Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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mercoledì 23 dicembre 2015

Ami il Natale? Merito delle “aree neurali” del cervello

Perché alcuni sono in sintonia col Natale e si lasciano trascinare dal suo spirito e altri, invece, hanno la ”sindrome di Scrooge”, (il personaggio del racconto ”Il canto di Natale” che odiava questa festa), con indifferenza e ostilità? La risposta si nasconderebbe in un meccanismo del cervello individuato con un lavoro pubblicato sul British Medical Journal. Scienziati danesi hanno infatti localizzato lo spirito del Natale in diverse aree neurali. Secondo quanto riferito da Bryan Haddock dell’Università di Copenaghen, queste aree si attivano in maniera più intensa di fronte a immagini legate al Natale, ma solo nel cervello di persone che amano festeggiarlo e ne vivono lo spirito. Per il cervello dei tanti Scrooge, invece, il Natale resta una ”sciocchezza” e l’attivazione di quelle regioni neurali è molto meno intensa. Tutti conoscono il personaggio dickensiano di Scrooge (ne Il canto di Natale) e il suo odio verso il Natale; si è coniato addirittura il termine “sindrome di bah humbug” che significa proprio “Eh via! sciocchezze!,” la risposta arcigna di Scrooge agli auguri di Natale del nipote. I ricercatori hanno voluto vedere se vi fosse una differenza nel cervello di persone che amano il Natale e di chi invece non ne segue la tradizione. Così hanno coinvolto 20 individui, dieci amanti della tradizione natalizia e dieci no. Li hanno sottoposti a una risonanza magnetica mentre mostravano loro richiami natalizi. L’attivazione del cervello di amanti del Natale e di Scrooge è risultata molto diversa. Nei primi si attivano molto intensamente aree neurali non a caso già collegate in precedenti ricerche alla predisposizione alla spiritualità, alla tendenza all’autotrascendenza (a vedere oltre se stessi, vedersi parte di un tutto), all’empatia, immedesimarsi negli altri. Queste aree sono regioni della corteccia motoria e premotoria (importanti per l’empatia), parte dei lobi parietali (per la spiritualità), parte della corteccia somatosensoriale (importante nella percezione di sensazioni come odori e sapori).

venerdì 4 dicembre 2015

Obesità: dimagrire con i batteri del gelo

L’esposizione al freddo modifica la flora batterica intestinale e questo scatena una serie di alterazioni a livello dell’intestino, che possono portare alla perdita di peso e ad una miglior risposta all’insulina. L’Akkermansia muciniphila, un batterio della flora intestinale somministrato come ‘farmaco’, potrebbe determinare una perdita di peso.

Uno studio condotto dall’Università di Ginevra, dimostra che l’esposizione al freddo provoca una repentina alterazione della flora batterica intestinale, che porta ad un’attivazione del grasso bruno e, almeno negli animali da esperimento, a perdita di peso e ad una migliore sensibilità all’insulina. Trapiantando questo microbioma modificato dall’esposizione al freddo in un animale senza flora intestinale (germ-free) si determina nel ricevente un aumento dei livelli di grasso bruno e la sua sensibilità all’insulina migliora. Senza che sia necessario esporlo al freddo.

Tuttavia, fanno notare gli stessi autori, una prolungata esposizione al freddo può attenuare questa propensione a perdere peso, poiché l’organismo si adatta a questa condizione e comincia ad assorbire un maggior numero di calorie dal cibo ingerito. Tutto ciò sarebbe dovuto alla scomparsa di un batterio chiave, l’Akkermansia muciniphila, che influenza il modo con cui i nutrienti vengono assorbiti dall’organismo. La somministrazione di questo batterio dall’esterno, ripristina la perdita di peso.

E’ una serie di esperimenti molto complessi e di grande interesse, pubblicati su Cell dal gruppo di Mirko Trajkovski dell’Università di Ginevra (Svizzera), che suggeriscono una modalità inedita per combattere l’obesità.

La temperatura corporea dei mammiferi si mantiene in genere costante; ma l’esposizione al freddo ne provoca una rapida riduzione di qualche grado, al quale l’organismo si oppone facendo risalire piano piano la temperatura fino a livelli normali. Questo meccanismo adattativo è mediato dal cosiddetto grasso bruno, che ha appunto la funzione di generare calore, bruciando calorie. Sia il freddo che l’esercizio fisico favoriscono la comparsa, all’interno del grasso bianco, di cellule adipose che condividono alcune delle caratteristiche del grasso bruno, il cosiddetto grasso ‘beige’ che svolge un’azione protettiva anche contro l’eccessivo aumento di peso.

Lo studio appena pubblicato offre una chiave di lettura per comprendere come questo fenomeno possa essere collegato all’alterazione della flora batterica intestinale. Esponendo per un mese al freddo un gruppo di topi e riducendo gradualmente la temperatura ambientale da 20 a 6 gradi, i ricercatori svizzeri sono andati a studiare le variazioni del loro microbioma intestinale. In una seconda parte dell’esperimento, hanno trapiantato questo microbioma modificato dal freddo nell’intestino di topi resi germ-free.

“Le alterazioni che abbiamo osservato nella composizione del microbioma dei topi esposti al freddo – affermano Claire Chevalier e Ozren Stojanovic, coordinatori di questa ricerca - sono risultate anche più drammatiche delle differenze in precedenza riscontrate tra microbioma dei soggetti obesi e di quelli normopeso. Ancor più sorprendente è risultato il fatto che i topi germ free, ai quali era stato trapiantato il microbioma modificato dal freddo, sono diventati immediatamente resistenti al freddo; la loro temperatura corporea non si abbassava cioè, suggerendo così la flora trapiantata fosse in grado di governare questo meccanismo adattativo”. In altre parole, il trapianto di questa flora batterica modificata dal freddo è in grado di conferire resistenza al freddo. Ma non solo. I topi trapiantati mostravano anche un miglior profilo metabolico, una migliore sensibilità all’insulina e un aumento di grasso ‘beige’.

In genere i topi tendono ad aumentare di peso gradualmente; ma se esposti al freddo, tendono piuttosto a perdere peso, poiché bruciano calorie per trasformarle in calore. Come visto però, questo meccanismo adattativo è di breve durata e dopo un po’ gli animali, anche se ancora esposti al freddo, ricominciano a prendere peso. Questo è dovuto al fatto che si modifica l’assorbimento dei nutrienti.

“Siamo rimasti molto sorpresi – afferma Trajkovski – nel notare che le modificazioni del microbioma indotte dall’esposizione al freddo, provochino l’allungamento dei microvilli e dell’intestino. Entrambi questi effetti determinano un aumento della superficie assorbente dell’intestino e dunque facilitano l’assorbimento dei nutrienti dal cibo ingerito. Sembra incredibile insomma ma il microbioma è addirittura in grado di modificare la morfologia dell’intestino”.

Ma come si modifica il microbioma intestinale in risposta ad una prolungata esposizione al freddo? L’alterazione principale è rappresentata dalla drastica riduzione di un batterio, l’Akkermansia muciniphila. La somministrazione esogena di questo batterio provoca il ripristino della normale lunghezza dell’intestino che si ‘restringe’ per così dire; questo dimostra il suo ruolo fondamentale all’interno di questo meccanismo adattativo. La somministrazione di questo batterio ai topi ormai ‘abituati’ all’esposizione al freddo, ripristinare la perdita di peso.

E’ interessante notare come il microbioma degli individui obesi risulta ‘impoverito’ proprio di questo stesso batterio, che governa l’assorbimento dei nutrienti a livello intestinale. Gli scienziati svizzeri stanno dunque pensando di somministrare questo batterio per valutarne l’efficacia come possibile strategia anti-obesità; se questo dovesse funzionare ci si troverebbe di fronte ad un modo del tutto inedito di combattere questa condizione.

“L’intestino è anche il nostro più esteso tessuto endocrino – spiegaTrajkovski – Secerne infatti una serie di ormoni che agiscono a livello di diverse parti del corpo. Modificando la morfologia dell’intestino, il microbioma va dunque ad influenzare una serie di organi, cervello compreso”.

giovedì 3 dicembre 2015

Il grasso si mangia il cervello

Seguire una dieta abituale troppo ricca di grassi porta all’obesità; forse, però, non tutti sanno che in questa condizione si iniziano a consumare le connessioni tra i neuroni, provocando un decadimento della memoria e delle funzioni cognitive. Per fortuna, però, ritornando a una dieta povera di grassi e a un peso normale, si può invertire questa tendenza.

Lo dimostra uno studio sulle cavie condotto presso il Medical College of Georgia e pubblicato sulla rivista Brain, Behavior and Immunity, che fornisce alcune delle prime prove del motivo per cui il grasso fa male al cervello.

