Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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venerdì 24 ottobre 2014

L' olio extravergine d'oliva previene il cancro del colon.


È il risultato di uno studio condotto dall’Università Campus Bio-Medico di Roma e dall’Università degli Studi di Teramo, in collaborazione con l’Università degli Studi di Camerino e con il Karolinska Institute di Stoccolma. La ricerca mostra come l’olio extravergine di oliva sia in grado di aumentare l’espressione del gene oncosoppressore CNR1.

Che l’olio extravergine d’oliva fosse un alimento importante per ridurre l'incidenza di numerose neoplasie era stato suggerito, negli ultimi anni, da varie ricerche sperimentali. Non erano però ancora chiari i meccanismi alla base di quest’azione ‘benefica’ dell’antico derivato della spremitura di olive, protagonista della dieta dei popoli mediterranei da più di 60 secoli.

Uno studio condotto da Mauro Maccarrone, docente di Biochimica presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma, e da Claudio D’Addario, ricercatore in Biologia Molecolare presso l’Università degli Studi di Teramo, ha rivelato ora, su basi scientificamente fondate, il meccanismo grazie al quale il cosiddetto ‘oro giallo' riduce il rischio di sviluppare il cancro del colon. La ricerca, appena pubblicata sulla rivista internazionale Journal of Nutritional Biochemistry, mostra come l’olio extravergine di oliva sia in grado di aumentare l’espressione del gene oncosoppressore CNR1. Quest’ultimo, a sua volta, esprime un recettore molto importante per la salute del nostro organismo, perché è in grado di regolare i meccanismi all'origine delle alterazioni dei geni sensibili ai fattori ambientali, come la dieta.

Latte. L'evoluzione ci ha portato a tollerarlo.

Facciamo un po' di chiarezza.
Fino a 5000 anni dopo l’adozione delle pratiche agricole e 4000 anni dopo la diffusione di prodotti caseari, le popolazioni europee rimangono intolleranti al lattosio: il risultato proviene dall’analisi del DNA estratto da campioni ossei risalenti ad un’epoca compresa tra il 5700 a.C. e l’800 a.C. Lo studio su Nature Communications


La tolleranza al lattosio, zucchero contenuto nel latte dei mammiferi, è una condizione, frutto dell’evoluzione umana, ottenuta in epoche relativamente recenti: uno studio dello University College Dublin, infatti, rivela che gli antichi europei rimanevano intolleranti al lattosio fino a 5000 anni dopo l’adozione di pratiche agricole e fino a 4000 anni dopo l’introduzione di prodotti caseari da parte degli antichi allevatori.

Si ricorda che l’intolleranza al lattosio è una condizione verso la quale tuttora una congrua fetta della popolazione mostra una predisposizione, secondo studi anche recenti. Questo non significa che il latte sia da condannare o sia tossico, significa semplicemente che chi si è evoluto per poter tollerare il latte lo potrà consumare tranquillamente mentre chi ha conservato l'intolleranza originaria farebbe bene ad evitarlo.

Bibliografia "Genome flux and stasis in a five millennium transect of European prehistory".
Cristina Gamba et al., 2014.

mercoledì 15 ottobre 2014

Tolleranza al fruttosio, non è per tutti.

Nell’uomo, l’ormone FGF21 sembra essere stimolato dall’ingestione di fruttosio e, dunque, tale ormone potrebbe rappresentare un fattore predittivo attendibile per un test di tolleranza al fruttosio. Con implicazioni per lo studio del metabolismo di questo zucchero semplice e del diabete di tipo 2. Ad affermarlo, oggi, è uno studio di ricercatori del BIDMC, pubblicato su Molecular Metabolism

Il fruttosio, monosaccaride e zucchero semplice noto anche come zucchero della frutta, in alcuni specifici casi (come il consumo eccessivo) può avere effetti negativi sulla salute, specialmente in relazione al rischio di diabete e malattie cardiovascolari. Oggi, un gruppo di scienziati, studiando il metabolismo del fruttosio, ha scoperto che l’ormone FGF21 (Fibroblast Growth Factor 21 (FGF21) sembra essere stimolato dall’ingestione di questo monosaccaride: dunque, tale ormone potrebbe rappresentare un fattore predittivo attendibile per un test di tolleranza al fruttosio.

