Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


Studio Borgo Roma - Via Santa Teresa 47 (ingresso Via Bozzini 3/A), 37135, Verona.

Info. e prenotazioni - Segreteria: 349.6674360

e-mail: info@tedesconutrizionista.it

e-mail pec: vincenzo.tedesco@pec.enpab.it

web: www.tedesconutrizionista.it

lunedì 11 agosto 2014

Grassi saturi: non tutti sono da evitare?

I risultati dello studio EPIC-InterAct suggeriscono che alcuni acidi grassi saturi, in particolare quelli contenuti nei latticini, potrebbero non solo non essere pericolosi, ma addirittura proteggere dall’insorgenza del diabete. I diabetologi italiani invitano tuttavia a prendere questi risultati con molta prudenza.

08 AGO - Il solo termine ‘grassi saturi’ evoca scenari di danni per la salute, senza appello. I consigli dietetici attuali prevedono che la quantità di acidi grassi presenti in una dieta equilibrata non dovrebbe superare la soglia del 10% o addirittura del 7% dell’apporto calorico giornaliero totale. E questo per il bene della salute cardiovascolare, ma anche per prevenire la comparsa di diabete di tipo 2. Al momento tuttavia non sono molte le evidenze che confermino il ruolo causale degli acidi grassi saturi (SFA) nella comparsa di diabete di tipo 2 e addirittura, il Women’s Health Initiative Diet Modification Trialnon è riuscito a dimostrare che contenere l’apporto di SFA serva effettivamente a ridurre l’incidenza di diabete. Per contro, sono sempre più numerosi gli studi che suggeriscono che il consumo di latticini, tipicamente ricchi di SFA, potrebbe avere un effetto protettivo contro l’insorgenza di diabete. E questo ha sollevato dubbi in merito al fatto che tutti gli acidi grassi saturi siano effettivamente dannosi per la salute.

Le evidenze circa l’associazione tra acidi grassi saturi (SFA) e diabete di tipo 2, come visto, sono discordanti. Per tale motivo i ricercatori dello studio EPIC-InterAct (allo studio hanno preso parte anche diversi centri italiani), appena pubblicato su <a href="\" _cke_saved_href="\" http:="" www.thelancet.com="" journals="" landia="" article="" piis2213-8587(14)70146-9="" abstract"="" target="\" _blank\""=""><em>Lancet Diabetes Endocrinology</em> </a>hanno cercato di individuare in maniera oggettiva, in uno studio longitudinale caso-coorte, il rapporto tra fosfolipidi degli SFA plasmatici e comparsa di nuovi casi di diabete di tipo 2. Lo studio ha preso in esame una coorte di oltre 12 mila persone con diabete di tipo 2 incidente e un gruppo di oltre 16 mila persone selezionate da una coorte di 340 mila cittadini europei (studio EPIC). Sono stati individuati i casi di diabete di nuova insorgenza, fino al 31 dicembre 2007 ed è stata valutata in questi soggetti e nei controlli la distribuzione degli acidi grassi nei fosfolipidi plasmatici mediante gascromatografia. I ricercatori hanno evidenziato che i diversi SFA dei fosfolipidi plasmatici risultavano associati alla comparsa di nuovi casi di diabete in modo contrastante, fatto che dimostra che non tutti i SFA sono uguali e dall’effetto univoco. Questo suggerisce l’importanza di non fare di tutta l’erba un fascio e di analizzare in modo accurato i vari sottotipi di acidi grassi. Secondo i ricercatori dell’EPIC è inoltre indispensabile approfondire le conoscenze in merito alle diverse fonti dei vari acidi grassi, di quelli della dieta, rispetto a quelli di produzione endogena. <br> Dallo studio in particolare, che ha analizzato separatamente nove diverse classi di acidi grassi saturi, emerge una correlazione tra incidenza di diabete di tipo 2 e acidi grassi saturi a numero di ‘pari’ di atomi di carbonio (es. 14:0, 16:0, 18:0); al contrario quelli con catena a numero ‘dispari’ (es. 15:0, 17:0), presenti soprattutto nel latte e derivati, e quelli a catena più lunga (es. 20:0, 22:0, 23:0, 24:0) sembrava avere un effetto protettivo sull’insorgenza di diabete. In altre parole, i vari acidi grassi hanno un diverso impatto metabolico. I grassi saturi presenti nei prodotti caseari, come già suggerito da recenti studi, potrebbero avere dunque un effetto protettivo contro il diabete, anche e gli autori ricordano che anche la presenza di calcio e vitamina D potrebbero spiegare questo effetto benefico. <br> <br> “Questo lavoro – commenta il professor <strong>Enzo Bonora</strong>, Presidente della Società Italiana di Diabetologia - sostiene la grande complessità che esiste nelle relazioni fra il modo in cui mangiamo e il modo in cui il metabolismo del singolo individuo modula l’impatto della nostra alimentazione sullo stato di salute. Il lavoro, come molti altri in letteratura, mostra segnali deboli e in parte contrastanti su relazioni fra specifici componenti della dieta (es. prodotti caseari) e rischio aumentato o ridotto di diabete. Da questo lavoro non possono essere distillati messaggi nutrizionali diversi da quelli già noti. Il principale di questi, in termine di prevenzione del diabete è semplicissimo: dobbiamo mangiare un po’ di meno e consumare un po’ di più facendo un po’ più movimento”. 