Le cellule della microglia sono costituite essenzialmente da macrofagi, specializzati nel proteggere i neuroni del sistema nervoso centrale ingerendo rifiuti e contribuendo, così, a garantirne la corretta funzione. Ma, quando i topi diventano obesi, il troppo grasso accumulato nel corpo produce un’infiammazione cronica, che stimola una risposta autoimmune da parte di queste cellule che cominciano a “mangiare” le sinapsi e non permettono più di apprendere in modo efficace. I ricercatori hanno sottoposto un gruppo di topi a una dieta col 10% delle calorie provenienti da grassi saturi e un secondo gruppo a una dieta con un apporto di grassi del 60%.

Dopo 12 settimane, nell’ippocampo di quelli diventati obesi si notava una riduzione del numero e della funzione delle sinapsi e un aumento di citochine infiammatorie, che le cellule della microglia producono quando sono iperattivate. Dopo due mesi di una dieta controllata e povera di grassi mostravano, però, di aver invertito la tendenza, mentre il gruppo rimasto con dieta ricca di grassi continuava a perdere sinapsi.

venerdì 27 novembre 2015

I batteri intestinali regolano l'appetito

Un nuovo studio suggerisce che dopo un pasto i batteri dell’intestino producono alcune proteine ​​che possono intervenire nel controllo di quando e quanto mangiare. Questa è l’evidenza di uno studio proveniente dal laboratorio della Rouen University INSERM’s Nutrition Gut & Brain, in Francia pubblicato sulla rivista Cell Metabolism.

Sergueï Fetissov, autore senior dello studio, ha scoperto che alcuni batteri della flora intestinale, circa 20 minuti dopo un pasto, rilasciano proteine che direttamente e indirettamente accendono nel cervello i neuroni deputati a regolare l’appetito e la sensazione di sazietà. Gli esperti hanno isolato queste proteine batteriche nell’intestino e nel sangue e poi le hanno testate su topi. E’ così emerso che i roditori che ricevevano un’iniezione di queste proteine batteriche, non mangiavano anche se erano a digiuno, a riprova del fatto che tali molecole inducono la sazietà.

Gli stessi ricercatori hanno anche visto che i segnali batterici della sazietà agiscono, sia stimolando la produzione del peptide YY (ormone intestinale della sazietà), sia attivando direttamente il cervello. Questa scoperta è coerente con i risultati di recenti ricerche secondo cui la flora batterica intestinale ha un ruolo fondamentale nel regolare il peso corporeo e quando è alterata nella sua composizione microbica può favorire l’obesità.

Ecco perché la dieta può non funzionare

Vi siete mai chiesti perché che la vostra dieta non ha funzionato? Ecco la risposta. Uno studio israeliano che ha monitorato i livelli di zucchero nel sangue di 800 persone nel corso di una settimana, suggerisce che anche se tutti hanno mangiato lo stesso pasto, il modo con cui viene metabolizzato, è diverso da una persona all’altra.

I risultati, pubblicati sulla rivista Cell, dimostrano le potenzialità della “nutrizione personalizzata”, un metodo che serve per aiutare le persone a identificare quali alimenti possono aiutare o ostacolare i loro obiettivi di salute.

Il livello di zucchero che si misura nel sangue è in stretta associazione con diversi problemi di salute come il diabete e l’obesità, è facile da misurare, tramite un monitoraggio continuo del glucosio nel sangue (glicemia). Gli alimenti vengono anche classificati in base all’Indice Glicemico (IG) cioè in base a come un determinato alimento influisce sulla glicemia dopo averlo mangiato. Inoltre l’IG viene utilizzato da medici e nutrizionisti per pianificare una dieta sana. Tuttavia, questo sistema era basato sui risultati di alcuni studi che verificavano le variazioni della glicemia di piccoli o medi gruppi, dopo l’assunzione degli alimenti.

Il nuovo studio, condotto da Eran Segal e Eran Elinav del Weizmann Institute of Science in Israele, ha scoperto che l’IG di un determinato cibo non è un valore prefissato, ma dipende dal singolo individuo. Per tutti i partecipanti, i ricercatori hanno raccolto i dati attraverso questionari sulla salute, misure corporee, esami del sangue, monitoraggio del glucosio, campioni di feci e un app applicata al telefono cellulare, è stata utilizzata per comunicare lo stile di vita e l’assunzione di cibo (tutte le misure sono state rilevate per un totale di 46.898 pasti). Inoltre, i volontari hanno ricevuto, per colazione, alcuni pasti standardizzati/identici.

Come previsto, l’indice di massa corporea (Imc) e l’età erano associati con i livelli di glucosio nel sangue dopo i pasti. Tuttavia, i dati hanno anche rivelato che diverse persone mostrano reazioni molto diverse per lo stesso cibo, anche se le loro risposte individuali non sono cambiate da un giorno all’altro.

“Si può pensare che la maggior parte delle raccomandazioni dietetiche siano basate su uno di questi sistemi di classificazione, tuttavia, ciò che le persone non hanno evidenziato, o forse non hanno pienamente apprezzato, è che ci sono profonde differenze nelle risposte della glicemia tra gli uni e gli altri e questa è una grave mancanza anche negli studi fino ad ora pubblicati “, ha detto Segal, del dipartimento di Informatica e Matematica Applicata del Weizmann Institute.

Obesità infantile e rischio cardiopatie

Avere una severa obesità da piccoli è associato a fattori di rischio cardiometabolici più alti. Questa associazione sembra più forte nei maschi che nelle femmine. È il risultato di uno studio americano, pubblicato sul New England Journal of Medicine.
Nella ricerca sono stati usati i dati di bambini e ragazzi, in sovrappeso e obesi, tra i 3 e il 19 anni di età, raccolti nell'ambito del National Health and Nutrition Examination Survey tra il 1999 e il 2012. Lo scopo dello studio era valutare i fattori di rischio cardiometabolico rispetto al grado di obesità.
Sono stati misurati altezza e peso, i diversi valori di colesterolo, trigliceridi, la pressione arteriosa, l'emoglobina glicata e il glucosio a digiuno.
Tra i 8.579 bambini e ragazzi con un Bmi uguale o superiore all'85esimo percentile, il 47% era in sovrappeso, il 36% aveva un'obesità di 1° grado, il 12% di 2° grado e il 5% di 3° grado. I valori di alcuni indicatori cardiometabolici, ma non di tutti, erano maggiori al crescere del grado di obesità, soprattutto nei maschi. Riguardo al colesterolo HDL, il livello era più basso al crescere del grado di obesità. Dopo aver tenuto conto dell'età, dell'etnia e del sesso, è risultato che più grave è l'obesità, maggiore il rischio di un basso livello di colesterolo HDL, alta pressione diastolica e sistolica e alti livelli di trigliceridi e di emoglobina glicata.
I ricercatori hanno quindi concluso che i bambini e giovani con un eccessivo accumulo di grasso corporeo possono essere maggiormente a rischio.

Fonte:
Skinner, Asheley C., et al. "Cardiometabolic Risks and Severity of Obesity in Children and Young Adults." New England Journal of Medicine 373.14 (2015): 1307-1317.

giovedì 22 ottobre 2015

Anoressia: mangiare poco è un’abitudine


Le persone che soffrono di anoressia nervosa, non sembrano doversi trattenere per mangiare poco, ma hanno ormai acquisito questo comportamento come se fosse un’abitudine. Questo è il risultato di uno studio pubblicato su Nature Neuroscience, che spiega come mai è molto difficile guarire da questa grave malattia, che si ripresenta entro un anno nel 50% dei pazienti che apparentemente sono migliorati.

I ricercatori hanno analizzato il cervello di 21 donne con anoressia e 21 sane mentre sceglievano quale cibo mangiare. Le donne anoressiche, nonostante la volontà dichiarata di guarire, avevano una probabilità maggiore di scegliere cibi a basso contenuto calorico, e una minore propensione a definire ‘gustosi’ i cibi invece ricchi di grassi. La scansione del cervello delle pazienti ha rivelato che in entrambi i gruppi, al momento di scegliere, si attivava un’area del cervello chiamata striato ventrale, che fa parte dell’area dedicata alle ricompense.

“Ma nelle anoressiche – scrivono gli autori – “ si notava una maggiore attività nello striato dorsale, un’area coinvolta nei comportamenti abituali, e questo suggerisce che questi soggetti agiscano automaticamente e in base alle esperienze passate”.

Integratori alimentari: sono davvero innocui?

Che siano vitamine, sali minerali, amminoacidi, prodotti erboristici, prodotti dimagranti o energizzanti, gli integratori alimentari vanno assunti con cautela, perché possono provocare fastidi che richiedono un pronto soccorso, come rivelato in un’indagine americana pubblicata sul New England Journal of Medicine da Andrew Geller dei Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta.

Molti americani sono finiti al pronto soccorso dopo aver assunto integratori: sia i bambini che li ingeriscono senza il controllo dei genitori, sia gli anziani (per incidenti mentre li ingoiano – soffocamento), ma anche i giovani con complicanze e sintomatologia cardiovascolare.

