Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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venerdì 19 dicembre 2014

Scoperto un meccanismo nel cervello che spinge a desiderare cibi dolci


L’attività nel cervello di un enzima chiamato glucochinasi potrebbe essere la 'chiave' dell'appetito di alimenti ricchi di glucosio, tra cui cibi ricchi di amidi (pasta, pane) e alcuni dolci. Lo studio, su animali, è pubblicato su the Journal of Clinical Investigation. Un risultato che apre prospettive di studio anche per l’uomo.

Il glucosio è un importante componente dei carboidrati e la principale fonte energetica per le cellule cerebrali: il cervello si affida ad esso per ottenere energia. I ricercatori hanno identificato un processo, nel modello murino, mediante il quale viene percepita la quantità di glucosio che raggiunge il cervello e, quando questo componente non è sufficiente, l’animale viene sollecitato ad introdurne altro mediante l’alimentazione. Questo meccanismo potrebbe giocare un ruolo anche nella preferenza di cibi dolci e ricchi di amidi.
Il processo individuato sarebbe collegato alla glucochinasi, l’enzima che sembrerebbe ‘guidare’ il nostro desiderio di cibi dolci. Questo enzima, che rileva la presenza di glucosio nel fegato e nel pancreas, è presente in una regione cerebrale chiamata ipotalamo, la quale regola diverse funzioni cerebrali compresa quella preposta all’introduzione del cibo, i cui meccanismi non sono ancora ben noti. Gli scienziati hanno osservato che quando gli animali erano digiuni da alcune ore, l’attività della glucochinasi nel centro di regolazione dell’appetito all’interno dell’ipotalamo aumentava in maniera netta. I topolini avevano a disposizione una soluzione di glucosio e il loro normale cibo. All’aumentare dell’attività dell’enzima nell’ipotalamo, gli animali sceglievano di consumare più glucosio rispetto al resto del cibo. Al contrario, al diminuire dell’attività della glucochinasi, il consumo di glucosio diminuiva.
“Si tratta della prima volta in cui qualcuno scopre un sistema cerebrale che risponde ad un determinato nutriente, piuttosto che all’assunzione generica di energia”, ha dichiarato il Dottor James Gardiner, del Dipartimento di Medicina, che ha guidato lo studio. Gardiner suggerisce inoltre che negli uomini potrebbe in futuro rivelarsi plausibile l’idea di ridurre il ‘desiderio’ di glucosio modificando la propria dieta e utilizzando un eventuale farmaco che agisca opportunamente su questo sistema al fine di prevenire l’obesità.

Syed Hussain, Errol Richardson et al., Glucokinase activity in the arcuate nucleus regulates glucose intake. Journal of Clinical Investigation, 2014; DOI: 10.1172/JCI77172