Maria Rita Montebelli

giovedì 7 agosto 2014

Neuroscienze e Nutrizione: Il gene dei golosi


Scoperta da un gruppo di ricercatori dell’Università di Cambridge, una mutazione del gene MC4R, responsabile del craving per i cibi ‘appetitosi’ come la cioccolata, che contribuisce a determinare una condizione di obesità anche in giovane età

06 AGO - Uno studio pubblicato in ‘early release’ su Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism (JCEM) ha dimostrato che la mutazione del gene per il recettore della melanocortina 4 (MC4R), presente in almeno l’1% delle persone affette da obesità ereditaria, inducendo una risposta ‘esagerata’ alla vista di cibi appetitosi, contribuirebbe a determinare un marcato aumento di peso, già in giovane età.
L’obesità, patologia che interessa ormai un adulto su tre, è una condizione derivante da un eccesso di assunzione di calorie, scarsa attività fisica e assetto genetico. È in particolare l’assunzione di cibi appetitosi e ricchi di calorie a determinare l’aumento di peso; il consumo di alcuni alimenti, come ad esempio la cioccolata, induce a livello cerebrale una risposta di gratificazione e marcata soddisfazione (reward), che può indurre a consumare questi cibi in maniera esagerata. I segnali di reward sono processati in aree cerebrali dove sono presenti neuroni dopaminergici e finora non era noto se queste aree specifiche funzionassero in maniera diversa in alcuni individui con sovrappeso o obesità.


Agatha van der Klaauwe colleghi del Wellcome Trust-MCR Institute of Metabolic Science presso l’Addenbrooke’s Hospital di Cambridge (UK) hanno messo a confronto tre gruppi di soggetti: 8 obesi con mutazione del gene MC4R, 10 individui obesi o in sovrappeso, senza mutazione del gene e 8 persone normopeso, sottoponendoli a risonanza magnetica funzionale (fMRI), per valutare il grado di attivazione dei centri cerebrali di reward alla vista di cibi appetitosi (es. torta al cioccolato), rispetto alla vista di cibi quali riso o broccoli o alla vista di oggetti (es. una cucitrice).
Ne è risultato che i soggetti portatori della mutazione MC4R e i normopeso, alla vista di cibi appetitosi, mostravano un’attivazione dei centri reward decisamente maggiore rispetto agli individui obesi/in sovrappeso senza la mutazione di MC4R.

“Per la prima volta – ha commentato la dottoressa der Klaauw – abbiamo dimostrato che il pathway del MC4R è coinvolto nelle risposte cerebrali di reward al cibo; approfondire lo studio di questo pathwaypotrebbe dunque portare ad individuare degli interventi mirati ad arginare il consumo esagerato di cibi altamente palatabili e ricchi di calorie, che portano all’aumento di peso”.

Maria Rita Montebelli

lunedì 4 agosto 2014

Neuroscienze e Nutrizione: Individuato il meccanismo con cui il cervello percepisce la sazietà.

Durante il pasto, il segnale di sazietà prodotto dall'intestino, dal lipide oleoiletanolamide, viene 'tradotto' da specifiche aree cerebrali che utilizzano l’istamina come neurotrasmettitore. Il meccanismo, come una sorta di 'interruttore' della fame, favorisce la cessazione dell'attività alimentare.

