Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


Studio Borgo Roma - Via Santa Teresa 47 (ingresso Via Bozzini 3/A), 37135, Verona.

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lunedì 28 novembre 2022

Il miele grezzo migliora la salute cardiometabolica

Il miele migliora le misure chiave della salute cardiometabolica, compreso il colesterolo, specialmente se è grezzo e proviene da un’unica fonte floreale, secondo uno studio pubblicato su Nutrition Reviews.

“Precedenti ricerche hanno dimostrato che il miele può migliorare la salute cardiometabolica, specialmente negli studi in vitro e sugli animali. Abbiamo condotto una revisione sistematica e una metanalisi degli studi clinici sul miele, e abbiamo scoperto che questo alimento è stato in grado di abbassare la glicemia a digiuno, il colesterolo totale e il colesterolo LDL, i trigliceridi e un marcatore di steatosi epatica, nonché di aumentare il colesterolo HDL e alcuni marcatori di infiammazione” spiega John Sievenpiper, della University of Toronto, in Canada, autore senior dello studio.

I ricercatori hanno valutato 18 studi controllati per un totale di 1.100 partecipanti e hanno visto che, pur essendoci una scarsa certezza delle prove per la maggior parte delle ricerche, il miele produceva costantemente effetti neutri o benefici, a seconda della lavorazione, della fonte floreale e della quantità. La dose giornaliera media di miele negli studi era di 40 grammi, o circa due cucchiai, e la durata media dell’osservazione era di otto settimane. Il miele grezzo ha portato molti effetti benefici negli studi, così come il miele provenienti da fonti monofloreali, come la robinia (miele di acacia) e il trifoglio. Gli esperti sottolineano che il miele trasformato perde molti dei suoi effetti sulla salute dopo la pastorizzazione, ma che l’effetto di una bevanda calda sul miele grezzo dipende da diversi fattori e probabilmente non riesce ad eliminare tutte le sue proprietà benefiche.

“Non diciamo che le persone dovrebbero utilizzare il miele se al momento evitano lo zucchero, ma se stanno usando zucchero o un altro dolcificante, cambiarlo con il miele potrebbe ridurre i rischi cardiometabolici” concludono gli autori.

Nutr Rev. 2022 Nov 16;nuac086. doi: 10.1093/nutrit/nuac086. Online ahead of print

Redazione Nutri e Previeni

mercoledì 9 novembre 2022

Bambini italiani tra i più sovrappeso in Europa

I bambini italiani sono tra i più sovrappeso, con rischio obesità, in Europa. 

Il sovrappeso e l'obesità infantili minano la salute in tutta la regione europea. Queste condizioni sono legate a molte malattie non trasmissibili, dalle malattie cardiovascolari al diabete e al cancro. Oggi, 1 bambino su 3 nella Regione vive con sovrappeso o obesità e le percentuali sono in aumento anche se gli ultimi dati mostrano una tendenza decrescente in Grecia, Italia, Portogallo, Slovenia e Spagna. Ma nonostante tale diminuzione, la prevalenza di sovrappeso e obesità in questi paesi è ancora tra le più alte della Regione. 

L'OMS/Europa ha pubblicato un nuovo rapporto “COSI” (Childhood Obesity Surveillance Initiative), il quinto di una serie che misura le tendenze in sovrappeso e obesità tra i bambini in età scolare dalla scuola primaria dal 2007 al 2020

I risultati del nuovo rapporto si basano in particolare sugli ultimi dati raccolti nel 2018-2020 in 33 paesi della regione europea dell'OMS. In totale, sono stati monitorati quasi 411.000 bambini di età compresa tra 6 e 9 anni. Per la prima volta, il rapporto presenta i dati di Armenia, Germania (città di Brema) e Israele, paesi che hanno recentemente aderito all'iniziativa di sorveglianza dell'OMS.

Sovrappeso e obesità: gravi fattori di rischio per la salute 
Il sovrappeso e l'obesità infantili minano la salute in tutta la regione europea. Queste condizioni sono legate a molte malattie non trasmissibili (NCD), dalle malattie cardiovascolari al diabete e al cancro. Oggi, 1 bambino in età scolare su 3 nella Regione vive con sovrappeso o obesità e le percentuali sono in aumento in molti paesi. 

Complessivamente, il 29% dei bambini di età compresa tra 7 e 9 anni nei paesi partecipanti all'indagine viveva con sovrappeso, inclusa l'obesità. La prevalenza era più alta tra i ragazzi (31%) rispetto alle ragazze (28%). 

D'altro canto il rapporto rivela che quasi tutti i bambini (87%) in tutta la Regione europea dell'Oms giocano all'aperto per almeno un'ora al giorno; il 43% dei bambini mangia frutta ogni giorno e il 34% mangia verdura. 

Riduzione del sovrappeso e dell'obesità
Nel nuovo report rispetto a quello precedente (2015-2017), si registra una diminuzione statisticamente significativa della prevalenza del sovrappeso tra maschi e femmine a Malta, tra maschi a San Marino e femmine in Italia, e una diminuzione dei livelli di obesità tra i ragazzi a San Marino e le ragazze a Malta.

Più in generale i dati del rapporto hanno mostrato una tendenza decrescente nella prevalenza del sovrappeso in Grecia, Italia, Portogallo, Slovenia e Spagna dalla sua prima edizione nel 2007-2008. Ma nonostante tale diminuzione, la prevalenza di sovrappeso e obesità in questi paesi – soprattutto nell'Europa meridionale – è ancora tra le più alte della Regione.

Migliori politiche per invertire tendenze preoccupanti

"Abbiamo urgente bisogno di politiche migliori che possano aiutarci a invertire le attuali tendenze dell'obesità infantile, soprattutto sulla scia della pandemia di COVID-19 che è vista come una pericolosa causa di sovrappeso e obesità", ha detto il dottor Kremlin Wickramasinghe, capo ad interim dell'Ufficio europeo dell'OMS per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili, che ha prodotto il rapporto. .

La necessità di ridurre i livelli di obesità nei bambini e negli adulti è evidenziata nel Programma europeo di lavoro 2020–2025 dell'OMS, che promuove un'azione unita per una salute migliore in tutti i 53 paesi della regione.

Quotidiano Sanità

martedì 18 ottobre 2022

Malattie infiammatorie intestinali: dieta con fibre peggiora i sintomi

In alcuni pazienti che soffrono di malattie infiammatorie intestinali diete ricche di fibre possono peggiorare i sintomi. Gli autori dello studio da cui è emersa questa evidenza stanno mettendo a punto un test delle feci in grado di esaminare la flora intestinale di ciascun paziente e predire se avrà o meno una risposta negativa da una determinata dieta, in modo da consentire al clinico di formulare raccomandazioni alimentari personalizzate.


