Infatti, secondo uno studio della Rutgers University, pubblicato sulla rivista Environment International, può interrompere gli ormoni di una donna. L'esposizione ai metalli è stata già associata a problemi alla nascita come parti pretermine e basso peso nei bambini e preeclampsia nelle donne. Questa nuova ricerca mostra invece come alcuni metalli possono disturbare il sistema endocrino che è responsabile della regolazione degli ormoni del corpo e contribuire alla successiva salute dei bambini e al rischio di malattie. Nello studio i ricercatori hanno analizzato campioni di sangue e urina di 815 donne incinte di Porto Rico, zona individuata proprio per la sua alta concentrazione di aree inquinate. Gli studiosi hanno scoperto che i metalli possono agire come interferenti endocrini, alterando le concentrazioni di ormoni prenatali durante la gravidanza. Secondo quanto accertato, le alterazioni degli ormoni steroidei sessuali durante la gestazione sono state associate a una crescita fetale inadeguata, conseguenza di un basso peso alla nascita. Questa, spiegano gli studiosi, è fortemente associata alla crescita sana di un bambino e al rischio di malattie croniche, tra cui obesità e cancro al seno.
Dott. Vincenzo Tedesco
Nutrizionista e Neuroscienziato
Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare
Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica
Diete personalizzate
Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa
Nutrizione estetica
Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori
Intolleranze alimentari
Studio Borgo Roma - Via Santa Teresa 47 (ingresso Via Bozzini 3/A), 37135, Verona.
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lunedì 28 dicembre 2020
mercoledì 23 dicembre 2020
Declino cognitivo: formaggio e vino rosso potrebbero rallentarlo
Formaggio e vino a tavola possono rallentare il declino cognitivo.
sabato 19 dicembre 2020
La nostra nuova collaborazione con il Centro di Neuroscienze Cliniche di Verona
La modificazione del microbiota intestinale all'origine della depressione
Un intestino in salute contribuisce alla normale funzione cerebrale
PSICHIATRIA | REDAZIONE DOTTNET | 17/12/2020 16:59
Uno squilibrio nella flora batterica intestinale può causare il collasso di alcuni metaboliti responsabili della depressione. Dunque, un intestino in salute porta a contribuire alla normale funzione cerebrale. A dirlo è uno studio francese dell'Istituto Pasteur, dell'Inserm e del Cnrs pubblicato su Nature Communications.
Il microbiota intestinale è il più grande serbatoio di batteri del corpo. I ricercatori hanno appena scoperto come una modificazione del microbiota intestinale, causata da stress cronico, possa essere all'origine di uno stato depressivo, in particolare provocando un collasso dei metaboliti lipidici nell'organismo. La loro diminuzione si traduce in un grave malfunzionamento del sistema di comunicazione derivato da loro stessi. Questi metaboliti, infatti, si legano ai recettori che sono anche l'obiettivo primario del Thc, il componente attivo più noto della cannabis. I ricercatori hanno scoperto che quando gli endocannabinoidi non erano più presenti in una regione chiave del cervello che partecipa alla formazione di ricordi ed emozioni, l'ippocampo, si verifica uno stato depressivo. Grazie al lavoro di ricerca, poi, hanno identificato alcune specie batteriche che sono notevolmente ridotte negli animali con disturbi dell'umore. Al contrario, hanno dimostrato che con il trattamento orale con questi stessi batteri è possibile ripristinare un livello normale dei derivati ;;lipidici e, di conseguenza, curare lo stato depressivo. Ecco perché gli studiosi francesi parlano di "psicobiotici".
venerdì 18 dicembre 2020
Il glutammato tra i responsabili delle emicranie
NEUROLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 16/12/2020 13:56
Grandi e numerosi "sbuffi" di glutammato nel cervello potrebbero aiutare a spiegare l'insorgenza dell'emicrania con aura
Grandi e numerosi "sbuffi" di glutammato nel cervello potrebbero aiutare a spiegare l'insorgenza dell'emicrania con aura - e potenzialmente essere coinvolti in un'ampia fascia di malattie neurologiche, tra cui ictus e lesioni cerebrali traumatiche. Lo dice uno studio condotto da un team di ricercatori guidato dalla prof.ssa Daniela Pietrobon dell'Università di Padova e dal prof. K.C. Brennan dell'Università dello Utah. È ormai chiaro che l'emicrania è una malattia del cervello, ma le disfunzioni cerebrali che la causano rimangono in gran parte misteriose. Lo studio, condotto su topi da laboratorio, ha evidenziato che un aumento anomalo di glutammato nello spazio extracellulare - l'area tra le cellule cerebrali - può innescare onde di depolarizzazione simili a tsunami che si diffondono nel cervello causando emicrania e altri disturbi del sistema nervoso.
