungato al semplice scopo di depurarsi. Consiglio di consultare un medico prima di qualsiasi dieta estrema che incoraggia il digiuno per un periodo prolungato di tempo. Una dieta ricca di fibre è l’ideale per rimuovere le tossine dal corpo in modo naturale”, ha aggiunto. “Più si mangiano fibre e più aumenta la capacità di eliminare scarti e tossine dal corpo. Purtroppo, la maggior parte degli americani segue una dieta carica di prodotti raffinati e con basso contenuto di fibre. Questo è ciò che permette alle tossine di prosperare all’interno del nostro corpo. E’ importante anche sapere che tutti noi abbiamo cellule che potenzialmente si possono trasformare in cellule tumorali. Proprio per questa ragione mangiare sano e consumare cibi meno raffinati potrebbe determinare la morte di queste cellule potenzialmente cancerogene”.

Le barrette energetiche sono efficaci per perdere peso
I ritmi di vita odierni spesso non consentono un’adeguata preparazione dei pasti e molti americani si rivolgono alle barrette energetiche come sostituzione rapida e semplice di un pasto. Mallonee ha sottolineato che, anche se questi prodotti sono convenienti, devono essere consumati insieme con una dieta equilibrata e si dovrebbe diffidare dei loro ingredienti. “Mi riferisco soprattutto alle ‘barrette energetiche’ contenenti il tanto osannato cioccolato”, ha precisato. “Possono avere un alto contenuto di zuccheri e grassi. Se possono costituire un buon modo di rifornirsi per gli atleti che hanno bisogno di più energia, non le consiglio a una persona che cerca di aumentare la perdita di grasso accumulato in eccesso nel corpo”.

In conclusione, Internet è una risorsa eccellente per trovare spunti per la dieta e per uno stile di vita sano, ma può essere inaffidabile, secondo l’esperta statunitense. Per avere validi e sicuri consigli nutrizionali, dunque, è sempre meglio rivolgersi al proprio medico o a un nutrizionista qualificato.

Sovrappeso tra gli 8 e 10 anni: può provocare diabete e patologie cardiache in età adulta


Un nuovo studio canadese suggerisce che i bambini di 10 anni con grasso corporeo in eccesso possono avere una maggiore probabilità di sviluppare patologie cardiometaboliche rispetto ai loro coetanei più snelli.

Alcuni ricercatori canadesi hanno misurato altezza, circonferenza dei fianchi e dimensioni delle anche per valutare il grasso corporeo in circa 600 i bambini dagli 8 ai 10 anni, e hanno ripetuto le stesse misure due anni dopo. L’osservazione ha messo in evidenza che ogni aumento dell’1% di grasso corporeo, rispetto a quanto determinato all'inizio dello studio, era legato a una diminuzione del 3%, della sensibilità all'insulina. Queste variazioni possono provocare iperglicemia e conseguentemente diabete.

Lo studio, pubblicato su JAMA Pediatrics, ha anche evidenziato che una maggiore attività fisica e un minore tempo trascorso a guardare la televisione, erano collegati a una migliore sensibilità all'insulina, con un conseguente minor rischio di diabete. La riduzione del grasso corporeo potrebbe spiegare almeno in parte questa connessione, come ha sottolineato l’autore principale dello studio Melanie Henderson dell'Università di Montreal. "I nostri risultati suggeriscono che dovremmo incoraggiare i bambini, già nella fase iniziale dell’accrescimento, ad essere fisicamente attivi e a ridurre il tempo trascorso davanti alla televisione, al fine di favorire un peso corporeo sano e una migliore salute cardiometabolica più tardi nella vita", ha detto Henderson.