Regimi alimentari a base di fibre possono causare una risposta infiammatoria in alcune persone che soffrono di malattie infiammatorie intestinali; risposta che determina, a sua volta, un peggioramento dei sintomi.
A evidenziarlo è un team dell’Università dell’Alberta, in Canada, che ha pubblicato uno studio su Gastroenterology. Il team sta cercando, ora, di mettere a punto un test delle feci in grado di esaminare la flora intestinale di ciascun paziente e predire se avrà o meno una risposta negativa da una determinata dieta, in modo da consentire al clinico di formulare raccomandazioni alimentari personalizzate.
I sintomi delle malattie infiammatorie intestinali sono rappresentate da dolore addominale, diarrea, sangue nelle feci, perdita di peso, pubertà ritardata e un rischio a lungo termine di tumore del colon-retto. La causa di queste malattie non è nota, ma alcuni fattori di rischio sono genetici, ambientali, legati alla dieta e ai cambiamenti nel microbioma intestinale.
I pazienti con malattie infiammatorie intestinali che non tollerano una dieta a base di fibre sono stimati nell’ordine del 20-40%. Tuttavia, scrivono gli autori dello studio, si tratta quasi sempre di una situazione transitoria, per cui è possibile che dopo qualche mese questi pazienti possano tornare ad assumere fibre.
Il team, inoltre, ha scoperto che alcuni cibi come carciofi, cicoria, aglio, asparagi e banane sono particolarmente difficili da fermentare se mancano o se non funzionano bene determinati batteri presenti nell’intestino, come accade spesso nei pazienti con malattie infiammatorie intestinali.


lunedì 17 ottobre 2022

Contro tumori, artrite e aterosclerosi occorre un'alimentazione sana

Lo rivela uno studio condotto da un team dei laboratori di Biologia Molecolare e di Analisi chimico cliniche e microbiologia dell'Aou Cagliari.



Un'alimentazione con più verdure e il giusto apporto di carni è fondamentale per cercare di prevenire tumori come quello al colon retto ma anche patologie degenerative come l'artrite reumatoide e l'aterosclerosi. Sono queste le conclusioni dello studio Changes in the oral status and periodontal pathogens in a Sardinian rural community from pre industrial to modern time" (Cambiamenti nello stato orale e patogeni parodontali in una comunità rurale sarda dal periodo preindustriale a quello moderno) pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Nature Scientific Reports e condotta da un team dei laboratori di Biologia Molecolare e di Analisi chimico cliniche e microbiologia dell'Aou Cagliari. I ricercatori hanno esaminato e analizzato il DNA presente nei calcoli dentali di individui vissuti in epoche diverse negli ultimi 200 anni e hanno scoperto che "nella bocca è visibile un progressivo aumento negli ultimi 70 anni di specie batteriche 'patobionte', cioè microbi dalla doppia personalità, normalmente tollerati in condizioni di equilibrio fisiologico, ma capaci di partecipare a processi di infiammazione cronica in situazioni di disbiosi del cavo orale, ovvero l'alterazione della flora batterica orale". Questi microrganismi, spiega Germano Orrù del dipartimento Scienze Chirurgiche, sono stati ultimamente associati a gravi malattie degenerative quali artrite reumatoide, tumore al colon retto, aterosclerosi. Questo studio, dice Ferdinando Coghe, direttore del Laboratorio e direttore sanitario dell'Aou di Cagliari, "è il primo del genere e potrebbe spiegare il preoccupante incremento delle 'malattie degenerative dei tempi moderni' e nello stesso tempo suggerisce come la via dei microbi potrebbe essere una soluzione nella diagnosi e nella terapia di queste gravi patologie; negli ultimi anni è stata osservata una stretta correlazione tra la composizione del microbiota intestinale e la comparsa di placche amiloidi a livello celebrale, che sono caratteristiche della malattia di Alzheimer". La ricerca è firmata anche da Alessandra Scano del laboratorio di Biologia Molecolare del San Giovanni di Dio.

NUTRIZIONE | REDAZIONE DOTTNET | 

martedì 13 settembre 2022

Sindrome da rientro: bastano 2 chili in più per raddoppiarne i sintomi

 

Un aumento di peso, anche se lieve come di due soli chilogrammi, può creare uno squilibrio ormonale che, a sua volta, può peggiorarne i sintomi della sindrome da rientro allungandone di fatto la durata. “Se l’effetto benefico delle vacanze sembra sparire in fretta, il ripristino della routine per circa la metà degli italiani, soprattutto donne, si associa a stress e preoccupazioni”, ha dichiarato Annamaria Colao, presidente della Società Italiana di Endocrinologia (SIE) e Ordinario di Endocrinologia all’Università Federico II di Napoli.

E’ la cosiddetta sindrome da rientro, non una patologia che troviamo sui manuali di medicina, ma a tutti gli effetti una condizione reale che molti sperimentano dopo un periodo più o meno lungo di vacanza soprattutto d’estate. Si tratta di una risposta psico-fisica, caratterizzata da ansia, insonnia, irritabilità e stanchezza, che si prova al ritorno a una normalità diversa da quella rilassante e spensierata della vacanza.

“Secondo le stime della SIE, ne soffre fino al 45% della popolazione con una frequenza che nelle donne è da 2 a 3 volte maggiore rispetto agli uomini – ha precisato Colao – Un affaticamento che è in crescita anche a causa del long-covid che ha proprio la stanchezza profonda come sintomo principale. La sindrome da rientro, ha in genere natura breve e transitoria e dura da un paio di giorni a una settimana”, ha sottolineato Colao.

“Ma anche pochi chili in più presi durante le vacanze possono allungarne la durata fino a qualche settimana. In particolare – ha proseguito – lo stato infiammatorio causato da un aumento di peso anche lieve, può creare uno squilibrio ormonale mandando in tilt il sistema che trasforma il progesterone  in allopregnanolone, l’ormone del benessere e aumentando i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress. Questo, predisponendo ad ansia e stanchezza, oltre a peggiorare i sintomi della sindrome da rientro, in particolare l’affaticamento, ne può allungare la durata”.

lunedì 29 agosto 2022

Dieta antinfiammatoria contro l'artrite reumatoide

Artrite reumatoide: la sua gestione con alimenti antinfiammatori

 

Una revisione sistematica è stata condotta da un team di scienziati presso l’University of Limerick in Irlanda, la Deakin University e la La Trobe University in Australia, al fine di esplorare l’effetto degli interventi dietetici, con o senza integrazione di omega-3, per la gestione dell’artrite reumatoide (AR). Gli autori hanno incluso 20 studi per un totale di 1.063 partecipanti affetti dalla patologia cronica autoimmune.

Secondo i risultati dell’analisi, resi noti su “Nutrients” nel 2021, gli esiti più frequentemente riportati erano il dolore, la durata della rigidità articolare mattutina, l’infiammazione articolare, la forza della presa e i marker di infiammazione.
È stato evidenziato che diete a base di alimenti antinfiammatori potrebbero essere un modo efficace di apportare miglioramenti in alcuni parametri in adulti affetti da AR alla ricerca di trattamenti complementari

Tuttavia, sono necessari studi di più lunga durata, ben progettati per indagare riguardo l’influenza della dieta sulla patologia.

Nutri & Previenti | Ilenia di Martino
Fonte: Raad, T., Griffin, A., George, E. S., Larkin, L., Fraser, A., Kennedy, N., & Tierney, A. C. (2021). Dietary Interventions with or without Omega-3 Supplementation for the Management of RheumatoidArthritis: A Systematic Review. Nutrients, 13(10), 3506. https://doi.org/10.3390/nu13103506

martedì 23 agosto 2022

Cavoli e broccoli: possono dissolvere gli emboli per trattare i pazienti di ictus

Le sperimentazioni pre-cliniche finora condotte mostrano che il loro uso nel combattere gli ictus potrebbe essere ampliato individuando le molecole che mitigano il rischio di infarto.