La nascita delle religioni moralizzanti: il segreto fu la sazietà

I movimenti ascetici e moralizzanti che hanno dato origine alle principali tradizioni religiose del mondo, come Buddismo, Islamismo, Giudaismo, Induismo e Cristianesimo, sono comparsi tutti più o meno nello stesso momento in tre regioni diverse: secondo un nuovo modello statistico basato sulla storia e sulla psicologia umana, questo fenomeno è dipeso dal miglioramento degli standard di vita nelle grandi civiltà eurasiatiche. Ciò implica che le religioni del mondo probabilmente hanno in comune più di quello che pensiamo in quanto, al di là delle dottrine molto diverse, esse affondano le loro radici nello stesso sistema di ricompense presente nel cervello umano. Sembra ovvio affermare che le religioni si occupino di questioni spirituali e morali, ma non è sempre stato così. Nelle società di cacciatori e raccoglitori le tradizioni religiose erano focalizzate su rituali, offerte sacrificali e tabù concepiti per scongiurare il male e la sventura: ciò è cambiato fra il 500 ed il 300 a.C., la cosiddetta età Assiale, in cui in Eurasia sono comparse nuove dottrine che enfatizzavano il valore della trascendenza personale, ossia della nozione secondo cui l’esistenza umana abbia uno scopo diverso dal successo materiale che dipende da un’esistenza morale e dal controllo dei propri desideri materiali tramite moderazione, ascesi e compassione. Alcuni studiosi sostengono che le grandi società sono rese possibili dalle religioni moralizzanti, tuttavia alcuni grandi imperi del passato veneravano Dei palesemente poco morali. Secondo il nuovo modello, la transizione verso le religioni moralizzanti è stata netta quando le persone hanno potuto iniziare a contare su 2.000 kcal/die, un livello di “sazietà” che significava, in senso lato, avere un tetto sulla testa e molto cibo a disposizione tanto nel presente che nel prossimo futuro. Non è una cosa scontata quando fino a poco tempo prima si affrontavano carestie e malattie e si viveva in case molto rudimentali: nell’età Assiale le cose sono iniziate ad andare meglio. Di conseguenza, le strategie di vita sono passate dalla risoluzione dei problemi quotidiani immediati agli “investimenti a lungo termine” sulle questioni spirituali. (Curr Biol online 2014)

Cervello degli obesi risponde di più agli zuccheri

Il cervello dei bambini obesi si “accende” letteralmente in modo diverso quando assaggia lo zucchero. Lo studio non dimostra che vi sia una relazione di causalità fra l’ipersensibilità allo zucchero e la tendenza a mangiare troppo, ma supporta l’idea secondo cui i giovani obesi presentano una risposta psicologica incrementata al cibo. Questo elevato senso della “ricompensa alimentare”, che implica l’essere motivati dal cibo e trarne sensazioni positive, potrebbe significare che alcuni bambini abbiano circiuti cerebrali che li predispongono a desiderare una maggiore quantità di zuccheri per tutta la vita. I bambini obesi presentano un incremento dell’attività a livello della corteccia insulare e dell’amigdala, due regioni del cervello implicate in percezione, emozioni, consapevolezza, gusto, motivazione e ricompensa. Uno degli aspetti più interessanti dello studio consiste nel fatto che le scansioni cerebrali effettuate potrebbero documentare per la prima volta le fasi precoci dello sviluppo del circuito di ricompensa alimentare nei preadolescenti. Qualunque esperto di obesità confermerebbe che perdere peso è difficile, e che si tratta di una battaglia da vincere con la prevenzione: ora sappiamo che essa deve iniziare più precocemente possibile, in quanto alcuni bambini potrebbero nascere con un’ipersensibilità verso le ricompense alimentari, oppure potrebbero apprendere la correlazione fra cibo e sensazione di benessere più rapidamente rispetto ad altri. (Int J Obesity online 2014).

giovedì 11 dicembre 2014

Al bando gli snack di mezzanotte


Al giorno d’oggi, con l’abbondanza di luce artificiale, TV, tablet e smartphone, adulti e bambini tendono a fare le ore piccole, ma con il ritardo dell’ora di andare a letto aumenta la tendenza agli spuntini. Un recente studio mette in guardia contro questo tipo di eccessi, suggerendo invece che confinare il consumo calorico ad un periodo di 8-12 ore come facevano i nostri nonni un secolo fa potrebbe aiutare a combattere colesterolo, diabete ed obesità. Insomma, non è soltanto quel che mangiamo ad influenzare la nostra salute, ma anche il momento in cui lo facciamo. Lo studio in questione, condotto sui ratti, ha dimostrato che la restrizione temporale dell’alimentazione ha un effetto più profondo di quanto pensato in precedenza, e può addirittura invertire obesità e diabete. I ratti non obesi, peraltro, pur mantenendo una dieta normale, non sono dimagriti, ma hanno modificato la propria composizione corporea, aumentando la massa magra a scapito di quella grassa. L’analisi di questi ratti ha dimostrato che molteplici cascate molecolari che vengono sconvolte nelle malattie metaboliche vengono ripristinate con la restrizione temporale della dieta. Questa potrebbe rappresentare un’opzione accattivante per le persone che non hanno accesso ad una dieta sana, rappresentando un’alternativa almeno parziale a quest’ultima. (Cell Metab 2014; 20:991)