"Questi topi - dice Pietrobon - mostrano una aumentata suscettibilità alla "cortical spreading depolarization (Csd)", un'onda di depolarizzazione che insorge spontaneamente nel cervello degli emicranici e dà origine alla cosiddetta aura emicranica. Abbiamo dimostrato che nel cervello di questi topi c'è una rallentata e poco efficace rimozione del glutammato durante l'attività cerebrale, e che questo difetto è responsabile dell'aumentata suscettibilità alla Csd". Brennan ha implementato una nuova tecnica che permette di misurare otticamente il glutammato che viene rilasciato durante l'attività cerebrale di un topo sveglio e ha collaborato con Pietrobon per studiare le variazioni di glutammato durante l'attività cerebrale nei topi modello di emicrania in cui la rimozione del glutammato alle sinapsi eccitatorie è rallentata. Ha così scoperto che nella corteccia cerebrale dei topi mutati ci sono di tanto in tanto degli "sbuffi"di glutammato, cioè aumenti localizzati di glutammato, che non sono presenti nei topi selvatici non mutati.
Lo studio ha poi dimostrato che l'insorgenza della Csd è preceduta da una raffica di questi sbuffi di glutammato. Inibendo gli sbuffi di glutammato viene inibita anche l'insorgenza della Csd. Gli 'sbuffi' potrebbero perciò svolgere un ruolo chiave nell'insorgenza dell'attacco di emicrania con aura nell'uomo. "Non abbiamo alcuna evidenza diretta che questi sbuffi di glutammato siano presenti nella corteccia cerebrale umana - osserva Pietrobon -. Però ci sono dati nei pazienti emicranici che mostrano un alto livello di glutammato nel liquido cerebrospinale rispetto ai controlli sani. Bloccando il rilascio di glutammato inibendo localmente i canali del calcio dei terminali sinaptici neuronali abbiamo bloccato gli sbuffi e anche l'insorgenza della Csd nei topi modello di emicrania, ma non è pensabile un trattamento sistemico con tali bloccanti nell'uomo in quanto si andrebbe a bloccare la trasmissione sinaptica fisiologica del cervello. Sembra migliore la strategia di andare ad inibire specifici recettori del glutammato o andare ad aumentare la velocità e l'efficacia di rimozione del glutammato rilasciato".
mercoledì 9 dicembre 2020
Sclerosi multipla, le cellule sono sane ma danneggiate da infiammazione
NEUROLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 07/12/2020 13:44
Lo rivela Science Advances che ha pubblicato due studi internazionali nati dal programma BRAVEinMS dell'Università Vita-Salute San Raffaele.
Arriva una svolta nella ricerca sulla sclerosi multipla: la scoperta - pubblicata sulla rivista Science Advances in due studi internazionali nati dal programma BRAVEinMS, coordinato da Gianvito Martino, prorettore alla ricerca e alla terza missione dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano - per la prima volta indica che le cellule finora indicate come responsabili della malattia perché danneggiate sono invece sane, ma la loro attività è compromessa dall'infiammazione dell'ambiente in cui si trovano.
Le cellule in questione sono quelle che producono la sostanza che riveste e protegge le connessioni fra le cellule nervose, la mielina, e i nuovi dati indicano che sono indistinguibili nelle persone con la malattia e in quelle sane. I nuovi risultati confermano quelli di una ricerca pubblicata lo scorso settembre dagli stessi ricercatori sulla rivista Acta Neurologica e sono stati ottenuti facendo regredire nello sviluppo cellule nervose prelevate da tre persone con la sclerosi multipla e da tre persone sane. Si sono ottenute così delle cellule immature, chiamate “staminali pluripotenti indotte”, ed è emerso che erano indistinguibili fra loro, mentre la loro capacità di produrre la mielina era compromessa solo quando le cellule si trovavano a contatto con cellule infiammatorie.
"Si tratta di una svolta importante nella comprensione dei meccanismi alla base della sclerosi multipla", ha osservato Martino. "La sclerosi multipla - ha proseguito Martino - è sempre stata considerata una malattia della mielina, cioè una malattia che peggiora progressivamente proprio perché le cellule che producono mielina (gli oligodendrociti) non riescono più a produrne di funzionante. La causa di tutto ciò si era pensato potesse essere dovuta ad un difetto intrinseco degli oligodendrociti". I nuovi risultati indicano adesso "che non è così - ha rilevato Martino - e che le cellule che producono mielina delle persone con SM non sono difettose in sé, anzi sono in grado di produrre mielina sana e funzionante. È l'ambiente infiammato in cui si trovano che ne condiziona l'efficienza rigenerativa”.