Sono tra i cibi più impopolari nei menu familiari - broccoli, cavoli, cavolfiori e cavoletti di Bruxelles - ma le loro proprietà salutari sono fuori questione. Ora una nuova ricerca dell'Heart Research Institute e dell'University of Sydney indica che le loro sostanze chimiche naturali possano dissolvere gli emboli e trattare i pazienti di ictus, oltre a migliorare l'efficacia dei farmaci fluidificanti. Le sperimentazioni pre-cliniche finora condotte usando modelli animali mostrano che il loro uso nel combattere gli ictus potrebbe essere ampliato individuando le molecole che mitigano il rischio di infarto. Il responsabile del progetto Xuyu Liu dell'University of Sydney, specializzato nello sviluppo di farmaci a piccole molecole, scrive sul sito dell'ateneo che una dieta accresciuta di broccoli e cavoletti di Bruxelles in particolare può raddoppiare la probabilità di sbloccare le arterie e potenzialmente di evitare gli ictus. "La ricerca segna la prima volta in cui si esamina come alimentiamo con questi cibi il sistema di circolazione del sangue. L'obiettivo di lungo termine è di sviluppare nuovi trattamenti che possano agire sulla formazione di emboli a livello molecolare". L'ictus avviene quando l'alimentazione di sangue al cervello è interrotta, affamando le cellule di ossigeno e di nutrienti e alla fine causando un ictus ischemico - una forma di embolia che ostruisce il flusso sanguigno. Liu aggiunge che le sperimentazioni precliniche del suo gruppo di ricerca hanno isolato con successo una sostanza chimica naturale nei broccoli, chiamata isothiocyanato, capace di raddoppiare il tasso di disostruzione delle arterie, rispetto ai correnti farmaci TPA (Attivatore tissutale del plasminogeno). Nella prossima fase del progetto, i farmaci saranno sottoposti a sperimentazione umana, con l'obiettivo di produrre un farmaco bevanda che combini in se' le molecole più efficaci per trattamento antitrombotico.


CARDIOLOGIA | REDAZIONE DOTTNET

giovedì 4 agosto 2022

Il diabete si può combattere a tavola


Secondo una ricerca italiana cambiando il proprio piano alimentare sarebbe possibile, in soli 2 mesi, ridurre significativamente il grasso accumulatosi in eccesso nel pancreas e conseguentemente migliorare la produzione di insulina.

Una ricerca condotta dall'Unità di Diabete, Nutrizione e Metabolismo dell'Università Federico II di Napoli, in collaborazione con l'Ircss Synlab Sdn e l'Istituto di Biostrutture e Bioimmagini del Cnr di Napoli, i cui risultati sono stati pubblicati su Diabetes Care, la principale rivista americana di diabetologia, dimostra che si può combattere e prevenire il diabete con una dieta con diverse componenti benefiche, ispirata alla tradizione mediterranea. 

Secondo lo studio cambiando il proprio piano alimentare sarebbe possibile, in soli 2 mesi, ridurre significativamente il grasso accumulatosi in eccesso nel pancreas e conseguentemente migliorare la produzione di insulina. Quando il grasso è in eccesso, "si accumula, oltre che nel tessuto adiposo, anche in organi in cui non ci dovrebbe essere, come fegato, pancreas, cuore e muscolo, e questo accumulo altera alcune funzioni principali dei vari organi", ha spiegato il ricercatore Giovanni Annuzzi. Nel corso dello studio, è stato chiesto a pazienti con diabete tipo 2 di seguire per 2 mesi una dieta multifattoriale o una dieta ricca in acidi grassi monoinsaturi contenuti nell'olio extra-vergine d'oliva. La dieta multifattoriale "era ricca in fibre e in alimenti a basso indice glicemico (legumi, verdura, cereali integrali e frutta), acidi grassi monoinsaturi (presenti nell'olio extra vergine d'oliva), acidi grassi omega 3 e omega 6 (derivanti dal pesce grasso e dalla frutta secca a guscio), vitamine e polifenoli (frutta, verdura, tè, caffè). Mentre, l'altra dieta era ricca solo in acidi grassi monoinsaturi derivanti dall'olio extra vergine d'oliva", ha spiegato il ricercatore Giuseppe Della Pepa.

Ai partecipanti è stato misurato il contenuto di grasso pancreatico tramite una risonanza magnetica prima e dopo la dieta.
Inoltre, sono stati monitorati i livelli di glicemia e insulinemia a digiuno e nelle 4 ore successive ad un pasto test. "Al termine dei 2 mesi, il grasso pancreatico si è ridotto significativamente del 10% nella dieta multifattoriale e durante il pasto abbiamo osservato, sempre nella dieta multifattoriale, un incremento significativo della secrezione insulinica del 30%, soprattutto nelle prime due ore successive al pasto", ha spiegato il ricercatore. "Le ricadute cliniche derivanti dai risultati di questo studio sono enormi. Infatti, adottare una dieta ispirata alla tradizione mediterranea può indurre anche un miglioramento della secrezione precoce di insulina dopo i pasti, considerato uno dei meccanismi principali che portano al diabete tipo 2", ha concluso Angela Rivellese.


DIABETOLOGIA | REDAZIONE DOTTNET |

giovedì 30 giugno 2022

Il ruolo degli integratori nelle malattie cardiovascolari.


Più della metà degli adulti assume integratori alimentari e si prevede che l'uso di integratori negli Stati Uniti aumenterà. 1 , 2 Nel 2021, le persone negli Stati Uniti hanno speso circa 50 miliardi di dollari in integratori alimentari e l'industria degli integratori alimentari ha speso circa 900 milioni di dollari in marketing. 2

Il fascino degli integratori è evidente. In teoria, vitamine e minerali hanno effetti antiossidanti e antinfiammatori che dovrebbero ridurre lo sviluppo di malattie cardiovascolari e cancro. Mangiare frutta e verdura è associato a una diminuzione delle malattie cardiovascolari e del rischio di cancro. 3 , 4 È ragionevole pensare che le vitamine ei minerali chiave potrebbero essere estratti da frutta e verdura, confezionati in una pillola, e le persone potrebbero evitare la difficoltà e la spesa di mantenere una dieta equilibrata. Il motivo più comune per cui le persone riferiscono di assumere integratori è per migliorare o mantenere la salute generale. 5Tuttavia, frutta e verdura intera contengono una miscela di vitamine, sostanze fitochimiche, fibre e altri nutrienti che probabilmente agiscono in sinergia per fornire benefici per la salute. I micronutrienti isolati possono agire in modo diverso nel corpo rispetto a quando sono confezionati naturalmente con una miriade di altri componenti dietetici. 6

Nelle giuste circostanze, gli integratori hanno benefici per la salute. Le carenze di vitamine e minerali causano una miriade di malattie. Per le persone che sono o potrebbero rimanere incinte, si raccomanda l'acido folico per prevenire i difetti del tubo neurale e il ferro per prevenire il parto pretermine e il basso peso alla nascita, oltre a migliorare lo sviluppo cerebrale del feto. 7 , 8

Per gli adulti sani e non gravidi, la US Preventive Services Task Force (USPSTF) ha aggiornato la sua raccomandazione sull'uso di integratori per prevenire le malattie cardiovascolari o il cancro. 9 Questa raccomandazione aggiornata si basa su un nuovo rapporto di evidenza e revisione sistematica, entrambi in questo numero di JAMA , di 84 studi, inclusi 52 nuovi studi dall'ultima raccomandazione USPSTF su questo argomento nel 2014. 10L'USPSTF ha concluso che le prove attuali non sono sufficienti per valutare l'equilibrio tra benefici e danni dell'uso di integratori multivitaminici, integratori singoli o integratori più accoppiati per la prevenzione delle malattie cardiovascolari o del cancro (affermazione I). L'USPSTF sconsiglia specificamente l'uso di integratori di beta carotene per la prevenzione delle malattie cardiovascolari o del cancro (raccomandazione D) a causa di un possibile aumento del rischio di mortalità, mortalità cardiovascolare e cancro ai polmoni. L'USPSTF sconsiglia inoltre specificamente l'uso di integratori di vitamina E per la prevenzione delle malattie cardiovascolari o del cancro (raccomandazione D) perché probabilmente non ha alcun beneficio netto nel ridurre la mortalità, le malattie cardiovascolari o il cancro.