Gli esperti hanno analizzato un database di eventi avversi dopo l’assunzione di integratori, riferiti da 63 ospedali evidenziando 3.667 casi di accesso al pronto soccorso legati all’uso di integratori. Da queste evidenze i ricercatori USA hanno estrapolato una stima annuale di 23.005 eventi avversi per la popolazione americana, legati all’uso di integratori.

Il 21,6% di tali eventi riguarda bambini sotto i 5 anni che hanno assunto integratori senza il controllo dei genitori. Il 28% riguarda invece adulti di età 20-34 anni, nella maggior parte dei casi legati all’assunzione di integratori alimentari con effetti dimagranti o prodotti per body builder o per prodotti (maschili) venduti per il potenziamento sessuale. Anche gli anziani sono coinvolti, soprattutto per problemi legati all’ingestione delle pillole (il 40% dei casi di accesso al pronto soccorso).

Lo studio evidenzia, sostanzialmente, come anche gli integratori alimentari – spesso assunti senza consultare il medico – possono comportare rischi di diversa gravità per la salute.

Tra i problemi più spesso riferiti, soprattutto nella fascia di età 20-34 anni, vi sono complicazioni cardiache (dolore toracico, palpitazioni, tachicardia) nel 71,8% dei casi imputabili a un eccesso di prodotti dimagranti o sostanze usate dagli amanti del body building.

venerdì 9 ottobre 2015

Frutta per combattere Alzheimer e Parkinson

Gli antiossidanti presenti nella frutta aiutano a prevenire le malattie legate all’invecchiamento cellulare, come il morbo di Parkinson e l’Alzheimer.

Lo confermano i risultati di uno studio, cominciato nel 2010, e condotto dai ricercatori della Fondazione Mach (Fem) nei laboratori di metabolomica di San Michele all’Adige, in Trentino. La ricerca ha monitorato l’effetto dei metaboliti della frutta sull’organismo umano esplorando le loro eventuali interazioni con i meccanismi cellulari.
E i risultati sono stati pubblicati sulla rivista dell’American Chemical Society, “Acs Chemical Neuroscience” in un articolo dal titolo: ”Polifenoli della frutta e il loro destino nei mammiferi” .

In particolare, lo studio ha approfondito gli effetti dell’acido gallico, presente nel vino e nei piccoli frutti (frutti di bosco), dimostrando che quantità significative di questo polifenolo si depositano proprio nel cervello, e potrebbero così agire come fattori di prevenzione di alcune malattie legate all’invecchiamento dei neuroni e, di conseguenza, anche alla neuro-degenerazione.

Il lavoro, condotto in collaborazione con l’Università di Trento, è stato realizzato da Mattia Gasperotti nell’ambito di un progetto di dottorato, coordinato dalla ricercatrice e ambasciatore per la scienza in Slovenia, Urska Vrhovsek.

giovedì 1 ottobre 2015

Pesce spada probiotico

È stato realizzato da ricercatori dell’Istituto di scienze delle produzioni alimentari (Ispa) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) un filetto di pesce spada pronto da mangiare e in grado di veicolare nell’intestino umano probiotici selezionati, senza subire alterazioni nel suo contenuto proteico. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Journal of Functional Foods.

Potenziare l’effetto barriera della mucosa intestinale, stimolare la risposta immunitaria umorale e modulare i componenti del sistema immunitario intestinale. Queste le principali funzioni terapeutiche dei probiotici, prodotti funzionali che contengono microorganismi in grado di coadiuvare le attività delle popolazioni dei batteri lattici che risiedono nell’intestino.

In virtù di questa relazione tra salute e batteri benefici, il mercato degli alimenti funzionali probiotici ha subito negli ultimi anni un forte impulso orientandosi sull’individuazione di alimenti della dieta quotidiana in grado di agire da carrier (trasportatori) biologici per il trasporto di cellule vive e attive nell’intestino.

In quest’ambito, un gruppo di ricercatori dell’Istituto di scienze delle produzioni alimentari del Consiglio nazionale delle ricerche (Ispa-Cnr) di Bari e Torino ha realizzato, in collaborazione con l’Azienda Copaim Spa di Albinia (Grosseto), un filetto di pesce spada pronto da mangiare e in grado di trasportare nell’intestino umano un’adeguata concentrazione di un microorganismo probiotico selezionato. I risultati dello studio sono stati pubblicati sul Journal of Functional Foods.

“Abbiamo condotto un trial nutrizionale”, spiega Paola Lavermicocca, autrice del lavoro e coordinatrice della ricerca, “su 8 soggetti sani a cui sono stati somministrati a giorni alterni 100 grammi di filetto probiotico per un totale di 20 giorni. Dopo il consumo di sole 5 porzioni di pesce, l’intestino risultava già colonizzato dai microorganismi, fornendo quindi gli stessi benefici di un’assunzione quotidiana che è generalmente suggerita per gli alimenti probiotici.

Inoltre, il ceppo probiotico selezionato sopravvive nel prodotto nel corso della conservazione in una marinatura a ridotto contenuto di sale ed è risultato efficace nel preservare le proprietà nutrizionali del pesce, mantenendo inalterati il contenuto di amminoacidi ed il profilo proteico”.
Il filetto di pesce probiotico amplia l’offerta di alimenti funzionali rappresentando una valida soluzione anche per consumatori che seguono un regime dietetico a basso contenuto di colesterolo e/o lactose-free (senza lattosio). “I risultati sono stati ottenuti – aggiunge Francesca Valerio dell’Ispa-Cnr – grazie alla ricerca condotta in questi anni che ci ha portato a isolare, selezionare e caratterizzare un ceppo probiotico di Lactobacillus paracasei con ottime performance tecnologiche, utilizzato per realizzare olive e carciofi probiotici la cui efficacia è stata confermata da trials nutrizionali condotti in collaborazione con il Reparto di gastroenterologia dell’Ircss Saverio De Bellis di Castellana Grotte”.
La ricerca svolta dall’Ispa è una delle tematiche di interesse della rete Nutrheff – Nutraceutical Health Enhancing Functional Foods, il network promosso dal Dipartimento di scienze bio-agroalimentari del Cnr volto a favorire l’interazione, la crescita e la diffusione della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico nel campo degli alimenti funzionali e dei nutraceutici.

La dieta che fa male al cervello

Una dieta abituale malsana, di stile “occidentale”, caratterizzata da carne, hamburger, patatine fritte e bevande analcoliche zuccherate e colorate, sembra ridurre il volume dell’ippocampo sinistro (regione del cervello che presiede i processi di apprendimento e memorizzazione delle informazioni ricevute e sovraintende il senso dell’olfatto), mentre una dieta sana di verdure fresche e pesce può aumentare il volume ippocampale.

Questo è quanto, in sostanza, si evidenzia in uno studio che ha coinvolto oltre 250 soggetti, pubblicato online su BMC Medicine. I ricercatori hanno riscontrato che nel corso di un periodo di 4 anni, c’era una differenza di più di 200 millimetri cubi nel volume ippocampale tra gli individui che avevano condotto una dieta abituale sana e coloro che avevano consumato una dieta malsana.

“A nostra conoscenza, questo è il primo studio a dimostrare nell’uomo le associazioni tra dieta e il volume ippocampale, ed è coerente con i dati precedentemente osservati negli studi su animali”, hanno scritto i ricercatori guidati da Felice N. Jacka, professore della Division of Nutritional Psychiatry Research presso la Deakin University (Geelong, Australia) e presidente della Iternational Society for Nutritional Psychiatry Research.

“Questi risultati suggeriscono la possibilità di interventi dietetici per promuovere la salute dell’ippocampo, diminuire l’atrofia cerebrale (riduzione del peso, del volume e delle funzioni) correlata all’età, e prevenire le conseguenze negative sulla salute associate con l’atrofia ippocampale” hanno aggiunto.

mercoledì 15 luglio 2015

Lo stile di vita in gravidanza e rischio di obesità nel figlio

Quando una donna in gravidanza acquista più peso di quanto raccomandato, non effettua attività fisica e fuma, il figlio, raggiunta l'età di otto anni, potrebbe avere una probabilità più alta di essere sovrappeso oppure obeso. È il risultato di uno studio pubblicato sulla rivista BMC Pregnancy and Childbirth.
Nello studio sono stati estratti a caso i dati di 5.125 bambini, e sono state registrate le condizioni delle madri, attraverso interviste telefoniche. Per ogni bambino è stato calcolato il Bmi.
La probabilità di essere obeso o sovrappeso all'età di 8 anni per ogni chilogrammo di aumento di peso in gravidanza, per il fumo e per l'esercizio lieve durante la gravidanza rispetto ai sedentari era rispettivamente di 1.01, 1.23 e 0.77.
I figli delle donne che in gravidanza aumentavano di peso in misura superiore alle raccomandazioni dell'Institute of Medicine (IOM) avevano un rischio maggiore di obesità (OR: 1.45) rispetto ai figli di donne con aumento di peso in gravidanza nel range raccomandato. L'età della madre e il consumo di alcol non risultavano invece associati con il rischio di obesità. 
L'aumento di peso, l'attività fisica e il fumo durante la gravidanza erano associati in modo significativo con l'obesità dei figli all'età di 8 anni. 
Secondo gli autori, i medici dovrebbe fortemente consigliare alle donne di non fumare e di praticare un'attività fisica di livello moderato durante la gravidanza, per prevenire l'insorgere dell'obesità nei figli in un momento successivo.