Lo studio, appena pubblicato su Molecular Metabolism, è stato condotto dai ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center (BIDMC) insieme ad altri Istituti.

Dopo dieci anni di studi sul FGF21, Maratos-Flierha osservato che, sia negli uomini che negli animali, elevati livelli di fruttosio risultavano associati con obesità, insulino-resistenza e ‘fegato grasso non alcolico’. In particolare, la ricerca odierna evidenzia che i livelli nel sangue dell’ormone in questione aumentano rapidamente e in maniera netta e notevole dopo l’ingestione di fruttosio. Nella ricerca, Mark Herman, MD, of the Division of Endocrinology, Diabetes and Metabolism at BIDMC e Assistant Professor of Medicine alla Harvard Medical School (HMS), ha rivolto la sua attenzione ad un fattore cellulare, chiamato Carbohydrate Responsive-Element Binding Protein (ChREBP), che ‘rileva’ gli zuccheri semplici e risponde attraverso l’attivazione di ‘programmi’ di espressione genica cellulare. L’osservazione che il fruttosio attiva potenzialmente il ChREBP nel fegato dei roditori e che il ChREBP può regolare l’espressione dell’ormone sotto studio, FGF21, ha suggerito a Maratos-Flier e Herman l’ipotesi che l’ingestione di fruttosio possa stimolare la produzione dell’ormone circolante anche nell’uomo.

Per indagare questa ipotesi, i ricercatori, guidati dal primo autore Jody Dushay, MD, HMS Instructor in Medicine, hanno preso in considerazione 10 soggetti in salute e dalla corporatura magra. In primo luogo, hanno testato l’effetto del glucosio sull’FGF21 dando da bere ai volontari 75 grammi di glucosio e misurando nel corso di cinque ore i livelli nel sangue. Il risultato è che nell’immediato non si è osservata un’alterazione dei livelli dell’ormone, se non una modesta variazione a distanza di tre o quattro ore dall’ingestione. Al contrario, dopo aver ripetuto l’operazione con il fruttosio, i ricercatori hanno osservato un significativo aumento dell’ormone, in media del 400%.
“Ciò ci dice che il fruttosio controlla in maniera attiva il FGF21 negli esseri umani", ha affermato Maratos-Flier, suggerendo che l’FGF21 potrebbe svolgere un ruolo finora ‘imprevisto’ nella regolazione del metabolismo del fruttosio. Maratos-Flier aggiunge che i risultati dimostrano che la risposta FGF21 risultava in eccesso nei soggetti con malattie metaboliche, suggerendo che qualche elemento del metabolismo del fruttosio possa cambiare nello sviluppo della sindrome metabolica e/o che ci siano differenze innate tra le persone e che quelle con una più alta risposta dell’ormone sotto studio siano predisposte allo sviluppo della malattia.

“Questo studio fornisce una osservazione di base per un’ulteriore indagine sui determinanti genetici e ambientali della risposta metabolica individuale al fruttosio”, aggiunge Herman, “e questo tipo di conoscenza potrà essere essenziale per sviluppare raccomandazioni dietetiche personalizzate oltre che strategie farmacologiche per prevenire e curare le malattie cardiometabolico”.

martedì 14 ottobre 2014

Una nuova classe di grassi ‘buoni’.


Si chiamano 'Fahfa' e rappresentano una nuova classe di lipidi ‘buoni’ come gli omega-3. A differenza degli omega-3, però, i Fahfa vengono prodotti all'interno del corpo: così in teoria si potrebbe modularne il livello nell’organismo umano.