Per i multivitaminici, dimostrare l'assenza di un beneficio è impegnativo e un'affermazione non è una raccomandazione a favore o contro l'uso. Tuttavia, nella migliore delle ipotesi, le prove attuali suggeriscono che qualsiasi potenziale beneficio di un multivitaminico sulla riduzione della mortalità è probabilmente piccolo. Ad esempio, per una donna sana di 65 anni, che ha un rischio di mortalità stimato a 9 anni di circa l'8,0%, l'assunzione di un multivitaminico per 5-10 anni potrebbe ridurre il rischio di mortalità stimato al 7,5% (basato su un odds ratio di 0,94). Oltre a mostrare un piccolo beneficio potenziale, questa stima si basa su prove imperfette, è imprecisa ed è altamente sensibile al modo in cui i dati vengono interpretati e analizzati. L'evidenza disponibile è limitata dall'eterogeneità dei multivitaminici studiati, dai brevi tempi di follow-up e dai campioni di studio non diversificati.

La consulenza sullo stile di vita per prevenire le malattie croniche nei pazienti dovrebbe continuare a concentrarsi su approcci basati sull'evidenza, comprese diete equilibrate ad alto contenuto di frutta e verdura e attività fisica. Tuttavia, un'alimentazione sana può essere una sfida quando il sistema alimentare industrializzato statunitense non dà priorità alla salute e gli alimenti sani tendono ad essere più costosi, causando problemi di accesso e insicurezza alimentare. A livello di paziente, lo screening per l'insicurezza alimentare e il collegamento delle famiglie colpite alle risorse pubbliche e comunitarie sono essenziali per un'equa prevenzione delle malattie croniche. A livello locale, le organizzazioni comunitarie devono avere il supporto per integrare la promozione della salute nei loro servizi mentre affrontano i bisogni delle popolazioni svantaggiate. A livello di governo,

È importante sottolineare che le attuali raccomandazioni dell'USPSTF non si applicano al preconcepimento o all'assistenza correlata alla gravidanza. Sebbene la task force abbia raccomandato separatamente che tutte le persone in grado di o pianificando una gravidanza assumano da 0,4 a 0,8 mg di acido folico al giorno, dati affidabili sui potenziali benefici dell'integrazione multivitaminica aggiuntiva nella prevenzione delle complicanze cardiovascolari della gravidanza (p. es., disturbi ipertensivi della gravidanza) associati con rischio a lungo termine di malattie cardiovascolari sono carenti. 7 , 11Determinare se e come l'integrazione con altri nutrienti singoli o combinati prima e durante la gravidanza possa modificare il rischio di questi esiti avversi della gravidanza potrebbe avere importanti implicazioni per gli sforzi di prevenzione delle malattie cardiovascolari. Indipendentemente dall'uso di multivitaminici, la promozione degli sforzi di prevenzione primordiale e primaria che ottimizzino la salute cardiovascolare nelle prime fasi della vita dovrebbe essere una pietra angolare della prevenzione delle malattie cardiovascolari.

Il consistente budget di marketing dell'industria degli integratori genera interesse, attenzione e miliardi di dollari di entrate. La maggior parte delle persone vede gli integratori come, nel peggiore dei casi, prodotti preventivi benigni. Tuttavia, negli Stati Uniti, gli integratori alimentari sono relativamente non regolamentati e tenuti a negare che le indicazioni sulla salute "non sono state valutate dalla Food and Drug Administration" e "non sono intese a diagnosticare, trattare, curare o prevenire alcuna malattia". I danni reali degli integratori non sono studiati così a fondo come quelli dei prodotti farmaceutici. 12 Molti pazienti non segnalano l'uso di integratori alimentari, il che porta a perdere l'opportunità di discutere i problemi di sicurezza con i pazienti. 13

Al di là dei soldi sprecati, l'attenzione agli integratori potrebbe essere vista come una distrazione potenzialmente dannosa. Piuttosto che concentrare denaro, tempo e attenzione sugli integratori, sarebbe meglio enfatizzare le attività a basso rischio e con maggiori benefici. Gli sforzi individuali, di salute pubblica, di politica pubblica e civici dovrebbero concentrarsi sul sostegno alle persone nelle cure preventive regolari, 14 , 15 seguendo una dieta sana, fare esercizio, mantenere un peso sano ed evitare di fumare. I sistemi sanitari e gli operatori sanitari dovrebbero concentrarsi sui servizi di prevenzione basati sull'evidenza raccomandati dall'USPSTF, incluso il controllo dell'ipertensione e la consulenza comportamentale per incoraggiare l'attività fisica e una dieta sana. 14 , 15


NUTRIZIONE | REDAZIONE DOTTNET | 27/06/2022 17:46

Fonte: Jama

Riferimenti

1. Mishra S, Stierman B, Gahche JJ, Potischman N. Uso di integratori alimentari tra gli adulti: Stati Uniti, 2017-2018. Riassunto dei dati dell'NCHS. Centro nazionale di statistica sanitaria; 2021. doi: 10.15620/cdc:101131

2. Rapporto sul mercato degli integratori alimentari del Nord America, 2021-2028. Accesso il 26 maggio 2022. https://www.grandviewresearch.com/industry-analysis/north-america-dietary-supplements-market

3. Arnett DK, Blumenthal RS, Albert MA, et al 2019 ACC/AHA linee guida sulla prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari: un rapporto dell'American College of Cardiology/American Heart Association Task Force on Clinical Practice Guidelines. Circolazione  . 2019;140(11). doi: 10.1161/CIR.0000000000000678Google ScholarRiferimento incrociato

4. Aune D, Giovannucci E, Boffetta P, et al. L'assunzione di frutta e verdura e il rischio di malattie cardiovascolari, cancro totale e mortalità per tutte le cause: una revisione sistematica e una meta-analisi dose-risposta di studi prospettici. Epidemia Int  J. 2017;46(3):1029-1056. doi: 10.1093/ije/dyw319PubMedGoogle ScholarRiferimento incrociato

5. Bailey RL, Gahche JJ, Miller PE, Thomas PR, Dwyer JT. Perché gli adulti statunitensi usano integratori alimentari. JAMA  Stagista Med . 2013;173(5):355-361. doi: 10.1001/jamainternmed.2013.2299

6. Alissa EM, Felci GA. Rischio di frutta e verdura dietetica e malattie cardiovascolari. Crit  Rev Food Sci Nutr . 2017;57(9):1950-1962. doi: 10.1080/10408398.2015.1040487PubMedGoogle ScholarRiferimento incrociato

7. Bibbins-Domingo K, Grossman DC, Curry SJ, et al; Task Force sui servizi preventivi degli Stati Uniti. Supplementazione di acido folico per la prevenzione dei difetti del tubo neurale: dichiarazione di raccomandazione della US Preventive Services Task Force. GIAMA  . 2017;317(2):183-189. doi: 10.1001/jama.2016.19438

8. Comitato per i bollettini di pratica dell'American College of Obstetricians and Gynecologists: Ostetricia. Anemia in gravidanza: Bollettino delle pratiche ACOG, numero 233.  Obstet Gynecol . 2021;138(2):e55-e64. doi: 10.1097/AOG.0000000000004477PubMedGoogle ScholarRiferimento incrociato

9. Task Force sui servizi preventivi degli Stati Uniti. Integrazione di vitamine, minerali e multivitaminici per prevenire le malattie cardiovascolari e il cancro: dichiarazione di raccomandazione della US Preventive Services Task Force. GIAMA  . Pubblicato il 21 giugno 2022. doi: 10.1001/jama.2022.8970