“Questi risultati sono importanti in ogni caso, dato che i profili metabolici riportati durante l’infanzia possono influire in seguito sul rischio di diabete, ipertensione, obesità, apnea del sonno, infarto e ictus” ha commentato Kim Eagle, ricercatore presso l’University of Michigan Frankel Cardiovascular Center di Ann Arbor. "Le decisioni quotidiane sull’attività fisica, sul tempo di sedentarietà trascorso davanti alla televisione, sui consumi alimentari e sull’entità complessiva del bilancio energetico possono influire profondamente e il futuro stato di salute dei nostri figli sarà simile", ha aggiunto Eagle.

venerdì 22 gennaio 2016

L'eccesso di zucchero “manda in tilt” cervello, apprendimento e memoria

Ecco come un eccessivo e prolungato consumo di zuccheri, una dieta squilibrata o il diabete possono gravare sulle performance del nostro cervello: ricercatori della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore presso la sede di Roma hanno scoperto, infatti, che in presenza di concentrazioni elevate di zucchero (simili a quelle che possono verificarsi in caso di del diabete) le cellule staminali del cervello - fondamentali per i processi di apprendimento e memoria nonché per la riparazione dei danni cerebrali - non riescono più a riprodursi e, quindi, a garantire il necessario ricambio di neuroni nell'ippocampo, centro nevralgico della formazione dei ricordi.

In un lavoro pubblicato oggi online sulla rivista Cell Reports, i ricercatori hanno inoltre osservato che nel cervello di animali sottoposti a restrizione calorica (dieta ipocalorica comparabile a una dieta di circa 1500 calorie al giorno) aumenta il numero di cellule staminali cerebrali. Le cellule staminali neurali sono fondamentali per il mantenimento nel tempo delle funzioni cerebrali, e un loro difetto di numero e/o di funzione è oggi considerato tra le cause del declino cognitivo nell’anziano. Lo studio, svolto dai gruppi di ricerca di Giovambattista Pani (Patologia Generale) e di Claudio Grassi (Fisiologia Umana), in collaborazione con ricercatori dell’Istituto di Fisica, mostra che un eccesso di glucosio (come quello che, per esempio, si genera nel diabete) compromette la funzione di tali cellule, riducendo la loro capacità di moltiplicarsi. La ricerca svela dunque uno dei motivi per cui, come oggi largamente riconosciuto dalla comunità scientifica, una dieta scorretta e troppo ricca di zuccheri deteriora le performance cognitive.

“Abbiano inizialmente esaminato - spiega Pani, ideatore dello studio - cosa avviene in provetta quando le cellule staminali neurali sono esposte a un eccesso di zucchero. Ebbene questa condizione sembra impedire alle staminali - normalmente presenti nell’ippocampo, sede della memoria - di autorinnovarsi. In sostanza, un eccesso di zucchero brucerebbe le riserve cellulari che servono al cervello per produrre nuovi neuroni. Quindi, temiamo che chi consuma troppo zucchero presenti una minore rigenerazione neurale con un conseguente impatto negativo sulle performance cognitive”.

Partendo da tale osservazione il lavoro ha esplorato nel dettaglio il meccanismo molecolare che sta alla base dell’effetto del glucosio sulle cellule staminali, rivelando un complesso sistema di “percezione dei nutrienti”, che coinvolge due molecole note ai neuroscienziati: il fattore di trascrizione CREB e la Sirtuina 1, quest’ultima conosciuta per i suoi effetti sulla longevità.

Infine il team di ricercatori, tra cui Salvatore Fusco e Lucia Leone, ha cercato di confermare le osservazioni compiute in provetta in animali da esperimento mantenuti in regime di restrizione calorica (dieta ipocalorica) per un periodo di tempo di circa quattro settimane. In accordo con i risultati ottenuti in vitro, si è osservato che le cellule staminali nell’ippocampo di questi animali sono più numerose (indice di un più efficace autorinnovamento) rispetto a quelle presenti nel cervello di animali nutriti senza alcuna restrizione. È peraltro noto da tempo come la restrizione calorica migliori le performance cognitive dell’animale, anche se i meccanismi cellulari e molecolari che sono alla base di tale fenomeno sono rimasti per molto tempo ignoti.