Fonte:
Mourtakos, Stamatis P., et al. "Maternal lifestyle characteristics during pregnancy, and the risk of obesity in the offspring: a study of 5,125 children." BMC pregnancy and childbirth 15.1 (2015): 66.

Teenager obesi: aumenta il rischio Alzheimer

Gli adolescenti obesi, con resistenza all'insulina, hanno alcuni parametri del sangue che suggeriscono un maggiore rischio per la malattia di Alzheimer. I teenager obesi hanno livelli più alti di biomarcatori, molecole nel plasma, che possono essere associati con un maggiore rischio di sviluppare successivamente demenza, problemi cognitivi da anziani e l'Alzheimer.
È il risultato di uno studio italiano pubblicato su Pediatrics.
I ricercatori si sono chiesti se ci sia un rapporto tra lo sviluppo precoce della resistenza all'insulina e il rischio di demenza e malattia di Alzheimer. A questo scopo sono stati valutati i valori plasmatici del peptide beta amiloide (Aβ42) e presenilina 1 (PSEN1) in 101 bambini di età prescolare e 309 adolescenti con vari BMI.
È risultato che gli adolescenti obesi avevano valori di Aβ42 maggiori rispetto ai coetanei in sovrappeso e di peso normale. Avevano anche valori più alti di PSEN1. La concentrazione di Aβ42 era correlata in modo significativo con il BMI, e con la resistenza all'insulina (misurata con l'HOMA-IR e il QUICKI). 

Fonte:
Luciano, Rosa, et al. "Biomarkers of Alzheimer Disease, Insulin Resistance, and Obesity in Childhood." Pediatrics (2015): peds-2014.

sabato 11 luglio 2015

Età biologica e metabolica: la rapidità di invecchiamento dipende anche dal fegato

Diversi parametri clinici e genetici, tra cui la funzionalità epatica consentono di determinare la rapidità con cui avanza l'invecchiamento di una persona.

Si invecchia da molto giovani dunque se il fegato viene trattato male, conferma uno studio da Dan Belsk, della Duke University e colleghi, che hanno misurato la rapidità dell'invecchiamento di quasi 1000 persone sulla base di 18 parametri biologici analizzando i dati del Dunedin Multidisciplinary Health and Developmental Study, uno storico studio neozelandese in cui più di un migliaio di persone sono state seguite dai primi anni settanta fino ad oggi, con misurazioni periodiche di diversi parametri clinici e con questionari sulle abitudini di vita.

L'invecchiamento è un processo che dura tutta la vita e non è ristretto a una particolare fascia di età (© B. BOISSONNET/BSIP/BSIP/Corbis). In particolare, Belsk e colleghi hanno considerato, per tre diverse età dei soggetti - 26, 32 e 38 anni - i livelli di colesterolo HDL, il colesterolo "buono", la capacità cardiorespiratoria, la funzione renale e quella epatica, la condizione dentale, la condizione vascolare della retina, indicativa dello stato dei vasi intracranici, oltre a parametri genetici come la lunghezza dei telomeri, i "cappucci" dei cromosomi che si accorciano via via che aumenta l'età.

Per ognuno di questi marcatori biologici, hanno assegnato a ciascun partecipante un'età biologica, che per i trentottenni poteva variare tra 30 a 60 anni, e una velocità d'invecchiamento. L'analisi statistica ha dimostrato che, per quest'ultimo parametro, la maggior parte dei partecipanti invecchiava al ritmo di un anno per anno, ma alcuni soggetti invecchiavano di tre anni per anno.

La maggior parte degli studi in materia d'invecchiamento considerano soggetti già anziani, ma è possibile riscontrare dei giovani-vecchi a conferma del fatto che l'invecchiamento non è qualcosa che riguarda la vecchiaia, ma la giovinezza e tutta la vita.

Come ci si attendeva, i soggetti che invecchiavano più rapidamente secondo i parametri clinici erano quelli che portavano peggio i propri anni anagrafici. La conferma è venuta dal confronto delle fotografie scattate ai soggetti durante tutto il periodo in cui sono stati seguiti.

venerdì 10 luglio 2015

Esporsi al sole è più rischioso se si consumano molti agrumi

Gli agrumi sono cibi ricchi di psoraleni e furanocumarine che hanno proprietà foto-carcinogeniche. Secondo i risultati di uno studio condotto presso la Brown University, individui con la pelle chiara che consumano molti agrumi hanno un rischio significativamente maggiore, anche se numericamente non allarmante, di sviluppare un melanoma maligno nell’arco di 25 anni.

Lo studio in questione ha coinvolto più di 100.000 persone (circa 60.000 donne e 40.000 uomini) che sono state regolarmente seguite ogni 2 o 4 anni a partire dal 1984/86 e fino al 2010 per registrare i consumi alimentari e l’incidenza di casi di melanoma.

In un periodo di follow-up di circa 25 anni sono stati registrati 1.840 casi di melanoma. Eliminando i potenziali fattori di confondimento è emerso che il rischio di sviluppare melanoma era pari a 1.00 per un consumo di agrumi inferiore a 2 volte alla settimana, saliva a 1.10 per un consumo di 2-4 volte alla settimana e raggiungeva il massimo di 1.36 per un consumo maggiore di 1.6 agrumi al giorno. Gli autori hanno anche osservato che il consumo di pompelmo era particolarmente associato al rischio di melanoma; il rischio per una persona che ne consumava più di tre volte alla settimana era di 1,41 volte maggiore rispetto a una persona che non ne consumavano affatto.

Dai risultati di questo studio emerge dunque che il consumo di pompelmo in particolare, e di arance in misura minore, può essere associato a un rischio maggiore di sviluppare melanoma. Gli autori sottolineano comunque come i risultati di questo studio non suggeriscano assolutamente che il consumo di agrumi possa essere pericoloso per la salute; al contrario questi risultati dovrebbero spingere le persone che consumano molti agrumi a prestare maggiore attenzione prima di esporsi al sole.


"Citrus Consumption and Risk of Cutaneous Malignant Melanoma"
http://jco.ascopubs.org/content/early/2015/06/24/JCO.2014.57.4111.abstract

Il rumore fa ingrassare

Il rumore del traffico (che sia aereo, ferroviario o stradale, non fa differenza) potrebbe in una certa misura aumentare il rischio di obesità. Un gruppo di ricercatori svedesi del Karolinska Institutet di Stoccolma è giunto a questa conclusione dopo avere seguito più di 5.000 svedesi di entrambi i sessi, e messo in relazione il loro indice di massa corporea, la circonferenza vita e il rapporto vita-fianchi con l’inquinamento acustico della zona in cui vivevano. È stata così notata una precisa correlazione tra i due fattori, che potrebbe essere riassunta in questa formula: a ogni 5 decibel in più di rumore di fondo, si registrava una media di 0,21 centimetri in più di circonferenza vita. Lo sferragliare dei treni, i rombi degli aerei in avvicinamento e il rumore del traffico automobilistico sono stati anche associati a un aumento del rischio di obesità, che aumenta esponenzialmente per chi vive in località esposte a due o più fonti di rumore. Forse non è il caso di cambiare casa invece di mettersi seriamente a dieta, se si è sovrappeso, ma evitare le zone più rumorose quando si è in cerca di un nuovo appartamento è certo una cosa positiva (e non solo per il girovita).

Fonte: Occupation & Environmental Medicine

giovedì 18 giugno 2015

Rischio di diabete di tipo 2 in presenza di grasso corporeo e familiarità


Lo studio ha analizzato la popolazione METSIM, un gruppo di 10.197 soggetti di mezza età, scelti a caso, per i quali sono state raccolte una serie di informazioni tra cui fenotipizzazione estesa e familiarità al diabete. Tali soggetti sono stati analizzati al basale e dopo un periodo di follow-up di 6 anni. Un sottogruppo di 158 individui sani sono stati inoltre analizzati per valutare le conseguenze metaboliche di un aumento del grasso viscerale rispetto a quello sottocutaneo.

