Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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lunedì 26 ottobre 2020

Malattie infiammatorie intestinali: attenzione al fruttosio


La dieta è una parte fondamentale nella prevenzione e nella gestione delle malattie. Ora un nuovo studio suggerisce che il consumo di fruttosio può peggiorare l’infiammazione intestinale comune nelle malattie infiammatorie intestinali (Ibd).
Questo tipo di patologie è in aumento in tutto il mondo. Secondo i Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie, ogni anno vengono diagnosticati circa tre milioni di americani con Ibd, con un aumento di un milione rispetto all’incidenza della fine degli anni Novanta. Il consumo di una dieta occidentale, compreso il fruttosio, è associato a tassi crescenti di obesità e diabete, e l’Ibd può essere una delle malattie aggravate dall’assunzione di fruttosio.

I risultati dello studio forniscono la prova di un legame diretto tra il fruttosio e l’Ibd e sottolineano come un elevato consumo di fruttosio possa peggiorare la malattia nelle persone che già ne soffrono.
Il fruttosio è stato testato nei topi, nei quali si è osservato un peggioramento dell’infiammazione del colon, insieme a notevoli effetti nei batteri intestinali. Adesso gli esperti pensano a sviluppare interventi per prevenire gli effetti pro-infiammatori del fruttosio e valutare se questa dieta aumenti la tumorigenesi associata alle coliti. Questo secondo punto è particolarmente importante perché i pazienti affetti da Ibd sono a maggior rischio di sviluppare il cancro al colon a causa dell’infiammazione cronica dell’intestino.


(Cellular and Molecular Gastroenterology and Hepatology, http://dx.doi.org/10.1016/j.jcmgh.2020.09.008)

giovedì 15 ottobre 2020

Covid: col sovrappeso si rischia un'infezione grave

INFETTIVOLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 13/10/2020 10:38

Il Cdc statunitense ha aggiornato il proprio 'warning' aggiungendo questa categoria

Essere sovrappeso, anche se non si arriva all'obesità, aumenta il rischio di conseguenza gravi in caso di infezione da Covid-19. Lo afferma il Cdc statunitense, che ha aggiornato il proprio 'warning' aggiungendo appunto questa categoria, mentre prima era considerato a rischio maggiore solo chi era obeso. Già dall'inizio della pandemia, sottolinea il documento del Cdc, l'obesità era stata indicata tra i fattori di rischio, perchè le persone obese hanno un maggior tasso di malattie respiratorie e un ridotto volume polmonare. Le prove 'a carico' dell'essere sovrappeso sono minori, spiegano gli esperti, "ma sono sufficienti a far aggiungere la condizione nella lista di quelle che potrebbero aumentare il rischio di malattia grave". Alcuni studi hanno evidenziato ad esempio che chi vive questa condizione ha il doppio del rischio di essere intubato rispetto a chi ha un indice di massa corporea normale e il 40% di rischio in più sia di essere ricoverato che di morte. Una possibile spiegazione, concludono gli autori, sta nel fatto che i chili in più indeboliscono il sistema immunitario. Fra i fattori che aumentano il rischio, sottolinea il Cdc, ci sono sicuramente invece anche il fumo, i tumori e alcune malattie croniche, come il diabete.


mercoledì 7 ottobre 2020

La modifica del microbiota dell'intestino da vecchi porta a un calo della memoria

 

GASTROENTEROLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 03/10/2020 13:06

La modificazione delle specie batteriche del microbiota intestinale, che si verifica durante l'invecchiamento, causa un calo significativo della memoria, anche di quella spaziale. Lo dimostra una ricerca internazionale guidata dal team dell'Università di Firenze, coordinato da Claudio Nicoletti, che è stata pubblicata sulla rivista scientifica Microbiome. Lo studio - che ha coinvolto ricercatori della University of East Anglia e del Quadram Institute Bioscience di Norwich (Gb), in collaborazione con le Università di Milano, Siena e Nottingham - ha valutato gli effetti di un trapianto di microbiota intestinale, ottenuto da topi anziani, in riceventi giovani.