“Il nostro lavoro - conclude Grassi - ha svelato un nuovo meccanismo di regolazione delle cellule staminali cerebrali che, probabilmente, rappresenta un meccanismo generale di controllo del compartimento staminale in risposta a diversi stimoli. Le vie molecolari da noi individuate potrebbero essere bersaglio di interventi nutrizionali e farmacologici volti a preservare e potenziare questa importante «riserva cellulare» presente nel nostro cervello, soprattutto nel corso dell’invecchiamento e nelle malattie neurodegenerative. Vorrei, infine, sottolineare che le nostre ricerche si iscrivono in un impegno globale della nostra Facoltà di Medicina e chirurgia sulla prevenzione e cura delle malattie connesse alla nutrizione, tema che è stato oggetto della Giornata per la Ricerca 2015 e che sarà riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica nella primavera 2016.”

giovedì 21 gennaio 2016

Dieta sbagliata altera per sempre l’ecosistema intestinale

Nell’intestino alberga un’abbondante flora batterica in buona parte costituita da batteri ‘buoni’ che controllano le molteplici funzioni intestinali e per la parte restante da batteri ‘cattivi’ che possono arrivare a danneggiare l’equilibrio delicato dell’ecoambiente intestinale. La cattiva notizia è che molte delle specie di batteri ‘buoni’ che colonizzano l’intestino appaiono, oggi, in via di estinzione a causa della dieta sbagliata seguita nel mondo occidentale negli ultimi decenni.

Questo è quanto dimostra uno studio delle università di Stanford, Harvard e Princeton pubblicato sulla rivista Nature secondo cui, anche tornando ad un’alimentazione più corretta, è impossibile ripristinare le specie perdute. Il cosiddetto ‘microbioma intestinale’, spiegano gli autori, contribuisce a regolare diverse funzioni dell’organismo, compreso il buon funzionamento del sistema immunitario. Studi sul campo hanno dimostrato che nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori moderni c’è il 30% in più di specie rispetto a chi segue la dieta occidentale e questo potrebbe essere alla base del fatto che in queste popolazioni non ci sono allergie. A causare l’impoverimento è soprattutto l’abbandono di diete ricche di fibre in favore di carboidrati semplici e grassi.

I ricercatori hanno simulato il processo nei topi da laboratorio, sottoponendoli ad una dieta povera di fibre. Così si è visto che non solo nelle cavie il microbioma risultava impoverito, con il 60% delle specie presenti che ha visto un dimezzamento della popolazione, ma anche nella prole non erano presenti tutte le specie.

Il fenomeno rilevato, scrivono gli esperti, risulta irreversibile e anche il ritorno a una dieta ‘favorevole’ non ripristina la composizione originaria. “Questo è un ecosistema complesso, ed difficile predire quale sarà l’effetto di una perdita della biodiversità così grande – afferma Erica Sonnenburg, l’autore principale – ma è probabile che queste estinzioni avranno dei grandi effetti”.

L’enzima che “taglia via” lo zucchero in eccesso

Una importante e promettente scoperta potrebbe costituire la base per realizzare nuovi farmaci contro l’obesità e il diabete. Si tratta di un nuovo enzima che si comporta come un “antidoto” liberando l’organismo dagli effetti nocivi dello zucchero in eccesso. Resa nota sulla rivista PNAS, la scoperta si deve ad un gruppo di ricercatori dell’Università di Montreal diretto da Marc Prentki che ne spiega l’importanza rilevando che enzimi così importanti per il metabolismo degli zuccheri non vengono isolati dagli anni ’60 e probabilmente questo nuovo enzima, chiamato G3PP, sarà inserito nei libri di testo dei corsi di biochimica.

Lo zucchero, quando è in eccesso, subisce varie trasformazioni biochimiche e viene immagazzinato ad esempio sotto forma di grasso nelle cellule adipose o in forma glicogeno nel fegato. I ricercatori canadesi erano alla ricerca di meccanismi per rendere capaci le cellule del pancreas di liberarsi dello zucchero in eccesso e così si sono imbattuti nell’enzima G3PP che hanno poi scoperto essere attivo anche in altre cellule del corpo. Fondamentalmente, il G3PP è una sorta di ‘forbice molecolare’ che taglia via un gruppo chimico (un fosfato) da un composto che si forma come risultato dello zucchero in eccesso, il glicerolo 3-fosfato che è una molecola di base, per esempio, nella formazione dei grassi (dei trigliceridi). Tagliando il glicerolo 3-fosfato, l’enzima G3PP ‘libera’ il glicerolo che può poi essere espulso dalle cellule. Tale meccanismo di detossificazione è stato osservato nel pancreas, ma G3PP funziona allo stesso modo anche in altre cellule, evitando così gli effetti dannosi di un eccesso di zucchero in varie parti del corpo. I ricercatori sono al momento alla ricerca di composti attivatori di G3PP per potenziare questo processo e quindi sviluppare nuovi farmaci contro obesità e diabete.