10. O'Connor EA, Evans CV, Ivlev I, et al. Integratori vitaminici e minerali per la prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari e del cancro: rapporto di evidenza aggiornato e revisione sistematica per la US Preventive Services Task Force. GIAMA  . Pubblicato il 21 giugno 2022. doi: 10.1001/jama.2021.15650


12. Bianco CM. Gli integratori alimentari rappresentano un vero pericolo per i pazienti. Ann  Farmacotera . 2020;54(8):815-819. doi: 10.1177/1060028019900504PubMedGoogle ScholarRiferimento incrociato

13. Tarn DM, Karlamangla A, Coulter ID, et al. Uno studio trasversale delle caratteristiche del fornitore e del paziente associate alle rivelazioni ambulatoriali dell'uso di integratori alimentari. Pazienti  Educazione Consigli . 2015;98(7):830-836. doi: 10.1016/j.pec.2015.03.020PubMedGoogle ScholarRiferimento incrociato

14. Liss DT, Uchida T, Wilkes CL, Radakrishnan A, Linder JA. Controlli sanitari generali nelle cure primarie degli adulti: una rassegna. GIAMA  . 2021;325(22):2294-2306. doi: 10.1001/jama.2021.6524

15. Task Force sui servizi preventivi degli Stati Uniti. Accesso il 26 maggio 2022. https://www.uspreventiveservicestaskforce.org/uspstf/

martedì 21 giugno 2022

Con buona forma fisica da bambini ‘mente sveglia’ da adulti

Uno studio durato 30 anni mostra che i bambini che sono in forma e di peso normale avranno migliori funzioni cognitive da adulti. Condotto da Jamie Tait e Michele Callisaya del National Centre for Healthy Ageing, presso la Monash University a Melbourne, lo studio è stato pubblicato sul Journal of Science and Medicine in Sport.

Gli esperti hanno iniziato lo studio nel 1985 coinvolgendo un campione di 1.244 bambini di età compresa tra 7 e 15 anni, afferenti al progetto di ricerca intitolato ‘Australian Childhood Determinants of Adult Health’, che ha lo scopo proprio di scoprire quali sono i fattori dell’infanzia che pongono le basi per una vita adulta sana. Da bambini i partecipanti sono stati sottoposti a test obiettivi di misura della forma fisica (forza muscolare, resistenza allo sforzo etc) e a test di misura di peso e altezza e del rapporto vita/fianchi.

Tra 2017 e 2019 i partecipanti divenuti ormai adulti di 39-50 anni sono stati sottoposti a una serie di test cognitivi. Ebbene è emersa una chiara relazione tra forma fisica nell’infanzia e capacità cognitive durante la mezza età. Lo studio è importante perché diverse ricerche hanno già dimostrato come l’avere buone capacità cognitive da adulti metta al riparo dal rischio di demenza negli anni a venire.

“Lo sviluppo di strategie che migliorino la forma fisica e riducano i livelli di obesità nell’infanzia è importante perché potrebbe contribuire a migliorare le prestazioni cognitive nella mezza età”, spiegano gli autori del lavoro. “Lo studio indica anche che le strategie protettive contro il futuro declino cognitivo potrebbero dover essere messe in atto già nella prima infanzia, in modo che il cervello possa sviluppare una riserva sufficiente contro lo sviluppo di condizioni come la demenza in età avanzata”, concludono.

Red. Nutri & Previeni.

mercoledì 1 giugno 2022

Il microbiota intestinale: un biomarcatore nell'epilessia


I biomarcatori convalidati nella ricerca sull'epilessia rappresentano un bisogno urgente insoddisfatto. 

L'epilessia è una condizione altamente eterogenea e multifattoriale che colpisce circa 50 milioni di persone nel mondo, per la quale mancano biomarcatori affidabili e validati. I biomarcatori sono definiti come variabili oggettivamente misurabili di un processo biologico, fisiologico o patologico, che forniscono informazioni affidabili sullo stato di quel processo specifico in un momento specifico. I biomarcatori convalidati nella ricerca sull'epilessia rappresentano un bisogno urgente insoddisfatto, essenziale per migliorare la qualità della ricerca; ad esempio, i biomarcatori nell'epilettogenesi che identificano questi soggetti a rischio di sviluppare l'epilessia dopo un insulto iniziale in modo definitivo porterebbero a un miglioramento degli studi clinici per trovare farmaci antiepilettogeni.

Proprio per la ricerca di biomarcatori, il ruolo del microbiota intestinale (MI) nei disturbi neurologici e più specificamente nell'epilessia è attualmente sotto una lente d'ingrandimento, con un interesse crescente strettamente legato a numerosi progressi scientifici e tecnologici di rilievo. Infatti, il legame bidirezionale tra il microbiota e il cervello, all'interno dell'asse microbiota-intestino-cervello (MIC), un interessante modello di studio in cui il MI può rappresentare uno strumento facilmente accessibile per determinare lo stato fisiopatologico del cervello o addirittura prevedere lo sviluppo o il trattamento di malattie risultati.

Oltre al potenziale come bersaglio terapeutico da diversi approcci come la modulazione diretta mediante la somministrazione di probiotici o prebiotici, la comprensione dei mediatori della comunicazione all'interno dell'asse MIC può portare allo sviluppo di postbiotici (ad es. Butirrato di sodio) o altre molecole che imitano i messaggi dall'intestino al cervello. Inoltre, possono essere presi in considerazione altri approcci come il trapianto fecale o l'uso di antibiotici.

Non a caso molto recentemente in uno studio su pazienti con epilessia hanno valutato il legame tra lo stato gastrointestinale funzionale e l'insorgenza di crisi, rivelando una correlazione.

Oltre all'interesse per MI come bersaglio terapeutico adatto e alcuni studi preclinici e clinici che indicano i potenziali effetti antiepilettici della manipolazione MI, la composizione del microbiota è stata trovata alterata in pazienti con epilessia così come in alcuni modelli animali. Solo pochi studi hanno cercato di analizzare la composizione MI come biomarcatore adatto e, nonostante molto promettente, diversi inconvenienti limitano la nostra comprensione. D'altra parte, la composizione MI può essere utile nel discriminare i pazienti resistenti ai farmaci dai pazienti che rispondono ai farmaci in qualsiasi fase o i pazienti a rischio di sviluppare l'epilessia dopo un insulto. Il principale limite nell'area è la mancanza di ampi studi su pazienti omogenei e la standardizzazione è un must per una corretta comprensione. Infine, considerando il numero di variabili derivanti sia dall'epilessia che dal MI, va considerata l'analisi dei big data come nel caso della genetica.

Capiamo quindi come le attuali conoscenze non consentono di identificare alcun biomarcatore specifico o preciso all'interno del MI, ma anzi supportano il legame tra quest'ultimo e l'epilessia e la probabilità di identificare alcuni biomarcatori. Non è una strada facile e richiederà molti più studi secondo criteri oggettivi per evitare risultati fuorvianti. Inoltre, questo tipo di ricerca è ancora molto costoso e soprattutto richiede un approccio multidisciplinare. Infine, non solo il MI ma anche i suoi prodotti (che possono essere misurati non solo nelle feci ma anche nel sangue) possono rappresentare biomarcatori idonei.

In un secondo studio di Gong et al. hanno esplorato la struttura e la composizione del microbiota fecale dei pazienti con epilessia, proprio per valutare il ruolo dell'alterazione del microbiota intestinale nei pazienti epilettici. Hanno eseguito l'analisi del microbiota fecale tra pazienti con epilessia e controlli sani, basandosi sul metagenoma ottenuto dalle sequenze di rRNA 16S.