Un gruppo di ricercatori statunitensi ha identificato una nuova classe di molecole lipidiche, finora ‘sconosciute’, che potrebbero aumentare la sensibilità insulinica e il controllo dello zucchero nel sangue, aprendo nuove prospettive di ricerca per trattare il diabete di tipo 2. Lo studio*, pubblicato su Cell, è stato realizzato da un team di scienziati del Beth Israel Deaconess Medical Center (Bidmc) e del Salk Institute. I nuovi grassi, individuati su modello animale, si chiamano Fahfa (acid-hydroxyl fatty acids) e si trovano nelle cellule di grasso ed in altre cellule del corpo.

Queste molecole sono ‘buone’ come quelle di omega-3 contenute ad esempio nel pesce, ma al contrario degli omega-3, che non vengono prodotti dai mammiferi, i Fahfa vengono invece generati e scomposti all’interno dell’organismo umano.
“Questa importante caratteristica conferisce ai Fafha un vantaggio in termini di sviluppo terapeutico, perché potremmo essere in grado di modificare il tasso di produzione e la ripartizione in tutto il corpo”, osserva Barbara Kahn, senior author e Vice Presidente del Dipartimento di Medicina presso il Bidmc. “Dato che siamo in grado di misurare i livelli di Fahfa nel sangue, basse concentrazioni possono rivelarsi un indicatore precoce del rischio di sviluppare diabete di tipo 2. Di conseguenza, se il ripristino dei livelli Fahfa negli individui con insulino-resistenza rivela effetti terapeutici, a livello potenziale potremmo essere in grado di intervenire prima dello sviluppo del diabete”.

"Sulla base della loro biologia, possiamo aggiungere i Fahfa alla ristretta lista dei lipidi con effetti benefici”, ha affermato il co-autore senior Alan Saghatelian, PhD, Professore al the Clayton Foundation Laboratories for Peptide Biology al Salk Institute a La Jolla, in California. “Questi lipidi sono sorprendenti, perché possono anche ridurre l'infiammazione, suggerendo che potremmo scoprire le opportunità di queste molecole in malattie infiammatorie, come il morbo di Crohn e l'artrite reumatoide, oltre che al diabete”.

Depressione prima causa al mondo di disabilità. Dipendenze comportamentali nuova minaccia


Circa 350 milioni di persone soffrono di depressione e in generale i problemi di salute mentale sono in cima alla lista di tutte le malattie, secondo i dati dell’Oms. Emergenti sono le dipendenze comportamentali, come spiega il Professor Janiri (Cattolica)

Una persona su quattro almeno una volta durante la propria vita ha avuto esperienza di un problema legato alla salute mentale. Inoltre, fin dalla metà degli anni ’90 l’Oms ha stabilmente collocato i problemi di salute mentale in cima alla lista delle malattie; la depressione è la prima causa di disabilità al mondo, colpendo globalmente circa 350 milioni di persone. Oltre alla depressione, tra le problematiche più diffuse, ansia, stress, disadattamento, bipolarità dell’umore ed uso di sostanze; mentre, tra i disturbi ‘emergenti’, quelli del comportamento alimentare, le dipendenze patologiche e i disturbi da stress post-traumatico. Tutte queste patologie sono fonte di disagio familiare, sociale e in particolare possono colpire la sfera lavorativa.