Al basale gli individui con parenti di primo e/o secondo grado con diabete (FH+) avevano un aumento di circa 2 volte nella prevalenza di diabete di tipo 2 rispetto a individui senza familiarità al diabete (FH-). Soggetti con parenti di primo grado affetti da diabete erano più spesso obesi o in sovrappeso rispetto a soggetti FH-. Essi inoltre avevano un più alto rischio di sviluppare diabete di tipo 2 o malattie cardiovascolari rispetto a soggetti FH- e, anche se non obesi, erano maggiormente suscettibili alle conseguenze negative di un aumento del grasso corporeo. L’analisi per sottogruppi ha mostrato che le conseguenze metaboliche dell’aumento di grasso corporeo erano per lo più dovute al grasso ectopico/viscerale rispetto al grasso sottocutaneo. In ultimo, l’aumentato profilo di rischio osservato in individui FH+ non risultava alterato aggiustando i risultati per i 43 geni noti per essere maggiormente correlati al rischio di diabete.


In conclusione la familiarità al diabete, in particolare la presenza di parenti di primo grado con diabete di tipo 2, è associata sia a un maggiore rischio di diventare sovrappeso o obesi, sia ad una maggiore suscettibilità alle conseguenze negative dell’aumento del grasso corporeo, probabilmente dovute a una maggiore propensione ad accumulare grasso ectopico e non sottocutaneo.

Articolo originale
http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/joim.12289/abstract

venerdì 5 giugno 2015

Passare troppo tempo su Facebook facilita la depressione.

Uno studio polacco, condotto all'Università di Lublino su 672 utenti del social rivela che gran parte degli utenti più accaniti ha mostrato disordini come depressione, solitudine, disturbi della sfera sessuale. 

Giovane, uomo, disposto a trascorrere molto tempo on line: ecco l’identikit della persona che ha un’insana dipendenza da Facebook. Agata Blachnio e un gruppo di ricercatori dell’Università Cattolica “Giovanni Paolo II” di Lublino (Polonia) hanno sottoposto 672 utenti – di età compresa tra i 15 e i 75 anni, per una media di 28 – a una serie di questionari, compresi alcuni test cognitivi. L’obiettivo principale dello studio era quello di valutare la potenziale relazione fra l’uso di Internet – e in particolare di Facebook – e la depressione.

“Gran parte degli utenti più accaniti ha mostrato disordini come depressione, solitudine, disturbi della sfera sessuale”, hanno commentato gli autori dello studio. Il team di ricerca ha scoperto anche che la quantità di tempo trascorsa ogni giorno on line era correlata positivamente a frequenti accessi a Facebook, e la navigazione su questo sito era legata a picchi più alti di depressione. “Un eccessivo coinvolgimento nel social media provoca distrae dalle attività quotidiane e dalle relazioni interpersonali” concludono i ricercatori.

giovedì 4 giugno 2015

Cervello e sistema immunitario: individuato l'anello mancante.

Una nuova scoperta relativa al corpo umano e al suo funzionamento annuncia che il cervello sembra collegato in maniera diretta al sistema immunitario attraverso vasi linfatici la cui presenza nel cervello era ‘sconosciuta’ fino ad oggi. Proprio questi vasi, che erano ‘sfuggiti’ alla mappatura del sistema linfatico a causa della difficoltà nel rintracciarli, rappresenterebbero l’anello di congiunzione tra il cervello e il sistema immunitario. Lo afferma uno studio, guidato dalla University of Virginia(UVA) School of Medicine (University of VirginiaHealth Sistem), che è stato pubblicato** sulla prestigiosa rivista Nature.

Lo studio è svolto su modello animale di topo e i risultati potrebbero avere profonde implicazioni per varie malattie neurologiche con componente immunitaria, dall’autismo all’Alzheimer fino alla sclerosi multipla, affermano gli autori dello studio.

Secondo gli scienziati, il risultato colma un importante ‘gap’, cioè una mancanza di conoscenze, nella comprensione del funzionamento dell’organismo umano; inoltre, la scoperta apre nuove aree di ricerca, modificando l’assetto di settori di studio già esistenti. “I libri di testo dovranno essere modificati”, aggiunge Kevin Lee, chairman del Dipartimento di Neuroscienze della University of Virginia,

“Invece di domandarsi: ‘in che modo studiamo la risposta immunitaria del cervello?’ e ‘perché i pazienti con sclerosi multipla presentano attacchi immunitari?’, ora possiamo adottare un approccio automatico. Questo avviene perché il cervello è come qualsiasi altro tessuto connesso al sistema immunitario periferico attraverso i vasi linfatici meningei”, ha affermato Jonathan Kipnis, PhD, Professore al Dipartimento di Neuroscienze e Direttore del Centro BIG (Center for Brain Immunology and Glia) presso la stessa Università, “Questo dato cambia interamente il modo di percepire l’interazione neuro-immunitaria”.

Kevin Lee aggiunge che finora “non è mai esistito un sistema linfatico per il sistema nervoso centrale. È risultato molto chiaro, fin dalla prima particolare osservazione – e a partire da quella i ricercatori hanno svolto molti studi per sostenere il risultato – che le modalità con cui si guarderà al rapporto tra sistema nervoso centrale e sistema immunitario cambieranno in maniera radicale”.

Il sistema linfatico è costituito da un’intricata trama di vasi e rappresenta un’importante struttura del nostro organismo. Esso assume diversi ruoli, tra cui uno di essi riguarda la funzione di raccogliere i fluidi tra gli interstizi dei tessuti per drenarli e trasportarli verso regioni centrali del corpo. Il sistema linfatico, inoltre, svolge anche una funzione di selezione e eliminazione delle parti di rifiuto e delle sostanze ‘nemiche’ dell’organismo (come i patogeni) ed è collegato al sistema immunitario.

Il risultato* e le prospettive
Lo studio è stato condotto in laboratorio sul topo.Finora, la mancata osservazione dei vasi linfatici del cervello è probabilmente dovuta al fatto che essi erano “nascosti molto bene”, spiega Jonathan Kipnis. Oggi, questi vasi sono stati ‘fotografati’ tramite tecniche di imaging (generazione di immagini) in un’area molto difficile da visualizzare, nei ‘sinus’, cavità la maggior parte delle quali si trova nelle ossa del viso ed è connessa con le cavità nasali. Quest’area “è così vicina ai vasi sanguigni che puoi perderla”, aggiunge l’esperto. “Se non sai cosa stai cercando, la perdi”.
Nell’immagine in calce al testo si può trovare la mappa del sistema linfatico prima (immagine sulla sinistra) dello studio odierno e dopo (immagine di destra) il risultato odierno ottenuto dalla University of Virginia pubblicato su Nature.

Ed ora l’identificazione della presenza di questi vasi linfatici apre un enorme numero di questioni relative sia al funzionamento del cervello che alle malattie che lo colpiscono, tra cui ad esempio l’Alzheimer, secondo i ricercatori. “Nell’Alzheimer, si verificano accumuli di grandi frammenti di proteine”, spiega Kipnis. “Riteniamo che tali frammenti potrebbero accumularsi a causa del fatto che non vengono rimossi in maniera efficace da questi vasi sanguigni”. Questi vasi, inoltre, cambiano aspetto all’aumentare dell’età dell’individuo, dunque il ruolo che essi giocano nella fase dell’invecchiamento rappresenta un’altra strada da esplorare. Altre malattie verso le quali rivolgere l’attenzione alla luce di questo risultato sono l’autismo e la sclerosi multipla. “Riteniamo che per ciascuna malattia neurologica che ha una componente immunitaria, tali vasi sanguigni possano giocare un ruolo centrale”, ha affermato il Professore. “È difficile immaginare che questi vasi non siano coinvolti in una malattia [neurologica] con una componente immunitaria”.

Kipnis è inizialmente rimasto molto sorpreso. “Non credevo davvero che ci fossero strutture nel corpo ancora non conosciute. Pensavo che il corpo umano fosse stato mappato”, prosegue l’esperto, inizialmente sorpreso del risultato”, afferma. “Ritenevo che queste scoperte avessero trovato una conclusione nella metà del secolo scorso. Ma apparentemente non è così”.

giovedì 14 maggio 2015

Cancro al colon. I batteri intestinali promuovono la malattia.


I batteri intestinali crescerebbero e si organizzerebbero servendosi di particolari sostanze, chiamate poliammine. In particolare di una di esse, la N1-N12 diacetilspermina, sovrabbondante nei pazienti con cancro al colon. Secondo i ricercatori, la rimozione di queste strutture batteriche attraverso trattamento antibiotico potrebbe prevenire lo sviluppo del cancro. Lo studio su Cell Metabolism

Uno studio scientifico spiega qual è il meccanismo che lega i biofilm - particolari conglomerazioni – di batteri e il cancro al colon: queste strutture batteriche sembrerebbero promuovere lo sviluppo della malattia attraverso meccanismi biologici specifici, oggi messi a fuoco dai ricercatori. Lo studio è stato condotto dal the Scripps Research Institute (Tsri) e la Johns Hopkins University School of Medicine ed è pubblicato* su Cell Metabolism.
Il risultato suggerisce che la rimozione dei biofilm di batteri attraverso trattamento antibiotico potrebbe rappresentare uno strumento importante per prevenire il cancro al colon, che è la quarta causa di decesso tra le malattie tumorali.