Ciò che emerge dallo studio è che i pazienti con epilessia mostrano alterazioni sostanziali della composizione del microbiota fecale e specifici ceppi commensali intestinali sono alterati a seconda dei diversi fenotipi clinici e quindi potrebbero fungere da potenziali biomarcatori per la diagnosi della malattia.

Concludiamo quindi affermando che negli ultimi anni, il ruolo dell'asse MIC nella patogenesi della malattia del sistema nervoso centrale ha ricevuto crescente attenzione. Tuttavia, l'impatto del microbiota fecale sull'epilessia è poco compreso e la ricerca di biomarcatori nell'epilessia rappresenta ancora un'esigenza insoddisfatta sotto diversi punti di vista. D'altra parte, la ricerca MI e lo studio dell'MIC è recentemente esploso aprendo nuove prospettive e possibilità1 e dati sperimentali recenti hanno rivelato che i microbi intestinali umani svolgono un ruolo fondamentale nella difesa del corpo ospite contro la patogenesi. Ciò è possibile anche in base alla disponibilità di nuove tecniche che sono state migliorate in alcuni casi e più economicamente accessibili in altri.

NEUROLOGIA | REDAZIONE DOTTNET |

Bibliografia:
Russo E. The gut microbiota as a biomarker in epilepsy. Neurobiol Dis. 2022 Feb;163:105598. doi: 10.1016/j.nbd.2021.105598.
Gong X et al. Alteration of Gut Microbiota in Patients With Epilepsy and the Potential Index as a Biomarker. Front Microbiol. 2020 Sep 18;11:517797. doi: 10.3389/fmicb.2020.517797.

martedì 31 maggio 2022

Allergie alimentari per 5% adulti e 6-10% bimbi

 

Le allergie alimentari colpiscono fino al 5% della popolazione adulta, mentre hanno una maggiore incidenza nei bambini, pari al 6-10% nei primi anni di vita. Nell’adulto l’allergia alimentare più frequente (72%) è dovuta all’assunzione di cibi di origine vegetale (arachidi, soia, grano, frutta a guscio, sesamo), la seconda causa è legata ai crostacei (13%). Per i bambini, invece, le reazioni più frequenti sono quelle a latte e uova. A fare chiarezza sulle allergie alimentari sono gli esperti dell’AAIITO, Associazione Allergologi Immunologi Italiani Territoriali e Ospedalieri.

“Le allergie alimentari rappresentano certamente un rilevante problema di salute pubblica, ma nell’immaginario collettivo la loro prevalenza è enormemente sopravvalutata”, afferma Riccardo Asero, presidente AAIITO. “Sulla base dei risultati ottenuti da recenti studi multicentrici condotti nel nostro Paese dall’associazione, possiamo fare chiarezza su tre importanti allergie: ai crostacei, al pesce ed all’arachide”. Per Asero “è importante chiarire questi argomenti spesso resi scarsamente comprensibili da informazioni provenienti da fonti non adeguatamente qualificate”.

I sintomi dell’allergia alimentare, spiegano gli allergologi, possono coinvolgere più organi e apparati con diversi sintomi: orticaria/angioedema, edema delle labbra e della lingua, prurito al palato, nausea, vomito, diarrea e dolori addominali, broncospasmo, tosse, ostruzione nasale e dispnea e fino allo shock anafilattico con ipotensione e perdita di coscienza. La diagnosi dell’allergia alimentare si basa su anamnesi, cutireazioni come, ad esempio, il prick test con estratto o prick by prick con alimento fresco, dosaggio delle IgE specifiche per l’alimento o per le singole molecole allergeniche dell’alimento in questione ed il test di provocazione orale.

“La terapia delle allergie alimentari – spiega Baoran Yang allergologa AAIITO presso il ASST Mantova – si basa sulla dieta di esclusione e sulla terapia d’emergenza con adrenalina autoiniettabile nei pazienti con reazioni gravi. Esiste la possibilità di prevenire reazioni gravi secondarie all’ingestione occasionale di tracce di allergene con la desensibilizzazione, ossia la somministrazione controllata di quantità crescenti di allergene. Tale terapia è eseguita in centri specializzati e permette di migliorare la qualità di vita dei pazienti”.

L’allergia al pesce, spiegano gli esperti, è “abbastanza rara rispetto a quella verso gli altri allergeni di origine animale (1 – 7%)”, ma “è importante inquadrarla correttamente per evitare diete di eliminazione inappropriate”. Per iniziare, gli allergologi spiegano che esiste una correlazione tra l’allergia ai crostacei e la sensibilizzazione agli acari della polvere. Questo perché “crostacei ed acari, così come i molluschi, sono degli invertebrati ed hanno degli allergeni in comune, dei quali il più importante è la tropomiosina”.

L’allergene maggiore del pesce è invece la parvalbumina che si trova nel muscolo, è resistente alla cottura ed alla lavorazione delle carni, e può essere anche un aeroallergene durante la lavorazione e la cottura. Allergeni meno frequenti, recentemente riconosciuti, sono l’enolasi e l’aldolasi, meno stabili alla lavorazione ed alla cottura. Allergeni minori del pesce sono contenuti anche nel collagene (quindi nella gelatina di pesce), nel sangue e nelle uova.

“Le persone allergiche al pesce sono molto raramente sensibilizzate verso gli altri prodotti ittici come i crostacei e non tutti i pazienti devono evitare tutte le specie di pesce, in quanto esistono soggetti sensibilizzati solo a poche specie o monosensibilizzati ed è pertanto importante inquadrarli correttamente per evitare inutili diete di eliminazione”, dichiara Gaia Deleonardi allergologa AAIITO del Settore Allergologia e Autoimmunità LUM, Ausl Bologna.

L’allergia primaria all’arachide è una delle principali allergie alimentari nei paesi anglosassoni e nei paesi dell’Europa settentrionale, esordisce in genere nei bambini, può essere responsabile di reazioni gravi e spesso persiste nell’età adulta. I pazienti italiani allergici all’arachide, spiega l’AAIITO, “più spesso sono sensibilizzati a panallergeni come la Lipid Trasfer Protein (LTP), presente in molti cibi di origine vegetale e potenzialmente responsabile di reazioni severe, o panallergeni pollinici come Profilina o PR-10 a cui il paziente si sensibilizza attraverso i pollini e che nella maggior parte dei casi causano una sindrome orale allergica (sintomi limitati al cavo orale) solo con l’alimento consumato crudo”.

Nutri & Previeni. 

martedì 24 maggio 2022

Fegato grasso nei normo peso: rischi cardiovascolari.

Steatosi epatica non alcoolica nei normopeso: ‘non è una malattia benigna’.


(Reuters Health) – Gli adulti normopeso e con steatosi epatica non alcoolica (NAFLD) sono più esposti alle malattie cardiovascolari rispetto ai coetanei con NAFLD che sono sovrappeso o che soffrono di obesità. È quanto emerge da uno studio presentato alla Digestive Disease Week da Karn Wijarnpreecha, dell’Università del Michigan di Ann Arbor (USA).

Il team di Wijarnpreecha ha condotto uno studio retrospettivo su quasi 18.600 adulti con diagnosi di NAFLD. In particolare, Wijarnpreecha e colleghi hanno confrontato la prevalenza di cirrosi, malattie cardiache, malattie metaboliche e malattie renali croniche in base al peso corporeo, distinguendo le persone in quattro tipologie: normale, con BMI tra 18,5 e 24,9, sovrappeso, con BMI tra 25 e 29,9, obesità di classe I, con BMI tra 30 e 34,9, e obesità di classe 2-3, con BMI da 35 a sotto 40.

