Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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mercoledì 20 marzo 2013

Polpa di açai: ha effetti neuroprotettivi

Polpa di açai: ha effetti neuroprotettivi Italiano/English 


Journal of Agriculture and Food Chemistry. 2012; 60:1084-93.

Anthocyanin-rich açai (Euterpe oleracea Mart.) fruit pulp fractions attenuate inflammatory stress signaling in mouse brain BV-2 microglial cells.

Poulose SM, Fisher DR, Larson JA, Bielinski DF, Rimando AM, Carey AN, Schauss AG, Shukitt-Hale B.

ABSTRACT
Age-related diseases of the brain compromise memory, learning, and movement and are directly linked with increases in oxidative stress and inflammation. Previous research has shown that supplementation with berries can modulate signaling in primary hippocampal neurons or BV-2 mouse microglial cells. Because of their high polyphenolic content, fruit pulp fractions of açai ( Euterpe oleracea Mart.) were explored for their protective effect on BV-2 mouse microglial cells. Freeze-dried açai pulp was fractionated using solvents with different polarities and analyzed using HPLC for major anthocyanins and other phenolics. Fractions extracted using methanol (MEOH) and ethanol (ETOH) were particularly rich in anthocyanins such as cyanidin, delphinidin, malvidin, pelargonidin, and peonidin, whereas the fraction extracted using acetone (ACE) was rich in other phenolics such as catechin, ferulic acid, quercetin, resveratrol, and synergic and vanillic acids. Studies were conducted to investigate the mitigating effects of açai pulp extracts on lipopolysaccharide (LPS, 100 ng/mL) induced oxidative stress and inflammation; treatment of BV-2 cells with acai fractions resulted in significant (p < 0.05) decreases in nitrite production, accompanied by a reduction in inducible nitric oxide synthase (iNOS) expression. The inhibition pattern was emulated with the ferulic acid content among the fractions. The protection of microglial cells by açai pulp extracts, particularly that of MEOH, ETOH, and ACE fractions, was also accompanied by a significant concentration-dependent reduction in cyclooxygenase-2 (COX-2), p38 mitogen-activated protein kinase (p38-MAPK), tumor necrosis factor-α (TNFα), and nuclear factor κB (NF-κB). The current study offers valuable insights into the protective effects of açai pulp fractions on brain cells, which could have implications for improved cognitive and motor functions.

Commento
L’açai è una bacca tropicale, avente l’aspetto di un acino di uva, di colore viola, ricca di polifenoli. Ha potenti proprietà antiossidanti grazie ad un elevato livello di antociani, pigmenti che sono presenti anche nel vino rosso. Studi in vitro hanno dimostrato che gli estratti di açai mostrano una potente azione antiinfiammatoria, anti-cancerogena, antiossidante e neuro-protettiva. Possono anche aumentare la protezione cellulare verso le specie reattive dell’ossigeno. In un recente studio è stato esaminato l’effetto di questo frutto sulle cellule del cervello e sui meccanismi di segnalazione coinvolti nella comunicazione inter-neuronale. Questa indagine è stata condotta sulle cellule cerebrali di topo: è stato evidenziato che la polpa potrebbe combattere alcuni dei mediatori infiammatori ed ossidativi correlati all’invecchiamento cellulare. Le cellule murine microgliali (un tipo di cellule immunitarie presenti nel cervello che proteggono i neuroni da stress ossidativo ed infiammazione) quando stressate (esempio stress indotto dal lipopolisaccaride LPS), si attivano e producono molecole infiammatorie quali citochine, superossido e ossido nitrico, portando ad una cascata di proteine pro-infiammatorie e alla morte dei neuroni. Il pre-trattamento di queste cellule con la polpa dell’açai ha un effetto benefico sui markers pro-infiammatori, diminuendo la produzione di iNOS, COX-2, la fosforilazione di NF-kB, il rilascio di TNFa e l’attivazione della p38-MAP.

Associazione tra l’uso materno di acido folico e il rischio di disturbi autistici nei bambini

La supplementazione giornaliera con acido folico nel periodo periconcezionale riduce il rischio di difetti del tubo neurale. Non solo, altre evidenze scientifiche sottolineano che tale assunzione possa essere associata ad una riduzione del rischio di ulteriori disturbi dello sviluppo neurologico che si evidenziano solo dopo la nascita. Infatti, un recente studio norvegese (Norwegian Mother and Child Cohort Study, MoBa) (JAMA 2011;306(14):1566-73) condotto su 38.954 bambini ha evidenziato che l’assunzione materna di supplementi a base di acido folico, dalla 4a settimana antecedente alla 8asettimana successiva all’inizio della gravidanza, è associata ad un minore rischio di grave ritardo nel linguaggio nei bambini all’età di 3 anni.