giovedì 14 gennaio 2016

Anziani: perdere grasso aiuta il cervello

Nelle persone anziane, sembra che una piccola perdita di peso, non tanto in termini di chili persi, quanto in riduzione del grasso accumulato, specialmente a livello addominale, possa rallentare il declino delle funzioni cognitive, dovuto all’età. E’ quanto suggerisce uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism e condotto da Nidia Celeste Horio dell’Università di San Paolo. Lo studio ha coinvolto un gruppo di anziani di età media 68 anni, tutti obesi e con declino cognitivo lieve, ovvero colpiti da un deficit delle capacità cognitive associato a maggior rischio di ammalarsi di demenza senile.

Gli accumuli di grasso (adiposità), specie in sede addominale, sono stati collegati nel corso di precedenti ricerche a danni cerebrali (ridotto volume cerebrale in diverse aree neurali). A partire da queste acquisizioni l’idea dei medici brasiliani era di verificare se riducendo un po’ di peso nell’anziano con declino cognitivo lieve fosse possibile recuperare una parte delle sue capacità cognitive perdute. Per scoprirlo gli esperti hanno coinvolto 80 anziani obesi e a metà di loro hanno chiesto di ridurre di circa 500 calorie quelle assunte quotidianamente per un anno, offrendo loro una serie di strategie nutrizionali ad hoc. Nel corso di 12 mesi a tutto il campione è stato suggerito di fare un po’ di movimento fisico.

Trascorsi i 12 mesi il gruppo di anziani cui era stata fatta la raccomandazione di ridurre l’apporto calorico giornaliero ha perso relativamente poco peso rispetto ai coetanei, però a quella perdita ponderale minima è corrisposto un miglioramento delle loro performance cognitive (memoria verbale, linguaggio, capacità di ragionamento, etc.) misurate con test ad hoc. L’aspetto più significativo, secondo i ricercatori, è che il recupero delle funzioni cognitive è risultato tanto maggiore quanto più gli anziani hanno perso adiposità addominale, indipendentemente dai chili persi.

lunedì 4 gennaio 2016

L'ormone che “frena” la voglia di zuccheri

Un ormone prodotto dal fegato farebbe da “freno” al desiderio e alla quantità dei consumi di alcol e zuccheri. Lo hanno scoperto due diversi studi condotti sui mammiferi, uno dell’Università dell’Iowa e l’altro del Southwestern Medical Center dell’Università del Texas, pubblicati sulla rivista Cell metabolism.

Questo ormone, chiamato FGF21, riduce la voglia e il consumo di zucchero e alcol, in alte quantità, parallelamente al calo del livello di dopamina, un neurotrasmettitore che gioca un ruolo molto importante nei comportamenti associati a premi e ricompense.

Precedenti studi avevano già messo in luce l’impatto di alcuni ormoni sull’appetito, ma nessuno di questi agisce su specifici nutrienti, come carboidrati, proteine o grassi, e sono prodotti da altri organi. Questo è invece il primo ormone prodotto dal fegato che si è scoperto avere tali effetti e che potrebbe aiutare a migliorare la dieta nei pazienti con problema di diabete e obesità. Ma come funziona? Nei topi si è visto che il fegato lo produce in risposta al consumo di zucchero, per poi entrare nella circolazione sanguigna dove manda un segnale al cervello cui ‘impone’ lo stop alla voglia di zucchero. L’ormone è associato a stress ambientali, come una dieta estrema o l’esposizione a temperature fredde. Viene anche prodotto, nei mammiferi, quando si consumano carboidrati. Da oltre 50 anni si sa che il fegato è un importante regolatore del consumo e preferenza per alcuni cibi. E poiché questo ormone viene prodotto a livello epatico, si può supporre, dicono i ricercatori, che il suo scopo sia quello di migliorare la qualità della dieta, evitare il consumo di cibo spazzatura o proteggere il fegato dall’eccesso di alcol. Qualunque sia la sua origine, questa sua capacità potrà essere sfruttata a livello terapeutico per diabete e obesità.