Già all’interno di uno studio precedente, il gruppo di ricerca guidato da Cynthia L. Sears e colleghi ha dimostrato che il tessuto all’interno ed intorno al tumore del colon ascendente, sul lato destro dell’addome, ospita quasi sempre questi biofilm.
Nello studio odierno, gli scienziati si spingono oltre per “determinare se c’è un collegamento a livello metabolico tra i biofilm di batteri e il cancro al colon”, ha dichiarato Caroline H. Johnson, dello Scripps Center for Metabolomics e co-primo autore dello studio insieme a Christine M. Dejea del Johns Hopkins.

I ricercatori hanno analizzato campioni di tessuti umani di tumore del colon e di tessuti istologicamente sani, sia in presenza che in assenza di biofilm.
Gli scienziati mettono in luce una relazione tra alcuni tipi di metaboliti e lo sviluppo della malattia. In generale, i metaboliti sono sostanze, abbondantemente presenti nell’organismo, (nell’uomo esistono più di 10mila tipi diversi), che assumono un ruolo in numerosi processi biologici.
In base ai risultati, alcuni metaboliti si dimostrano importanti nel promuovere la malattia: si tratta delle poliammine, un gruppo di sostanze coinvolte nella crescita cellulare che sono sovra-regolate nel tumore e in altri tessuti a rapida crescita.
In particolare, una di esse, N1-N12 diacetilspermina, è risultata particolarmente abbondante nel caso del cancro al colon, in una concentrazione ben nove volte superiore nel tessuto canceroso rispetto al tessuto sano.
In precedenza, questa sostanza era già risultata in eccesso nel cancro del colon e per questo è considerata come un potenziale biomarcatore della malattia nelle primissime fasi per una diagnosi precoce.

Ma qual è il collegamento tra le poliammine e i batteri? Questi ultimi si servono di tali sostanze, spesso utilizzando quelle provenienti dall’organismo animale che li ospita, per crescere e per costituire le strutture note come biofilm. In questo modo, i biofilm di batteri promuovono lo sviluppo del tumore nel colon inducendo un’infiammazione cronica e la proliferazione delle cellule associata ad essa: così si crea un vero e proprio ‘circolo vizioso’, dato che i batteri utilizzano le poliammine presenti in eccesso per costruire un numero sempre maggiore di biofilm, dando vita ad un meccanismo di crescita che si auto-alimenta.
Nel futuro, i ricercatori continueranno a studiare questo meccanismo e in particolare il ruolo delle poliammine nella crescita tumorale e cercheranno di capire perché questi biofilm batterici sono spesso associati a tumori del colon ascendente più che del colon discendente.
"Ci piacerebbe osservare da campioni provenienti da altre popolazioni, con bassa incidenza di cancro al colon e abituate a varie diete tradizionali, dato che sappiamo che la dieta può influenzare i livelli delle poliammine”, ha dichiarato Johnson.
L’utilizzo degli antibiotici può rappresentare una strategia di intervento per rimuovere i biofilm di batteri e il rischio tumorale associato, secondo i ricercatori: infatti, in un gruppo di pazienti che avevano assunto l’antibiotico 24 ore prima di essere sottoposti ad intervento chirurgico, i campioni di tessuto tumorale non favorivano la proliferazione di tali strutture batteriche e presentavano una minore quantità di N1, N12-diacetylspermine.

Per ottenere i risultati odierni, i ricercatori hanno utilizzato tecniche sofisticate di analisi in ‘metabolomica’, combinando la cromatografia liquida avanzata, la spettrometria di massa e la piattaforma metabolomica XCMS. Inoltre, i ricercatori hanno messo a punto una tecnica chiamata "global isotope metabolomics" (metabolomica a isotopo globale), utilizzando un isotopo (composto chimico con massa differente) della N1, N12-diacetilspermina.
Queste analisi sono state svolte all’interno di una collaborazione tra Gary Siuzdak, professore di Chimica, Biologia molecolare e computazionale e senior Director dello Scripps Center for Metabolomics al TSRI, Cynthia L. Sears, professore di Medicina, Oncologia, Microbiologia molecolare e immunologia alla Johns Hopkins University School of Medicine e Bloomberg School of Public Health, e David Edler, professore associato al Karolinska Institut.

Dieta sana riduce il rischio di declino cognitivo.


Uno studio canadese rivela che i soggetti over 55 che seguono diete più sane tendono a risultare più attivi, hanno meno probabilità di fumare e presentano un minor BMI; un’evidenza che indica come una dieta sana sia una pratica associata ad uno stile di vita sano in generale.

Gli anziani che mangiano in modo sano, includendo nella propria dieta maggiori quantità di frutta e verdura, frutta con guscio e pesce, hanno minori probabilità nel tempo di andare incontro a un declino delle facoltà cognitive e della memoria. Secondo Andrew Smyth della McMaster University di Hamilton (Canada), autore principale di uno studio internazionale su 27.000 soggetti in materia, è probabile che una dieta sana abbia effetti sui fattori di rischio cardiovascolare e sulle patologie cardiovascolari stesse, e che questo possa rappresentare un importante meccanismo per ridurre il rischio di declino cognitivo.

Il campione preso in esame comprendeva uomini e donne di 55 anni e oltre, con una storia di patologie coronariche, cerebrali, della circolazione periferica o ad alto rischio di diabete ed erano stati seguiti fino al verificarsi di eventi come morte, ictus, infarto o ricovero ospedaliero. La metà dei partecipanti è stata seguita per meno di cinque anni. I risultati dello studio non sono stati influenzati dalla successiva esclusione di soggetti con eventi clinici conclamati come gli ictus, il che suggerisce che il beneficio possa anche ridurre il rischio di declino cognitivo per i soggetti in cui non sono presenti indicatori tanto chiari di patologie cardiovascolari avanzate. Poiché lo studio era di natura osservazionale, è stato possibile soltanto accertare come una dieta sana sia connessa ad una riduzione del rischio di declino cognitivo e non si è potuta stabilire una definitiva correlazione causale. Lo studio ha però rivelato che i soggetti che seguono diete più sane tendono a risultare più attivi, hanno meno probabilità di fumare e presentano un minor BMI; un’evidenza che indica come una dieta sana sia una pratica associata ad uno stile di vita sano in generale.

Secondo il dottor Smith, è importante focalizzarsi sulla qualità complessiva della dieta piuttosto che su alcuni cibi in particolare: ad esempio, alcuni dei benefici collegati alle scelte alimentari sane potrebbero essere vanificato da altre scelte meno sane. Alcuni esperti comunque rimarcano che l’effetto protettivo individuato sia legato eminentemente al 20% di pazienti che aderisce maggiormente ad una dieta sana, e sembra scomparire per percentuali inferiori. Inoltre, i partecipanti allo studio avevano tutti un’anamnesi di malattie cardiovascolari o diabete, e potrebbero aver modificato la propria dieta dopo la diagnosi, oltre ad essere esposti ad un maggiori rischio generale di declino cognitivo durante il monitoraggio. I risultati dello studio, dunque, potrebbero non essere generalizzabili al resto della popolazione.

giovedì 30 aprile 2015

Le nuove linee guida dell'Oms per lo zucchero


L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato le nuove linee guida per il consumo dello zucchero in adulti e bambini. Nel documento l'Oms raccomanda un apporto limitato di zuccheri semplici per tutta la durata della vita. Come secondo punto, l'organizzazione raccomanda ad adulti e bambini di ridurre l'apporto di zucchero libero a meno del 10% dell'apporto energetico totale. 
Infine, l'Oms invita anche a una riduzione dell'apporto di zucchero a meno del 5% dell'apporto calorico giornaliero. Tuttavia, poiché in questo caso il bilancio tra gli effetti positivi e gli eventuali svantaggi è meno chiaro che per le raccomandazioni precedenti, l'implementazione deve essere valutata caso per caso.
Per zuccheri semplici si intendono mono e disaccaridi, come glucosio, fruttosio e saccarosio, aggiunti ad alimenti e bevande sia nella produzione industriale, sia dalla ristorazione o anche a casa. Tra gli zuccheri l'Oms comprende anche quelli del miele e dei succhi di frutta.
L'obiettivo delle linee guida sullo zucchero è prevenire l'aumento di peso indesiderato e le carie dentali. A questi due problemi hanno contributo in passato gli zuccheri “nascosti” in molti alimenti industriali, che non hanno vantaggi nutrizionali. Gli zuccheri aggiunti infatti peggiorano la qualità dell'alimentazione perché aumentano l'apporto calorico, ma non quello dei nutrienti. Per esempio, una lattina di una comune bibita contiene circa 40 grammi di zucchero, circa 10 cucchiaini, o 150 kcal, ma non contiene vitamine o sali minerali.
Le linee guida dell'Oms sono state precedute da una fase di consultazione pubblica, sullo scopo delle linee guida, sulle principali domande a cui rispondere e sui risultati delle review da prendere in considerazione. La verifica della letteratura esistente e delle sue lacune ha permesso all'Oms di emanare queste linee guida, sulla base di una qualità dell'evidenza bassa o moderata.
Secondo i LARN (revisione 2012\14), gli zuccheri semplici, compresi gli zuccheri naturalmente presenti in latte, frutta e verdura, e gli zuccheri aggiunti, non devono essere superiori al 15% dell’energia totale. Nelle linee guida precedenti si consigliava di non superare il 10 %-12% dell’energia totale introdotta. I LARN sono i livelli di assunzione di energia e nutrienti raccomandati dalla Società Italiana di Nutrizione Umana.