Lo scopo di questo studio è stato quello di valutare l’associazione tra l’uso materno di folic acid supplements nel periodo periconcenzionale (da 4 settimane prima a 8 settimane dopo l’inizio della gravidanza) e il rischio di disturbi dello spettro autistico (autism spectrum disorders, ASDs) [autismo, sindrome di Asperger, disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato (pervasive developmental disorder not otherwise specified, PDD-NOS)] nei bambini.
A tal fine è stata esaminata la coorte dello studio MoBa, che inizialmente includeva 109.020 bambini, nati tra il 1999 e il 2009, le cui madri avevano compilato un questionario, alla 18a settimana di gestazione, relativo all’assunzione di preparati polivitaminici o integratori contenenti acido folico.
I dati, estrapolati dallo studio MoBa, sono stati raccolti e analizzati fino al 31 marzo 2012. I casi di ASD sono stati identificati mediante la somministrazione di un questionario alle madri dei bambini di 3, 5 e 7 anni e mediante l’uso del Registro Norvegese dei Pazienti (che raccoglie i dati relativi alle diagnosi dei pazienti che hanno avuto accesso a qualsiasi ospedale o clinica della Norvegia). I bambini con presunta ASD sono stati sottoposti ad una accurata valutazione clinica, utilizzando due strumenti diagnostici quali l’Autism Diagnostic Interview Revised* e l’Autism Diagnostic Observation Schedule**. L’esposizione materna a folic acid supplements è stata esaminata dalla 4a settimana antecedente alla 8a settimana successiva all’inizio della gravidanza. La data di inizio gravidanza corrispondeva al primo giorno dell’ultima mestruazione prima del concepimento. In questo studio sono stati considerati anche vari fattori di confondimento, che potrebbero aver influito sull’associazione tra utilizzo di acido folico e rischio di ASD, come grado d’istruzione e età dei genitori, gravidanza programmata, abitudine al fumo da parte della madre in gravidanza, indice di massa corporea (IMC) della madre, aumento del peso alla 18a e 30a settimana, parità e anno di nascita.
Per il calcolo dell’Odds ratio (OR) con un intervallo di confidenza (IC) al 95% relativo all’associazione acido folico e rischio di ASD, è stato utilizzato un modello di regressione logistica, aggiustato anche per anno di nascita, grado d’istruzione materna e parità. Tenuto conto, nell’ambito del campione in studio, della prevalenza complessiva del disturbo autistico dello 0,13% e della percentuale di pazienti esposte all’acido folico del 68% (con un livello di significatività pari a 0,05%), era necessaria una potenza del 93% per calcolare un OR di 0,50, una potenza del 73% per calcolare un OR di 0,60, una potenza del 45% per calcolare un OR di 0,70 e una potenza del 18% per calcolare un OR di 0,80.
Per valutare la possibilità di fattori di confondimento residui, è stato valutato anche l’effetto sull’associazione in base all’eventuale presenza di patologie materne e all’uso di farmaci durante la gravidanza. Il modello di regressione è stato, quindi, aggiustato anche per ansia, depressione, epilessia, preclampsia e diabete durante la gravidanza. E’ stata, inoltre, condotta un’analisi secondaria sull’associazione tra uso materno di integratori contenenti olio di pesce e il rischio di ASD, per stabilire se l’associazione era specificata per l’acido folico o simile rispetto ad altri supplementi. Un totale di 97.179 partecipanti è risultato eleggibile per l’analisi finale. Tuttavia, per isolare l’esposizione a supplementi a base di acido folico da altri fattori influenti sul rischio di ASD, sono stati esclusi i bambini nati prima della 32a settimana di gestazione, quelli con peso alla nascita <2,5 kg e le nascite gemellari. Sono stati, inoltre, esclusi i bambini le cui madri non hanno riportato le informazioni relative all’assunzione di supplementi nel periodo considerato. Quindi, un totale di 12.003 bambini sono stati esclusi per una o più motivazioni.
Il campione finale includeva 85.176 bambini con un’età media di 6,4 anni nei 10,2 anni presi in considerazione (intervallo d’età = 3,3 anni). Nella coorte in studio, 270 (0,32%) bambini avevano una diagnosi di ASD, di cui 114 (0,13%) con disturbo autistico, 56 (0,07%) con sindrome di Asperger e 100 (0,12%) con PDD-NOS.
Nel periodo d’esposizione che va dalla 4a alla 1a settimana prima dell’inizio della gravidanza, il 32,9% delle madri assumeva acido folico. Tale percentuale aumentava al 70,7% nell’intervallo dalla 9a alla 12a settimana dopo l’inizio della gravidanza per poi ridursi al 45,8% dalla 13a alla 16a settimana. Le madri che assumevano acido folico nel periodo in studio considerato (dalla 4a settimana prima alla 8a settimana dopo l’inizio della gravidanza) presentavano maggiormente le seguenti caratteristiche: livello d’istruzione maggiore, IMC < 25, gravidanza programmata, non fumatrici e alla prima esperienza gestazionale. I risultati della regressione logistica indicavano un’associazione inversa tra l’assunzione di acido folico e il rischio di disturbo autistico. Il disturbo autistico era presente nello 0,10% (64/61.042) dei bambini le cui madri avevano assunto acido folico e nello 0,21% (50/24.134) dei bambini le cui madri non avevano assunto tale supplemento. L’OR aggiustato per il disturbo autistico era di 0,61 (IC 95%: 0,41-0,90) nei bambini nati da madri utilizzatrici di acido folico. Tuttavia, l’associazione inversa non si osservava nelle successive settimane di gravidanza; infatti, l’OR aggiustato alla 22asettimana era di 0,96 (IC 95%: 0,60-1,55) nelle madri che assumevano ≥ 400 mg di acido folico e 1,02 (IC 95%: 0,62-1,67) nelle madri che assumevano < 400 mg. Un’analisi simile è stata condotta al fine di stabilire un’eventuale associazione tra il rischio di disturbo autistico e l’assunzione di integratori contenenti olio di pesce, ma in tal caso non è risultata alcuna correlazione (OR aggiustato=1,29; IC 95%: 0,88-1,89). La sindrome di Asperger e il PDD-NOS erano presenti rispettivamente nello 0,12% (21/17.218) e nello 0,15% (58/39.543) dei bambini le cui madri avevano assunto acido folico e nello 0,21% (27/12.899) e nello 0,17% (33/19.649) dei bambini le cui madri non avevano assunto tale supplemento. L’OR aggiustato per il disturbo autistico era rispettivamente di 0,65 (IC 95%: 0,36-1,16) e di 1,04 (IC 95%: 0,66-1,63) nei bambini nati da madri utilizzatrici di acido folico. L’analisi stratificata per livello di linguaggio e anno di nascita dei bambini ha, infine, mostrato che l’associazione inversa tra autismo e assunzione di acido folico diventa maggiore nei bambini con un grave ritardo del linguaggio rispetto a quelli con ritardo moderato o privi di ritardo, ma anche nei bambini con età maggiore (nati tra 2002-2004) rispetto a quelli più piccoli (nati tra 2005-2008).