L’obiettivo del programma internazionale che Martino dirige, sostenuto dalla Progressive MS Alliance (PMSA) con il contributo dell'Associazione Italiana Sclerosi Multipla (Aism) con la sua Fondazione, è sviluppare nuove terapie per la sclerosi multipla con il contributo di otto centri di ricerca. Ai due studi appena pubblicati hanno contribuito, con il San Raffaele, University Hospital di Münster, Icm (Institut du Cerveau et de la Moelle épinière, l'Hôpital Pitié Salpêtrière) e McGill University di Montreal.
venerdì 27 novembre 2020
Dal cioccolato un aiuto per la mente
NUTRIZIONE | REDAZIONE DOTTNET | 24/11/2020 14:08
Lo suggerisce uno studio sulla rivista Scientific Reports, basato sull'analisi degli effetti del consumo di una bevanda a base di cacao, arricchita con flavonoidi.lunedì 26 ottobre 2020
Malattie infiammatorie intestinali: attenzione al fruttosio
giovedì 15 ottobre 2020
Covid: col sovrappeso si rischia un'infezione grave
INFETTIVOLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 13/10/2020 10:38
Il Cdc statunitense ha aggiornato il proprio 'warning' aggiungendo questa categoria
Essere sovrappeso, anche se non si arriva all'obesità, aumenta il rischio di conseguenza gravi in caso di infezione da Covid-19. Lo afferma il Cdc statunitense, che ha aggiornato il proprio 'warning' aggiungendo appunto questa categoria, mentre prima era considerato a rischio maggiore solo chi era obeso. Già dall'inizio della pandemia, sottolinea il documento del Cdc, l'obesità era stata indicata tra i fattori di rischio, perchè le persone obese hanno un maggior tasso di malattie respiratorie e un ridotto volume polmonare. Le prove 'a carico' dell'essere sovrappeso sono minori, spiegano gli esperti, "ma sono sufficienti a far aggiungere la condizione nella lista di quelle che potrebbero aumentare il rischio di malattia grave". Alcuni studi hanno evidenziato ad esempio che chi vive questa condizione ha il doppio del rischio di essere intubato rispetto a chi ha un indice di massa corporea normale e il 40% di rischio in più sia di essere ricoverato che di morte. Una possibile spiegazione, concludono gli autori, sta nel fatto che i chili in più indeboliscono il sistema immunitario. Fra i fattori che aumentano il rischio, sottolinea il Cdc, ci sono sicuramente invece anche il fumo, i tumori e alcune malattie croniche, come il diabete.
mercoledì 7 ottobre 2020
La modifica del microbiota dell'intestino da vecchi porta a un calo della memoria
GASTROENTEROLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 03/10/2020 13:06
La modificazione delle specie batteriche del microbiota intestinale, che si verifica durante l'invecchiamento, causa un calo significativo della memoria, anche di quella spaziale. Lo dimostra una ricerca internazionale guidata dal team dell'Università di Firenze, coordinato da Claudio Nicoletti, che è stata pubblicata sulla rivista scientifica Microbiome. Lo studio - che ha coinvolto ricercatori della University of East Anglia e del Quadram Institute Bioscience di Norwich (Gb), in collaborazione con le Università di Milano, Siena e Nottingham - ha valutato gli effetti di un trapianto di microbiota intestinale, ottenuto da topi anziani, in riceventi giovani.
"Che il microbiota e l'asse intestino-cervello siano estremamente importanti per la nostra salute è cosa nota - racconta Claudio Nicoletti, professore associato di Anatomia umana dell'ateneo di Firenze -. Non era però ancora stata dimostrata la diretta influenza delle modificazioni del microbiota legate all'invecchiamento sul sistema nervoso centrale e sulle funzioni cognitive e comportamentali che esso controlla". Nella ricerca inizialmente i topi giovani che avevano ricevuto il trapianto di microbiota "invecchiato" non hanno mostrato alterazioni nei comportamenti legate a ansia o attività motoria. Ciò che i ricercatori hanno osservato però è stata una significativa diminuzione della memoria e in particolare di quella spaziale, legata all'orientamento. Le ulteriori analisi condotte hanno chiarito come tali deficit cognitivi siano collegati all'alterazione di una serie di proteine dell'ippocampo - un'importante area del sistema nervoso centrale - che giocano un ruolo nella neurotrasmissione e dinamicità sinaptica.