03 AGO - È stato identificato il meccanismo chiave con cui il nostro cervello traduce alcuni segnali periferici di sazietà: l’istamina attiva determinate aree cerebrali (ipotalamo), veicolando il segnale di sazietà prodotto dall'intestino durante il consumo del pasto da parte del lipide oleoiletanolamide. A scoprire come avviene questo processo - in particolare alcune modalità del collegamento tra l’istamina e il lipide - è l’Università di Firenze e l’Istituto di biologia cellulare e neurobiologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibcn-Cnr) di Roma, in collaborazione con il Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia della Sapienza Università di Roma. Lo studio* è stato pubblicato su PNAS(Proceedings of the National Academy of Sciences).

“Abbiamo scoperto”, spiega Maria Beatrice Passani, ricercatrice del Dipartimento di Neuroscienze, Area del Farmaco e Salute del Bambino (Neurofarba) dell’Ateneo fiorentino, “che il segnale di sazietà prodotto dall’intestino durante il consumo di un pasto da parte di un lipide, l’oleoiletanolamide (Oea), attiva aree specifiche del cervello che usano l’istamina come neurotrasmettitore, favorendo così la cessazione dell’attività alimentare”.

L’oleoiletanolamide è un composto lipidico rilasciato dagli enterociti, cellule nei villi intestinali, in risposta al consumo di grassi. Tale composto indirettamente segnala la sazietà ai nuclei ipotalamici, attivando fibre sensoriali del nervo vago che proiettano il segnale a livello centrale. L’istamina cerebrale viene rilasciata durante la fase dell’appetito, fornendo alti livelli di sollecitazione prima del pasto e media la sazietà. Essa funziona come un segnalatore di sazietà attivando il recettore dell'istamina H1 in specifici nuclei ipotalamici. Insomma, l'istamina potrebbe essere paragonata ad un 'segnalatore' della fame, che indica quando è cessato l'appetito.

“Le prove sperimentali raccolte in questo studio”, prosegue Roberto Coccurello dell’Ibcn-Cnr, al cui fianco hanno lavorato per lo stesso istituto Giacomo Giacovazzo e Anna Moles, “dimostrano per la prima volta che l’effetto anoressizzante di Oea viene drasticamente attenuato sia in animali privi della possibilità di sintetizzare istamina, sia in animali le cui riserve neuronali di istamina sono state temporaneamente inattivate attraverso la somministrazione diretta nel cervello di un agente inibitore. Grazie alla nostra ricerca siamo riusciti a individuare la natura dei neurotrasmettitori implicati e a comprendere i meccanismi attraverso cui determinate popolazioni di cellule nervose (neuroni) presenti nel cervello a livello dell’ipotalamo traducono l’informazione mediata da Oea sullo stato nutrizionale dell’organismo e sul corrispondente livello di sazietà. È stato identificato quindi nel sistema neurotrasmettitoriale dell’istamina una delle componenti fondamentali per veicolare il messaggio di sazietà generato da Oea a livello intestinale”.

“La conoscenza di questi meccanismi neuronali, che assolvono un ruolo essenziale nel comportamento alimentare, in quanto contribuiscono alla riduzione dell’appetito, offre nuove prospettive per sviluppare farmaci più efficaci e sicuri per il trattamento dell'obesità, che mirino a incrementare il rilascio di istamina nel cervello”, conclude Passani, al cui fianco hanno lavorato – nel team fiorentino - Gustavo Provensi, Hayato Umehara, Leonardo Munari, Nicoletta Galeotti e Patrizio Blandina.

Viola Rita

* G. Provensi et al., "Satiety factor oleoylethanolamide recruits the brain histaminergic system to inhibit food intake", Proceedings of the National Academy of Sciences, Luglio 2014, doi: 10.1073/pnas.1322016111

domenica 3 agosto 2014

Il mito appannato della prima colazione

La colazione, di qualunque tipo, si può considerare comunque il pasto più importante?