Sulla base dei risultati di questo studio, si evidenzia che l'utilizzo materno di supplementi a base di acido folico nel periodo compreso tra le 4 settimane prima e le 8 settimane dopo il concepimento nella coorte MoBa è associato ad un rischio ridotto di sviluppare disturbo autistico (la forma più grave di ASD) nei bambini. 

I punti di forza dello studio riguardano il disegno, la grandezza del campione esaminato e la raccolta prospettica dei dati, così come la combinazione di più fonti (screening e Registro) per identificare i casi di ASD. I dati di esposizione numerosi e accurati hanno permesso la differenziazione tra le varie tipologie di supplementi e tra le varie fasi gestazionali. Tuttavia, un limite importante dello studio riguarda la determinazione incompleta, nella coorte in studio, dei casi di ASD. Secondo gli autori, i risultati ottenuti non stabiliscono una correlazione causale tra l’assunzione di acido folico e il disturbo autistico, ma forniscono un razionale per condurre ulteriori analisi, indagando anche su potenziali fattori genetici e altri meccanismi biologici che potrebbero spiegare l’associazione inversa.
Nell’editoriale di accompagnamento, gli autori sottolineano che con l’assunzione di 200-400 mg/die di acido folico (dosaggio tipico degli integratori multivitaminici venduti in Norvegia) la riduzione del rischio di disturbi autistici è limitato al periodo periconcezionale. Tuttavia, questo dato è in contrasto con l’incremento di diagnosi di ASD negli Stati Uniti da quando è stato avviato nel 1998 il programma per l’utilizzo di acido folico. Ciò può dipendere sia da cambiamenti relativi alle modalità di diagnosi e di sorveglianza che ad un reale incremento di ASD per esposizione a fattori di rischio ancora non identificati. Inoltre, negli Stati Uniti l’assunzione media di acido folico è di 150 mg/die, dose che potrebbe, pertanto, essere troppo bassa per contribuire ad abbassare la prevalenza di tale patologia. In conclusione, secondo gli autori, è rassicurante che lo studio in esame non abbia mostrato associazione tra acido folico e aumento del rischio di disturbi autistici o ASD. Al contrario, può essere provocatorio affermare che il supplemento nutrizionale riduca il rischio di tali disturbi e tale dato dovrebbe essere confermato da ulteriori studi di popolazione.

Parole chiave: disturbo autistico, bambini, esposizione materna all’acido folico.