I ricercatori hanno osservato inoltre che le cellule della microglia, che rivestono una funzione di controllo delle cellule neuronali, mostravano tipici segni di invecchiamento. "Le nostre analisi - spiega il ricercatore - suggeriscono che durante l'invecchiamento la diminuzione di specie batteriche intestinali che producono molecole come gli acidi grassi a catene corta, importanti per lo sviluppo e il funzionamento del sistema nervoso centrale, siano almeno in parte responsabili del declino delle facoltà cognitive". "Lo studio dimostra inoltre come il corretto funzionamento dell'asse intestino-cervello sia fondamentale per il mantenimento di importanti funzioni cognitive in tarda età - commenta Nicoletti - e suggerisce che, anche per gli esseri umani, interventi sulla composizione del microbiota possano in futuro contribuire a limitare i danni dell'invecchiamento sul sistema nervoso centrale".
giovedì 1 ottobre 2020
Dai batteri dell'intestino una cura per le malattie metaboliche
DIABETOLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 29/09/2020 13:50
Comprendere i meccanismi attraverso i quali il microbioma influenza l'equilibrio metabolico potrebbe avere importanti ricadute su prevenzione, diagnosi e trattamento delle patologie legate all'insulino-resistenza
venerdì 4 settembre 2020
La forza della mano può indicare il rischio di diabete 2
martedì 28 aprile 2020
L'obesità è un ulteriore fattore di rischio per COVID-19
giovedì 23 aprile 2020
Covid e animali domestici: tutto quello che bisogna sapere
Fonte:
mercoledì 8 aprile 2020
Riapertura al pubblico dello Studio Nutrizionistico
lunedì 6 aprile 2020
Dieta personalizzata nel trattamento del cancro
Fonte: Nature
(Versione italiana Quotidiano Sanità/Nutri&Previeni)
venerdì 13 marzo 2020
Pesare troppo invecchia ed indebolisce le vie respiratorie
Mai come in questo momento in cui una pandemia che colpisce le vie respiratorie rischia di diventare il flagello della popolazione mondiale, questa evidenza dovrebbe spingerci, conclusa l'emergenza, a riconsiderare le nostre priorità e ad iniziare veramente a prenderci cura di noi stessi. Come? Attraverso una adeguata e sana alimentazione e ad una regolare attività fisica.
E' giunto il momento di smetterla con le scuse del troppo lavoro, di pranzi e cene di lavoro, della vita sociale, della mancanza di tempo e così' via. Covid-19 ci insegna che in caso di necessità il lavoro può e deve essere interrotto, i pranzi e le cene di lavoro possono e devono essere sospese, la vita sociale può e deve essere riconsiderata e rimodulata, il tempo per prenderci cura di noi stessi può e deve essere trovato.
Per la maggior parte di loro, l’aumento di peso nel tempo è stato associato ad un’accelerazione del declino naturale della capacità polmonare che si accompagna all’età. Ma quando gli adulti più giovani erano obesi all’inizio e hanno successivamente perso peso nel tempo, hanno fatto registrare una capacità polmonare simile a quella delle persone normopeso che sono rimaste tali.
Lo studio
Peralta e colleghi hanno analizzato i dati dell’European Community Respiratory Health Survey, un ampio studio di popolazione che da decenni monitora la salute di oltre 10.000 adulti in 11 Paesi europei e in Australia.
“Tra i partecipanti nelle normali categorie di peso, sovrappeso o obesi in giovane età adulta, l’aumento ponderale da moderato a elevato è stato associato a un più rapido declino della funzionalità polmonare durante il periodo di studio”, osserva Peralta.
Le persone che erano obese in giovane età avevano una funzione polmonare più scarsa rispetto ai loro coetanei normopeso, ma la perdita di chili sembrava invertire gli effetti negativi dell’obesità sulla funzione polmonare.
“Questo è il primo studio che analizza gli effetti della variazione di peso sulla funzionalità polmonare per un periodo di 20 anni e in un campione di popolazione variegato”, aggiunge Gabriela Prado Peralta, del’Istituto di salute globale di Barcellona. “Due meccanismi probabilmente spiegano come l’aumento di peso causi un declino della funzionalità polmonare. In primo luogo, la presenza di una grande quantità di massa grassa nel torace e nell’addome limita lo spazio per l’espansione del polmone durante l’inalazione. In secondo luogo, il tessuto adiposo è una fonte di sostanze infiammatorie che possono danneggiare il tessuto polmonare e ridurre il diametro delle vie aeree”.
Fonte: Reuters Health News
Covid-19 potrebbe attaccare anche il fegato
Will Boggs
(Versione italiana per QuotidianoSanità/Popular Science)