Fonte: Guideline: Sugars intake for adults and children. Geneva: World Health Organization; 2015.

mercoledì 1 aprile 2015

Cibi grassi, depressione e malattie psichiatriche.


Una dieta ricca di grassi indurrebbe alterazioni del comportamento ed infiammazione cerebrale.

Le diete ad alto contenuto di grassi sono da sempre sul banco degli imputati perché aumentano il rischio di eventi cardiovascolari, infarti ed ictus in particolare. Di recente poi, alcune ricerche hanno attribuito ai banchetti ad alto contenuto di grassi anche la capacità di aumentare il rischio di depressione e di altre patologie psichiatriche.

E adesso, un gruppo di ricercatori della Louisiana State University, sostiene che questo tipo di dieta potrebbe arrivare a produrre alterazioni non solo dello stato di salute, in particolare del cervello, ma addirittura del comportamento di chi vi indulge spesso e volentieri. E il tutto a causa di uno stravolgimento della composizione del microbioma intestinale, ormai onnipresente leitmotiv della ricerca del terzo millennio.

Il microbioma, costituito da miliardi di batteri, è essenziale per il funzionamento dell’organismo; alterazioni nella sua composizione possono esporre a malattie di varia natura, anche psichiatriche. Partendo da queste considerazioni, i ricercatori americani autori di questo studio che sarà pubblicato il prossimo primo aprile su Biological Psychiatry sono andati a vedere se un tipo particolare microbioma, quale quello che si incontra nelle persone obese, potesse essere in grado di interferire con le funzioni cognitive e con il comportamento.

A tale scopo, i ricercatori hanno sottoposto a trapianto di microbioma intestinale, prelevato da topi nutriti a dieta iperlipidica o a dieta normale, un gruppo di topini adulti, non obesi, mantenuti con una dieta normale.

Gli animali trapiantati con il microbioma dei topi nutriti a dieta iperlipidica, hanno cominciato a presentare una serie di alterazioni del comportamento, quali aumento dell’ansia, alterazioni della memoria, comportamenti ripetitivi. Per di più, questi animali presentavano un’aumentata permeabilità intestinale e un aumento dei marcatori di infiammazione. Erano presenti inoltre segni di infiammazione cerebrale, che secondo gli autori, potrebbero in parte spiegare le alterazioni comportamentali.

“Queste evidenze – commenta John Krystal, direttore di Biological Psychiatry - suggeriscono che le diete ad elevato contenuto di grassi possono avere un impatto negativo sulla salute del cervello, in parte attraverso la distruzione della relazione simbiotica tra uomo e microrganismi, che albergano nel nostro tratto gastro-intestinale”.

In altre parole, un cambiamento della dieta, andando a modificare la composizione della flora batterica intestinale, produrrebbe delle alterazioni delle funzioni cerebrali.
Questi risultati sono coerenti con quelli di ricerche precedenti, che hanno dimostrato la presenza di un’associazione tra numerose patologie psichiatriche e sintomi gastrointestinali.

Quello che ancora sfugge, è attraverso quali meccanismi il microbioma intestinale riesca ad influenzare il comportamento. E per questo saranno ovviamente necessarie ulteriori ricerche. I risultati di questo studio sono comunque molto interessanti perché, almeno a livello speculativo, è ipotizzabile che il microbioma intestinale potrebbe diventare un bersaglio terapeutico, anche nei soggetti con condizioni psichiatriche.

venerdì 20 marzo 2015

Verso una corretta alimentazione: Principi, linee guida e false credenze


Fraz. Sprea - Badia Calavena (VR)



Sabato 25 Aprile alle ore 10.00

viveresano












Relatore:
Dott. Vincenzo Tedesco
Ph.D - NUTRIZIONISTA
Dott. Specialista in Biologia Cellulare e Molecolare
Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale - Farmacogenomica

L'incontro si terrà nella "Sala delle Erbe" a Sprea (Badia Calavena VR).

INGRESSO LIBERO - ISCRIZIONE OBBLIGATORIA - POSTI LIMITATI

Per info e iscrizioni: Email: info@erbecedario.it; Tel.: +39 045 6510130

giovedì 19 febbraio 2015

Il digiuno contro le malattie infiammatorie. Dall'Alzheimer alla sclerosi multipla.

Uno studio dell’Università di Yale pubblicato come ‘lettera’ su Nature Medicine suggerisce che la dieta ipocalorica o il digiuno sono in grado di bloccare un particolare ‘settore’ del sistema immunitario, coinvolto in varie patologie per le quali l’infiammazione gioca un ruolo importante: dall’Alzheimer, al diabete di tipo 2, all’aterosclerosi, alla sclerosi multipla.

Alla base di questo effetto favorevole del digiuno, sarebbe in particolare il beta-idrossibutirrato (BHB). Questo metabolita si comporterebbe come un inibitore diretto dell’NLRP3 (NOD-like receptor (NLR) family, pyrin domain–containing protein 3), parte di un complesso di proteine, chiamato ‘inflammasoma’. Ed è proprio l’inflammasoma a provocare la risposta infiammatoria che si ritrova alla base di tante patologie.

I corpi chetonici come il BHB e l’acetoacetato (AcAc) consentono ai mammiferi di sopravvivere durante stati di carenza energetica, fungendo da fonti alternative di ATP.
E il BHB è appunto un metabolita prodotto dall’organismo in risposta al digiuno, alla restrizione calorica, ad una dieta chetogenica a basso contenuto di carboidrati o all’esercizio fisico ad elevata intensità. Era noto da tempo che digiuno e restrizione calorica riducessero l’infiammazione, ma non era chiaro quale fosse la risposta delle cellule immunitarie ad una ridotta disponibilità di glucosio, né se queste potessero mostrare una risposta a metaboliti prodotti dall’ossidazione dei grassi.

“E’ una scoperta importante - spiega il professor VishwaDeep Dixit, Sezione di Medicina Comparativa presso la Yale School of Medicine (USA) – poiché metaboliti endogeni come il BHB, in grado di bloccare l’inflammasoma NLRP3 potrebbero rivelarsi di grande aiuto in una serie di contesti clinici, quelli delle malattie infiammatorie appunto e laddove vi siano delle mutazioni dei geni NLRP3. I risultati del nostro studio suggeriscono che la dieta chetogenica, il digiuno o l’esercizio fisico ad elevata intensità, portano l’organismo a produrre metaboliti quali il BHB, in grado di ridurre l’inflammasoma NLRP3”.

Lavorando su cellule immunitarie umane e di topo, Dixit e colleghi sono andati a studiare la risposta dei macrofagi (cellule immunitarie specializzate implicate nei processi infiammatori), all’esposizione ai corpi chetonici e hanno analizzato le eventuali ricadute di questa reazione sul complesso dell’inflammasoma.

Somministrando il BHB a modelli animali di malattie infiammatorie causate dall’NLRP3, i ricercatori americani hanno dimostrato che l’infiammazione diminuiva. Ma anche una dieta chetogenica, in grado di elevare i livelli circolanti di BHB, produceva lo stesso effetto. Questo effetto antinfiammatorio è peculiare del BHB; né l’AcAc, né il butirrato o l’acetato, acidi grassi a catena corta strettamente correlati, sono infatti in grado di sopprimere l’attivazione dell’inflammasoma NLRP3, in risposta a stimoli infiammatori.

sabato 14 febbraio 2015

Adolescenti: attenzione al consumo di frutta

Il fruttosio, il cui consumo negli ultimi anni è aumentato al pari di obesità e diabete 2, potrebbe aumentare la sensazione di fame e l’assunzione di cibo in eccesso.

Questo è quanto è stato, in sostanza, dimostrato in uno studio che ha valutato gli effetti dell’ingestione di glucosio e fruttosio negli adolescenti magri e obesi con differenti sensibilità all'insulina. Gli adolescenti reclutati sono stati divisi in magri (n = 14), obesi sensibili all’insulina (n = 12) (OIS), e obesi resistenti all'insulina (n = 15) (OIR).