Riferimento bibliografico:
Surén P, et al. Association between maternal use of folic acid supplements and risk of autism spectrum disorders in children. JAMA. 2013;309(6):570-7.

La dieta dei gruppi sanguigni non ha validità scientifica.


Attenzione ai Naturopati: non sono professionisti sanitari autorizzati ad elaborare e suggerire diete

sangue

La dieta dei gruppi sanguigni, o emodieta, è l’ennesima scorciatoia proposta a chi vuole ritrovare la salute tramite l’alimentazione. Si tratta di un regime ideato nel 1997 dallo statunitense Peter J. D’Adamo-Naturopata. L’idea di base è che la razza umana possa essere divisa in quattro gruppi, corrispondenti ai gruppi sanguigni formatisi durante l’evoluzione della specie, ognuno con esigenze alimentari diverse.
Per il “gruppo O”, corrispondente ai “cacciatori”, si consiglia una dieta ricca di carne e proteine e povera di cereali, il “gruppo A”, corrispondente agli “agricoltori”, dovrebbe preferire i vegetali, mentre il “gruppo B” o “nomade” può permettersi di variare. In coda troviamo il “gruppo AB”, di creazione più recente, con alcune limitazioni, come quella di preferire il pesce alla carne.
Secondo D’Adamo, che non è un medico ma un naturopata, questa dieta non serve a dimagrire ma a mantenersi in salute riequilibrando l’organismo. Nei molti saggi in cui promuove il suo metodo, l’inventore della dieta assicura che anche le persone desiderose di perdere peso possono riuscirci facilmente, tanto che negli Usa sono disponibili in commercio i prodotti alimentari “tarati” per i diversi gruppi.



Bello, se fosse vero: peccato che questo metodo abbia scarsa validità scientifica, come ci spiega Fabio Virgili, ricercatore dell’ex Inran specializzato nelle relazioni tra genetica e alimentazione.

«La distribuzione geografica dei gruppi sanguigni è assai complessa, e non possiamo ricollegarla in modo netto alla storia evolutiva e alle migrazioni storiche degli individui che ne sono portatori» spiega Virgili. Se è vero che i gruppi sanguigni più noti, e su cui si basa la dieta, sono quattro, «in realtà i fattori ematici che si dovrebbero prendere in considerazione, per voler tentare un’improbabile distribuzione della popolazione su questa base, sono almeno una ventina».

«Per validare un metodo servono evidenze epidemiologiche, cliniche, indagini con strumenti comprovati scientificamente che qui non ci sono» precisa Virgili. Tanto è vero che nel sito statunitense D’Adamo punta solo su una serie di testimonianze in cui persone dichiarano di aver risolto gravi problemi con questo regime alimentare. Se però si digita l’espressione “blood type diet” su motori di ricerca qualificati come Pub med (una delle principali banche dati mondiali specializzata nell’ambito scientifico), risulta evidente che D’Adamo non basa le sue ricerche su studi scientifici provati. Anche il ruolo delle “lectine”, proteine che secondo il naturopata sarebbero responsabili della diversa reazione degli individui agli alimenti, non è confermato da evidenze.





«Da quando abbiamo gli strumenti per indagare il genoma, la ricerca sulle relazioni tra genetica e alimentazione risulta sempre più complessa – spiega Virgili, – ci stiamo rendendo conto di quanti fattori, sia genetici che ambientali, concorrano a determinare il nostro rapporto con gli alimenti».

Un esempio noto (e ben diverso da quello dei gruppi sanguigni) riguarda l’incapacità di digerire latte o latticini che si riscontra negli adulti e che interessa maggiormente specifiche popolazioni.

«Nelle aree geografiche in cui il latte aveva una notevole importanza alimentare, si sono selezionati soggetti con la variante genetica che consente di metabolizzare il lattosio anche in età adulta, anche se per poterlo fare bisogna continuare a consumare abitualmente latte e latticini».

«Proporre una dieta specifica basata sui profili genetici affidandoci alle nostre ancora limitate conoscenze – sottolinea Virgili, – sarebbe come pretendere di conoscere una città d’arte in base a quanto vediamo dal buco della serratura dell’albergo che ci ospita». Oggi sappiamo che il fabbisogno nutrizionale varia nel corso della vita e anche delle circostanze «l’unica raccomandazione valida che possiamo dare a tutti, è limitare il consumo di grassi, abbondare con i vegetali e, soprattutto, scegliere una dieta quanto più possibile variata». Anche se le nostre interazioni con determinati cibi hanno sicuramente una base genetica, e forse un giorno conosceremo tutti i meccanismi di queste corrispondenze «oggi – conclude il ricercatore – piuttosto che cercare spiegazioni senza basi scientifiche, ha forse più senso imparare ad ascoltarsi».