Forse la prima colazione non è così importante. Uno studio indica che il primo pasto della giornata porta benefici inferiori a quelli finora immaginati. Saltarla non porta all’aumento di peso, anche se “una prima colazione giornaliera regolare mantiene una risposta al glucosio più stabile nel pomeriggio e la sera”, scrivono i ricercatori sull’American Journal of Clinical Nutrition. Alcune persone pensano che la colazione sia il pasto più importante della giornata. Perciò, gli autori hanno condotto una sperimentazione randomizzata controllata, esaminando i nessi causali tra le abitudini riguardo alla colazione e tutte le componenti del bilancio energetico nelle persone, inserite nel loro contesto quotidiano. Il Bath Breakfast Project è una sperimentazione randomizzata controllata con misure ripetute all’inizio dello studio e al follow-up in una coorte di soggetti nel sud-ovest dell'Inghilterra tra i 21 e i 60 anni di età con quantità di massa grassa, misurata mediante la densitometria a raggi X, ≤ 11 kg/m2 nelle donne (n = 21) e ≤ 7,5 kg/m2 negli uomini (n = 12).Sono state misurate in condizioni ordinarie componenti del bilancio energetico (tasso metabolico a riposo, termogenesi dell'attività fisica, apporto di energia) e la risposta glicemica nelle 24 ore, con assegnazione casuale a una colazione giornaliera (≥ 700 kcal prima delle 11.00) oppure al digiuno prolungato (0 kcal fino alle 12.00) per 6 settimane.Contrariamente alla credenza popolare, non vi era alcun adattamento metabolico alla prima colazione (ad esempio, tasso metabolico a riposo stabile entro 11 kcal / die), con una limitata diminuzione dell’appetito (l’apporto energetico è rimasto 539 kcal / die maggiore che dopo il digiuno, 95% CI : 157, 920 kcal /die). Piuttosto, la termogenesi era nettamente superiore dopo la prima colazione che dopo il digiuno (442 kcal / die, 95% CI: 34, 851 kcal / die). Non c’erano differenze rispetto al peso corporeo e l’adiposità. La glicemia era più variabile durante il pomeriggio e la sera dopo il digiuno che dopo la colazione nell’ultima settimana dell'intervento (CV: 3,9%, IC 95%: 0,1%, 7,8%).In conclusione, la prima colazione quotidiana è causalmente legata alla maggiore termogenesi, con un maggiore apporto energetico globale, ma nessun cambiamento nel metabolismo a riposo. Gli indici di salute cardiovascolare non sono stati influenzati dal pasto, ma la colazione mantiene la glicemia più stabile durante il pomeriggio e la sera.Bisognerebbe verificare se tutte le colazioni danno lo stesso risultato. La colazione inglese, infatti, è solo un tipo di colazione (uova, bacon, pane e pomodori) assai diversa da quella italiana


Fonte: The causal role of breakfast in energy balance and health: a randomized controlled trial in lean adults. Betts JA, Richardson JD, Chowdhury EA, Holman GD, Tsintzas K, Thompson D. Am J Clin Nutr. 2014 Jun 4. pii: ajcn.083402.

Cancro e consumo di alimenti vegetali

Cosa c'è di vero?

Frutta, verdura, e alcune componenti degli alimenti vegetali, come la fibra, sono stati a lungo ritenuti una protezione contro il cancro. L’European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC) è uno studio prospettico di coorte che comprende più di 500.000 partecipanti provenienti da 10 paesi europei. Lo studio ha dato un contributo sostanziale alla conoscenza in questo campo di ricerca. Lo scopo di questo articolo è quello di riassumere i risultati pubblicati finora dallo studio EPIC sulle associazioni tra frutta, verdura, o il consumo di fibre e il rischio di cancro in 14 sedi diverse del corpo. Il rischio di cancro del tratto superiore dell'apparato digerente è risultato inversamente associato con l'assunzione di frutta, ma non c’è associazione con l'assunzione di verdura. Il rischio di cancro del colon-retto è risultato inversamente associato con l’apporto di frutta e verdura totale e l’apporto di fibra totale, mentre il rischio di cancro al fegato è inversamente associato con l'assunzione di fibra totale. Il rischio di cancro del polmone è risultato inversamente associato con l'assunzione di frutta, ma non è associato con l'apporto di verdura; l’associazione con l'apporto di frutta è stata limitata ai fumatori e potrebbe essere influenzata da un fattore confondente residuo dovuto al fumo. C'era una associazione inversa borderline tra assunzione di fibre e il rischio di cancro al seno. Per le altre 9 sedi tumorali studiate (stomaco, vie biliari, pancreas, cervice uterina, endometrio, prostata, rene, vescica e linfomi) non erano riportate associazioni significative di rischio con l’apporto di frutta totale, verdura, o fibra. Occorrerà sicuramente attendere altri risultati per chiarire il ruolo dei vegetali nelle patologie tumorali.


Fonte: Fruit, vegetable, and fiber intake in relation to cancer risk: findings from the European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC). Bradbury KE, Appleby PN, Key TJ. Am J Clin Nutr. 2014 Jun 11;100(Supplement 1):394S-398S.