"Che il microbiota e l'asse intestino-cervello siano estremamente importanti per la nostra salute è cosa nota - racconta Claudio Nicoletti, professore associato di Anatomia umana dell'ateneo di Firenze -. Non era però ancora stata dimostrata la diretta influenza delle modificazioni del microbiota legate all'invecchiamento sul sistema nervoso centrale e sulle funzioni cognitive e comportamentali che esso controlla". Nella ricerca inizialmente i topi giovani che avevano ricevuto il trapianto di microbiota "invecchiato" non hanno mostrato alterazioni nei comportamenti legate a ansia o attività motoria. Ciò che i ricercatori hanno osservato però è stata una significativa diminuzione della memoria e in particolare di quella spaziale, legata all'orientamento. Le ulteriori analisi condotte hanno chiarito come tali deficit cognitivi siano collegati all'alterazione di una serie di proteine dell'ippocampo - un'importante area del sistema nervoso centrale - che giocano un ruolo nella neurotrasmissione e dinamicità sinaptica. 

ricercatori hanno osservato inoltre che le cellule della microglia, che rivestono una funzione di controllo delle cellule neuronali, mostravano tipici segni di invecchiamento. "Le nostre analisi - spiega il ricercatore - suggeriscono che durante l'invecchiamento la diminuzione di specie batteriche intestinali che producono molecole come gli acidi grassi a catene corta, importanti per lo sviluppo e il funzionamento del sistema nervoso centrale, siano almeno in parte responsabili del declino delle facoltà cognitive". "Lo studio dimostra inoltre come il corretto funzionamento dell'asse intestino-cervello sia fondamentale per il mantenimento di importanti funzioni cognitive in tarda età - commenta Nicoletti - e suggerisce che, anche per gli esseri umani, interventi sulla composizione del microbiota possano in futuro contribuire a limitare i danni dell'invecchiamento sul sistema nervoso centrale".

giovedì 1 ottobre 2020

Dai batteri dell'intestino una cura per le malattie metaboliche


DIABETOLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 29/09/2020 13:50

Comprendere i meccanismi attraverso i quali il microbioma influenza l'equilibrio metabolico potrebbe avere importanti ricadute su prevenzione, diagnosi e trattamento delle patologie legate all'insulino-resistenza











Il microbioma dell'intestino è in grado di influenzare il metabolismo. L'attività di molti organi è infatti influenzata da sostanze prodotte dai batteri e queste, in maniera diretta o indiretta, influenzano numerosi processi fisiologici e malattie. Tra loro, anche l'obesità e il diabete. Quindi, la comprensione dei meccanismi attraverso i quali il microbioma influenza l'equilibrio metabolico potrebbe avere importanti ricadute su prevenzione, diagnosi e trattamento delle patologie legate all'insulino-resistenza. In uno studio condotto all'Università di Tor Vergata e presentato dai giovani soci Sid per il 56esimo congresso annuale dell'Easd (European Association for the study of diabetes) emerge proprio come un metabolita dell'intestino potrà essere in futuro una possibile terapia per le malattie metaboliche. "Dati preliminari del nostro laboratorio - commenta Mara Mavilio, del dipartimento di medicina dei sistemi dell'Università degli Studi di Roma Tor Vergata - ottenuti da uno studio su 42 soggetti, hanno rivelato una diversa espressione di cluster metagenomici, geni intestinali quali la Pck1 e metaboliti sistemici come Ipa nei soggetti obesi rispetto ai normopeso. Inoltre, studi condotti da altri gruppi di ricerca riportano la capacità di Ipa, un metabolita intestinale prodotto dai microbi, di modulare la risposta infiammatoria".

Il microbiota intestinale, proprio con il rilascio di alcuni metaboliti come l'Ipa, sarebbe in grado di ridurre, spiega Mavilio, "lo stato pro-infiammatorio e le alterazioni glucidiche presenti in condizioni patologiche come l'obesità, proponendo così nuovi target terapeutici per la cura e la prevenzione delle malattie metaboliche". L'Ipa, dice Massimo Federici, ordinario di medicina interna a Tor Vergata, "ha potenzialità da esplorare sia come biomarcatore di rischio metabolico, sia come agente terapeutico". Per Francesco Purrello (nella foto), presidente della Sid, la Società italiana di diabetologia, ci sono "riflettori accesi da alcuni anni sull'importanza del microbiota e del microbioma intestinale nell'insorgenza e nella progressione del diabete". "Si tratta di un sistema complesso - aggiunge - che agisce anche sul sistema immunitario e sui meccanismi dell'infiammazione cronica, che sicuramente hanno profonde influenze sul metabolismo di zuccheri e lipidi. Da queste ricerche ci aspettiamo svolte importanti nel prossimo futuro".