Tutti i partecipanti bevevano 75 g di glucosio o fruttosio in ordine casuale, e ogni 10 minuti, per 60 minuti, venivano prelevati per determinare i livelli sierici di grelina e PYY (2 ormoni coinvolti nei processi metabolici che si ritrovano alla base della sensazione di fame e sazietà e dell’insulino resistenza degli obesi e dei diabetici obesi). Si è così dimostrato che gli adolescenti OIS rispetto ai magri avevano risposte alterate al fruttosio, ma non glucosio, mentre gli adolescenti OIR avevano risposte attenuate a entrambi.

Gli autori ritengono, quindi, che l’assunzione di fruttosio negli adolescenti obesi, possa aumentare il senso di fame e l’eccessiva assunzione di cibo. Attenzione, dunque, frutta in abbondanza sì, ma non troppa!

Fonte:
Obesity (Silver Spring). 2015 Feb 3. doi: 10.1002/oby.21019. [Epub ahead of print]
Blunted suppression of acyl-ghrelin in response to fructose ingestion in obese adolescents: The role of insulin resistance.

venerdì 6 febbraio 2015

Neuroscienze e Nutrizione: Dieta e salute mentale

L’alimentazione gioca un ruolo cruciale per la salute mentale, tanto che la sua importanza in ambito psichiatrico sembra essere paragonabile a quella che essa riveste nell’ambito della cardiologia, dell’endocrinologia e della gastroenterologia. Ad affermarlo, oggi, è un gruppo di ricerca dell’Università di Melbourne, che ha effettuato un’analisi delle attuali evidenze sull’argomento, prendendo in considerazione studi scientifici in materia. Pubblicata* su The Lancet Psychiatry, la ricerca prende in considerazione studi scientifici in materia, confermando il ruolo dell’alimentazione per il benessere non solo fisico ma anche psichico.
“Noi sosteniamo il riconoscimento della dieta e della nutrizione come determinanti centrali sia di salute fisica e mentale”, scrivono i ricercatori nello studio.

Tale studio è stato condotta dal Dottor Jerome Sarris, dell’Università di Melbourne e membro dell’International Society for Nutritional Psychiatry Research (ISNPR), che ha spiegato quanto segue: “mentre i fattori determinanti della salute mentale sono complessi, le evidenze – che emergono in maniera convincente - che l’alimentazione rappresenti un fattore chiave nell’elevata incidenza e prevalenza dei disturbi mentali suggeriscono che la nutrizione è importante per la psichiatria tanto quanto per la cardiologia, l’endocrinologia e la gastroenterologia”.

“Negli ultimi anni”, prosegue Sarris, “sono stati stabiliti collegamenti significativi tra la qualità dell’alimentazione e la salute mentale. Studi rigorosi dal punto di vista scientifico hanno fornito contributi importanti per la nostra comprensione del ruolo della nutrizione nella salute mentale”.
Inoltre, spiegano i ricercatori, ci sono prove scientifiche che suggeriscono che prescrizioni basate sui nutrienti, oltre al migliorare della dieta, possano fornire un aiuto nella gestione dei disturbi mentali, sia a livello individuale che a livello collettivo per la popolazione. A tal proposito, il Dottor Sarris ritiene importante in ambito psichiatrico sostenere un approccio più integrato, considerando anche la dieta e la nutrizione quali elementi chiave.

Inoltre, il Professore Associato Felice Jacka, Principal Research Fellow della Deakin University e presidente della ISNPR, ha osservato che numerosi studi hanno dimostrato associazioni tra sane abitudini alimentari e una prevalenza della riduzione e di rischio per la depressione e suicidio tra diverse culture e gruppi di età.
Anche "l’alimentazione in gravidanza e nella prima fase della vita sta emergendo come fattore della salute mentale nei bambini”, ha affermato Jacka, “mentre gravi carenze di alcuni nutrienti fondamentali durante periodi essenziali per lo sviluppo risultano da tempo implicati nello sviluppo di disturbi sia depressivi che psicotici”.

In particolare, studi scientifici hanno rivelato un chiaro collegamento tra alcuni nutrienti e il benessere a livello cerebrale. Tra questi elementi, i ricercatori segnalano gli omega-3, vitamine B (in particolare acido folico e B12), colina, ferro, zinco, magnesio, S-adenosyl methionine (SAMe), vitamina D e aminoacidi.
“Mentre sosteniamo che questi nutrienti vengano assunti tramite la dieta laddove possibile, la prescrizione addizionale di questi nutraceutici potrebbe anche essere giustificata", ha affermato il dottor Sarris, che conclude dicendo che “è ora che i medici prendano in considerazione la dieta e le sostanze nutrienti aggiuntivi come parte del ‘pacchetto di trattamento’ per gestire l'enorme onere della malattia mentale".

giovedì 22 gennaio 2015

Il cervello insegna al nostro corpo a bruciare più calorie


Una ricerca australiana rivela i meccanismi attraverso i quali il grasso bianco può essere trasformato in grasso bruno ed essere così indotto a ‘bruciare’, cioè a disperdere calorie. Una scoperta che apre la strada a nuovi possibili trattamenti contro l’obesità, che consentirebbero di ‘risvegliare’ il metabolismo impigrito, facilitando così il calo ponderale.
Uno studio pubblicato su Cell, annuncia la scoperta di due nuovi ormoni che potrebbero essere l’uovo di Colombo per bruciare più calorie e quindi perdere peso più facilmente.
Questi risultati gettano nuova luce su come il cervello intervenga nel regolare il metabolismo del tessuto adiposo e potrebbero aprire la strada a nuove strategie per prevenire l’obesità e perdere peso. Una di queste potrebbe consistere nella trasformazione del grasso bianco in grasso bruno, molto più attivo metabolicamente.

La scoperta della Monash University consiste nell’individuazione di un meccanismo molecolare derivante dall’azione congiunta della leptina (un ormone prodotto dal tessuto adiposo, che tra le altre cose sopprime l’appetito) e dell’insulina (l’ormone più importante nel controllo del metabolismo glucidico, rilasciato dal pancreas in risposta all’aumento dei livelli di glicemia post-prandiali). Questi due ormoni agirebbero in maniera sinergica a livello di un gruppo di neuroni ipotalamici che, attraverso impulsi nervosi, promuovono il consumo delle riserve di grasso periferico, facendo bruciare, e dunque disperdere, calorie.
“Questi ormoni – spiega Tony Tiganis, Dipartimento di Biochimica e Biologia Molecolare della Monash University (Australia) e primo autore dello studio – danno al cervello la misura esatta dei depositi di grasso del corpo”. La leptina, prodotta proprio dal tessuto adiposo, segnala al cervello il livello delle riserve di grasso del corpo; più rappresentati sono i depositi di adipe, maggiori sono i livelli ematici di leptina. “L’insulina – prosegue Tiganis – in un certo senso ‘predice’ al cervello quali saranno le riserve future di grasso, visto che aumenta nel sangue in risposta all’innalzamento dei valori di glicemia, dopo un pasto”.

Le riserve di grasso sono immagazzinate all’interno degli adipociti, cellule-deposito specializzate, particolarmente rappresentate nella forma di ‘grasso bianco’, nell’adulto. In alcune regioni particolari però, qual le spalle e il collo, esiste un altro tipo di tessuto adiposo, detto ‘bruno’, che svolge una funzione diversa: anziché immagazzinare le riserve di energia sotto forma di grasso, queste cellule possono essere indotte a ‘bruciarle’.
La scoperta dei ricercatori della Monash è che l’azione combinata di leptina e insulina si va a concentrare sui neuroni produttori di proopiomelanocortina (POMC) a livello dell’ipotalamo, che così stimolati, inviano in periferia, attraverso il sistema nervoso, dei segnali che finiscono col promuovere la conversione del grasso bianco in grasso bruno; questo porta a bruciare il grasso in eccesso.
Questo processo è regolato, a livello di questi neuroni, da particolari enzimi, le fosfatasi PTP1B e TCPTP, che sono in grado di inibire l’azione di leptina e insulina sui neuroni POMC. Quando i livelli di fosfatasi si riducono, leptina e insulina esercitano la loro azione ‘snellente’ sui neuroni POMC, che promuovono in periferia la conversione di grasso bianco in bruno, che viene quindi ‘consumato’, ‘bruciato’.

Nelle persone obese, questo meccanismo fisiologico, si inceppa. In particolare, all’interno del grasso bianco, esistono molti adipociti ‘beige’, che bruciano il grasso e dissipano energia, ma il loro numero è nettamente diminuito nei soggetti obesi.
Secondo i ricercatori della Monash, stimolando lo sviluppo degli adipociti ‘beige’, cioè l’imbrunimento del grasso bianco, si potrebbe aumentare il dispendio energetico dell’organismo e questo aiuterebbe le persone obese, rendendo in discesa la strada per perdere peso.
L’idea sarebbe dunque quella di mettere a punto un farmaco in grado di stimolare la conversione da grasso bianco a bruno. Più facile a dirsi che a farsi però al momento attuale, ammoniscono i ricercatori, anche se la strada, almeno dal punto di vista concettuale, sembra essere quella giusta.