Il team ha evidenziato che, rispetto ai pazienti non magri, i normopeso avevano una minore prevalenza di cirrosi, diabete mellito, ipertensione e dislipidemia, ma una maggiore prevalenza di malattie vascolari periferiche, malattie cerebrovascolari e qualsiasi malattia cardiovascolare.

Per qualsiasi malattia cardiovascolare, l’odds ratio era 0,8, mentre per i pazienti in sovrappeso era 0,7. Inoltre, i pazienti normopeso con NAFLD avevano una prevalenza significativamente più alta di malattie cardiovascolari, indipendentemente da età, sesso, etnia, dipendenza dal fumo, diabete, ipertensione e dislipidemia.

“La NAFLD nelle persone magre non è una malattia benigna”, afferma Wijarnpreecha, “Il nostro team si aspettava di osservare una minore prevalenza di qualsiasi condizione metabolica cardiovascolare, quindi siamo rimasti sorpresi nell’evidenziare questo collegamento con le malattie cardiovascolari”.

“Troppo spesso trascuriamo i pazienti normopeso con NAFLD perché presumiamo che il loro rischio per malattie più gravi sia inferiore rispetto alle persone in sovrappeso, ma questo modo di agire potrebbe metterli a rischio”, conclude il ricercatore

Fonte: Digestive Disease Week
Megan Brooks
(Versione italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)

lunedì 23 maggio 2022

Vitamine e Omega 3 alleati degli occhi.



L’occhio invecchia precocemente, ma alcuni alimenti possono aiutare a preservarne la salute. Un’alimentazione ricca di antiossidanti, vitamine A, B, E, luteina è in grado di ridurre rischi per la vista legati al passare degli anni: a cominciare dalla cataratta e dalla degenerazione maculare senile. A fare il punto su ruolo dell’alimentazione ma anche su tecniche e terapie innovative per la vista è il 19/mo Congresso Internazionale della Società Italiana di oftalmologia (Soi), di Roma.

“La retina – spiega Matteo Piovella, presidente Soi – è un tessuto con una circolazione unica e abbastanza penalizzata. Ha bisogno di sostanze, come la luteina, che il nostro organismo non produce e che quindi dobbiamo integrare dall’esterno. Tra gli alimenti che la contengono, oltre allo yogurt, ci sono soprattutto la frutta e gli ortaggi come spinaci, cavoli, broccoli e uova. La curcumina si trova nel curry e nello zafferano“.

Gli agrumi aiutano a combattere i radicali liberi e, specifica Piovella, “un recente studio evidenzia come la vitamina C contribuisca a mantenere le cellule del nervo ottico in funzione. Carote, zucca, patate dolci e meloni sono ricchi di beta-carotene. Peperoni gialli e arancioni, pesche sono ricchi di vitamina C e zeaxantina. La soia, con i suoi derivati, è formidabile anti-ossidante e contiene amminoacidi essenziali, fitoestrogeni, vitamina E che aiutano a mantenere gli occhi sani”.

Anche gli Omega 3 contenuti nel pesce sono fondamentali, in particolare salmone, tonno, trota selvatica e sardine contengono grandi quantità di acido docosaesaenoico. Il tè, soprattutto verde, nero e di Colong, è valido alleato”.

Dagli esperti arriva anche il calendario ideale delle visite oculistiche, che permette di salvaguardia della vista. “La prima visita va effettuata alla nascita, poi entro i tre anni di età – raccomanda il presidente Soi – quindi il primo giorno di scuola; successivamente ne fatta una tra i 10 e i 15 anni per gestire l’eventuale insorgenza della miopia. Dai 40 ai 60 anni ne va fatta una ogni due anni, e dopo i 60 una volta l’anno”.

Redazione Nutri & Previeni. 

lunedì 16 maggio 2022

Acqua alleata dei capelli

Bere adeguatamente aiuta la crescita dei capelli e ne previene la caduta mentre la disidratazione è nemica della salute dei capelli. I follicoli piliferi, ovvero la parte vivente del capello situata sotto la pelle, sono il tessuto a più rapida crescita nell’organismo, ma quando si è disidratati non sono in grado di funzionare correttamente, come del resto tutte gli organi e tessuti del nostro corpo. Questa rapida crescita necessita di nutrimento continuo, tanto che alcuni studi hanno evidenziato che un aumento del flusso sanguigno al cuoio capelluto aiuti a prevenire la calvizi
La disidratazione invece può causare una riduzione di questo flusso perché, quando non si beve a sufficienza, si verifica un abbassamento della pressione sanguigna e gli organi, compreso il bulbo pilifero, non ricevono l’ossigeno e i nutrienti di cui hanno bisogno. “Rimanere idratati aiuta anche a favorire la circolazione e la produzione di sebo del cuoio capelluto, mantenendo sani i follicoli piliferi e forti le ciocche, favorendone quindi la crescita”, ha spiegato Elisabetta Bernardi, biologa specialista in Scienza dell’Alimentazione e membro dell’Osservatorio Sanpellegrino.

“Una corretta idratazione aiuta inoltre il cuoio capelluto nella prevenzione di pruriti e irritazioni, ed è coadiuvante nel trattamento di bruciori e arrossamenti, contribuendo a ripristinare il benessere dello scalpo e la bellezza dei capelli. Una corretta idratazione è quindi alla base, non solo della nostra salute, ma anche della cura dei nostri capelli. È quindi fondamentale bere una quantità adeguata di acqua nel corso della giornata, privilegiando quelle ricche in calcio, magnesio e oligoelementi.”

L’acqua minerale è uno dei segreti di bellezza più antichi per i nostri capelli. Sciacquarsi la testa con l’acqua minerale è un modo semplice ma efficace di avere capelli lucenti e folti. È dimostrato, infatti, che l’acqua del rubinetto è spesso troppo ricca di calcare e di fluoro, che influiscono negativamente sui capelli rendendoli opachi e rigidi.

Redazione Nutri & Previeni

martedì 10 maggio 2022

Diete: il peso perso si recupera se non si dorme abbastanza






Per le persone che stanno cercando di dimagrire, avere una durata e una qualità ottimale del sonno è essenziale sia per perdere peso sia per evitare di riprenderlo. È quanto emerge da uno studio condotto da ricercatori dell’università di Copenhagen presentato allo European Congress on Obesity.

La ricerca ha coinvolto 195 adulti con obesità sottoposti a una rigida dieta ipocalorica della durata di otto settimane che ha consentito loro di perdere circa il 12% del peso. Al termine delle otto settimane, i volontari sono stati seguiti per un anno mentre seguivano diversi programmi per il mantenimento del peso. Durante questo periodo, i ricercatori hanno indagato l’intricato legame tra sonno, perdita di peso e attività fisica nelle persone obese scoprendo che la perdita di peso, da sola, era sufficiente a migliorare notevolmente la qualità del sonno dei partecipanti allo studio.

Non solo: la qualità e la durata del sonno miglioravano ulteriormente se si svolgeva regolarmente attività fisica. Specularmente, tuttavia, quanti avevano un sonno peggiore avevano anche una probabilità molto più alta di riprendere il peso perso: nello specifico, i ricercatori hanno scoperto che chi dormiva meno di 6 ore a notte tendeva a recuperare circa un punto e mezzo di indice di massa corporea (l’equivalente di circa 5 kg per una persona alta un metro e ottanta), nonostante l’adesione al programma per il mantenimento del peso.

“Il fatto che la salute del sonno sia così fortemente correlata al mantenimento della perdita di peso è un elemento molto importante poiché molti di noi non dormono le ore di sonno raccomandate per garantire una salute e un funzionamento ottimali”, afferma il coordinatore dello studio Signe S. Torekov. “Le ricerche che in futuro esamineranno i possibili modi per migliorare il sonno negli adulti con obesità costituiranno un passo importante per limitare il recupero del peso”.