mercoledì 8 ottobre 2014

I figli sono obesi, ma i genitori non lo vedono

Rispetto a dieci anni fa, i bambini in sovrappeso oppure obesi degli Stati Uniti hanno ancora meno probabilità di essere percepiti come tali dai propri genitori. La maggiore difficoltà dei genitori a percepire i figli in sovrappeso in modo appropriato può indicare un cambiamento generazionale nelle norme sociali legate al peso corporeo, scrive uno studio pubblicato su Pediatrics. Occorre infatti ricordare che molti genitori tendono a paragonare il peso dei loro figli a quello di amici e compagni, e che non hanno a disposizione strumenti come le tabelle di crescita.
Lo studio voleva valutare la percezione dei genitori del peso del bambino, poiché questa percezione può influenzare la disponibilità della famiglia a promuovere comportamenti sani.
I dati sono stati raccolti nel corso di due studi, il NHANES 1988-1994 (n = 2871) e quello 2005-2010 (n = 3202). Ai genitori, soprattutto alle madri, è stato chiesto se giudicavano i figli, dai 6 agli 11 anni di età, in sovrappeso, sottopeso, o normopeso. Come riferimento sono stati utilizzati i grafici di crescita 2000 del Centers for Disease Control and Prevention.
La probabilità dei bambini in sovrappeso, oppure obesi, di essere percepiti correttamente con un peso eccessivo dai genitori è diminuito del 24% tra le due indagini (rapporto di probabilità = 0,76).
Il maggior incremento nei giudizi di peso normale rispetto a bambini con peso eccessivo avveniva nelle famiglie in situazione di disagio economico.

Fonte: Generational shift in parental perceptions of overweight among school-aged children. Hansen AR, Duncan DT, Tarasenko YN, Yan F, Zhang J. Pediatrics. 2014 Sep;134(3):481-8. doi: 10.1542/peds.2014-0012.

Supplementazione di ferro in gravidanza


La supplementazione di ferro aiuta le donne con flussi mestruali abbondanti

I medici dovrebbero attivamente prescrivere gli esami biochimici per evidenziare l’anemia sideropenica nelle donne con flussi mestruali abbondanti; inoltre, dovrebbero enfatizzare la supplementazione precoce di ferro come parte del trattamento. È quanto emerge da uno studio finlandese pubblicato sulla rivista Acta Obstetricia et Gynecologica Scandinavica. La ricerca ha scoperto che correggere l'anemia delle donne con il ferro porta a un miglioramento della qualità della vita correlata alla salute (HRQoL).Lo studio voleva valutare l'impatto sulla qualità della vita dell'anemia e della mancanza di ferro nelle donne trattate per flussi mestruali abbondanti. A questo scopo sono stati analizzati i dati di una sperimentazione controllata randomizzata, condotta in cinque ospedali della Finlandia, per un totale di 236 donne.
Le donne sono state assegnate in modo casuale al trattamento di isterectomia o con un sistema intrauterino di rilascio di levonorgestrel.
Le donne sono state divise in base ai valori di emoglobina pretrattamento [emoglobina <120 g / L (anemiche) vs emoglobina ≥120 g / L (non anemiche)] e alle concentrazioni di ferritina sierica (ferritina <15 μg/L vs. ≥15 μg/L). L'HRQoL è stata confrontata tra i gruppi all'inizio dello studio, e a 6 e 12 mesi dopo il trattamento. I valori di emoglobina e ferritina sono stati registrati per 5 anni.
La qualità della vita HRQoL è stata misurata con alcuni questionari.
All'inizio dello studio, 63 donne (27%) erano anemiche e 140 (60%) erano gravemente carenti di ferro (ferritina <15 μg / L). Solo l'8% delle donne anemiche aveva ricevuto una supplementazione di ferro.
Dodici mesi dopo il trattamento, i livelli di emoglobina sono aumentati in tutti i gruppi, ma erano ancora significativamente più bassi nelle donne inizialmente anemiche (128 g / L) rispetto alle donne non anemiche (136 g / L). Dodici mesi dopo il trattamento il questionario mostrava un miglioramento della qualità della vita , per energia, funzionamento fisico, sociale, depressione e ansia, più pronunciato nel gruppo delle donne anemiche rispetto all'altro gruppo. La ferritina sierica ha impiegato 5 anni per raggiungere i livelli normali.

Fonte: Effects of anemia and iron deficiency on quality of life in women with heavy menstrual bleeding.Peuranpää P, Heliövaara-Peippo S, Fraser I, Paavonen J, Hurskainen R. Acta Obstet Gynecol Scand. 2014 Jul;93(7):654-60. doi: 10.1111/aogs.12394. Epub 2014 Jun 9.