Alimentazione & Nutrizione, Salute & Prevenzione

Un genitore su tre nega l'obesità del proprio figlio

 

Un genitore su tre fatica a riconoscere l'obesità del proprio figlio e un adolescente su quattro non si rende conto di essere obeso.1 Questo è ciò che emerge, principalmente, dai nuovi dati dello studio internazionale ACTION TEENS, condotto in dieci paesi nei vari continenti, Italia inclusa, e presentato oggi da Novo Nordisk al Congresso Europeo sull'Obesità (ECO) 2022.
 
L’obiettivo primario dello studio, che ha coinvolto circa 13.000 persone, di cui oltre 5.000 bambini e adolescenti con obesità, 5.400 genitori e caregiver, e più di 2.000 operatori sanitari, era quello di identificare le percezioni, le attitudini, i comportamenti e gli ostacoli per la cura dell’obesità e capire in che modo questi fattori influenzino la sua gestione.

I nuovi dati evidenziano che l’obesità pediatrica ha un notevole impatto sulle aspettative di vita di chi ne è affetto; infatti, il rischio di morte prematura triplica nei bambini con obesità rispetto ai bambini che hanno un indice di massa corporea (BMI) nella norma.

I genitori di bambini con obesità faticano a riconoscerla e spesso sottovalutano la gravità della malattia, convincendosi che si risolverà con la crescita, aspettativa quest’ultima assolutamente non supportata dalle evidenze scientifiche. Purtroppo, invece, sottovalutare questa malattia in bambini e adolescenti porta a complicanze già in giovane età, con lo sviluppo di malattie croniche come problemi di salute mentale, disturbi cardiaci, diabete di tipo 2, nonché alcuni tumori e problemi a scheletro e articolazioni.

"L’obesità è una malattia cronica che tende a recidivare e nel tempo può complicarsi con lo sviluppo di altre malattie, ma se trattata con serietà, tempo, dedizione e impegno si può curare", aggiunge Claudio Maffeis, Past President della Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica. "In Italia i dati più recenti dell’indagine Okkio alla Salute ci dicono che purtroppo siamo tra i paesi europei con i valori più elevati di sovrappeso e obesità nella popolazione in età scolare, risulta infatti che la percentuale di bambini in sovrappeso è del 20,4 per cento e di bambini con obesità del 9,4 per cento, compresi i gravemente obesi che rappresentano il 2,4 per cento".

"L’obesità rappresenta una sfida irrisolta di salute pubblica, colpisce e condiziona la vita di troppi giovani, influenzando profondamente la loro salute. Lo studio ACTION TEENS ha analizzato le diverse potenziali barriere che ostacolano un’efficace lotta a questa malattia", ha detto Stephen Gough, Senior vice president, Global Chief Medical Officer, Novo Nordisk. "L’obesità in età pediatrica si riflette in età adulta in quattro casi su cinque; dobbiamo agire per guidare la popolazione a un cambiamento radicale di attitudini".

"I risultati dello studio mostrano che, nonostante gli adolescenti vogliano perdere peso per migliorare la propria salute, in un caso su tre non riescono a parlarne direttamente con i genitori e spesso ricorrono all’uso dei social media per cercare aiuto", ha commentato Vicki Mooney, uno degli autori dello studio, Direttore esecutivo della European Coalition for People living with Obesity (ECPO). "È difficile comprendere pienamente le pressioni quotidiane cui gli adolescenti in questa situazione sono soggetti, soprattutto perché due terzi di loro si sentono gli unici responsabili del perdere peso. Infatti, molti genitori e caregiver di bambini e adolescenti con obesità non sanno come affrontarla e come gestirla al meglio".
 
Dallo studio, infine, emerge la necessità di migliorare i percorsi di formazione di medici e operatori sanitari nella gestione e nella cura dell’obesità come malattia cronica. Secondo i dati raccolti risulta, infatti, che l’87 per cento ritiene di non aver avuto una formazione adeguata su questa malattia.
 
"L'impatto dell'obesità sulla società e sui nostri sistemi sanitari non deve essere sottovalutato. C'è urgente bisogno che i governi e la società riconoscano e trattino l'obesità come una malattia cronica, in modo da offrire il giusto sostegno a tutti", ha dichiarato l’autore principale dello studio, Jason Halford, Direttore della Scuola di psicologia dell'Università di Leeds e Presidente dell'Associazione europea per lo studio dell'obesità (EASO). 
 
L’obesità
L'obesità è una malattia cronica che richiede una gestione a lungo termine, è una malattia complessa e multifattoriale, influenzata da fattori genetici, fisiologici, ambientali e psicologici ed è associata a numerose gravi conseguenze per la salute.2
L'aumento della prevalenza dell'obesità a livello globale rappresenta un problema di salute pubblica che comporta gravi implicazioni in termini di costi per i sistemi sanitari. Nonostante l'elevata prevalenza, molte persone con obesità non ricevono sostegno ai loro sforzi per perdere peso e la malattia rimane sostanzialmente mal diagnosticata e sottostimata.
 
Studio ACTION TEENS
ACTION TEENS è uno studio internazionale che ha coinvolto 5.275 adolescenti di età compresa tra i 12 e i 17 anni affetti da obesità, 5.389 caregiver di adolescenti affetti da obesità e 2.323 operatori sanitari. I partecipanti provenivano da 10 paesi diversi, tra cui: Australia, Colombia, Italia, Messico, Arabia Saudita, Corea del Sud, Spagna, Taiwan, Turchia e Regno Unito. Lo studio ACTION TEENS si propone di identificare percezioni, atteggiamenti, comportamenti e potenziali barriere che impediscono una cura efficace dell'obesità in età pediatrica.


ENDOCRINOLOGIA | REDAZIONE DOTTNET

Mangiare meno e ad orari regolari allunga la vita


Mangiare meno allunga la vita, ma farlo con orari regolari è ancora meglio: lo dimostra uno studio condotto su centinaia di topi seguiti in laboratorio per quattro anni. Gli esemplari sottoposti a dieta ipocalorica hanno avuto un aumento della longevità del 10%, mentre quelli che seguivano la stessa dieta alimentandosi solo nel periodo di massima attività del metabolismo (la notte per i roditori), hanno visto la loro aspettativa di vita crescere addirittura del 35% (pari a 9 mesi in più su una vita media di 2 anni). I risultati, che aprono nuove prospettive anche per gli esseri umani, sono pubblicati su Science dai ricercatori dell'Howard Hughes Medical Institute (HHMI) negli Stati Uniti. Lo studio evidenzia come l'orologio biologico giochi un ruolo centrale nel potenziare gli effetti della dieta, anche se i meccanismi restano ancora tutti da scoprire. Secondo il coordinatore del gruppo di ricerca, Joseph Takahashi, mangiare in certi momenti della giornata non accelera la perdita di peso nei topi (come del resto ha dimostrato anche un recente studio clinico sulle persone pubblicato sul New England Journal of Medicine), ma potrebbe determinare benefici per la salute che vanno a sommarsi dando un allungamento della vita. In attesa di capire come dieta e orologio biologico interagiscono fra loro, Takahashi ha già preso esempio dai topi di laboratorio per cambiare le sue abitudini, limitando il consumo di cibo nell'arco di 12 ore durante la giornata. "Ma se trovassimo un farmaco che può potenziare l'orologio biologico - sottolinea l'esperto - potremmo sperimentarlo in laboratorio per vedere se è in grado di aumentare la durata della vita".
MEDICINA INTERNA | REDAZIONE DOTTNET