Latte non vaccino e vitamina D


I prodotti sostitutivi del latte potrebbero non fornire abbastanza vitamina D ai bambini. La conclusione deriva da una ricerca nordamericana, che ha valutato i livelli di 25-idrossivitamina D in bambini di età prescolare, di 1-6 anni di età, che consumavano latte vaccino o sostituti del latte. Nel Canada e negli Stati Uniti il latte vaccino deve avere un livello minimo di vitamina D, mentre non c'è alcuna richiesta per le altre bevande, come il latte di soia, riso, mandorla, cocco, avena o per il latte di capra. Nello studio pubblicato sul Canadian Medical Association Journal sono stati inclusi 2831 bambini.
Il livello di 25-idrossivitamina D era inferiore a 50 nmol/L nel 11% dei bambini che consumavano esclusivamente i prodotti sostitutivi e nel 4,7 % dei bambini che bevevano solo latte vaccino. 
Il consumo dei prodotti sostitutivi del latte era associato a una diminuzione di 25-idrossivitamina D pari a 4.2-nmol/L per ogni tazza di 250-mL di latte consumato dai bambini che consumavano anche latte vaccino. 
I bambini che bevevano solo sostituti del latte avevano un rischio maggiore di avere livelli di 25-idrossivitamina D inferiori a 50 nmol/L rispetto ai bambini che consumavano solo latte vaccino.

Fonte:
"Consumption of non–cow’s milk beverages and serum vitamin D levels in early childhood." Lee, Grace J., et al. Canadian Medical Association Journal 186.17 (2014): 1287-1293.

Obesità infantile, conta anche l'atmosfera attorno alla tavola


Per diminuire il sovrappeso o l'obesità dei bambini potrebbe essere importante lavorare con le famiglie, allo scopo di migliorare la dinamica a livello familiare e quella legata al cibo durante i pasti consumati in famiglia.
La recente letteratura scientifica suggerisce che consumare i pasti in famiglia potrebbe essere associato a una serie di benefici per la salute per i bambini. Tuttavia, non è chiara l'associazione con l'obesità. Questa considerazione porta a chiedersi quali siano le caratteristiche specifiche dei pasti in famiglia che hanno un effetto protettivo sull'obesità infantile. Questo studio ha esaminato le associazioni tra le dinamiche familiari e interpersonali legate all'alimentazione durante i pasti consumati in famiglia e lo stato di obesità infantile.
Lo studio ha incluso 120 bambini (47% bambine; età media: 9 anni) e genitori (92% donne; età media: 35 anni) provenienti da comunità a basso reddito e di minoranze. 
Le famiglie hanno partecipato a uno studio osservazionale diretto di 8 giorni in cui i pasti consumati a casa in famiglia sono stati videoregistrati. 
Sono state descritte le caratteristiche del pasto in famiglia (ad esempio, la lunghezza del pasto, i tipi di alimenti serviti) e le dinamiche a livello familiare e quelle legate all'alimentazione (ad esempio, il controllo sugli alimenti da parte dei genitori) durante i pasti in famiglia. È stato anche verificato il peso del bambino.
I ricercatori hanno trovato associazioni significative tra le dinamiche positive a livello familiare e genitoriale durante i pasti in famiglia e un rischio ridotto di sovrappeso infantile. Associazioni significative sono state trovate anche riguardo alla riduzione del rischio di obesità infantile.
La ricerca è stata pubblicata su Pediatrics.

Fonte:
"Childhood Obesity and Interpersonal Dynamics During Family Meals." Berge, Jerica M., et al. Pediatrics (2014): peds-2014.

martedì 25 novembre 2014

Gli integratori alimentari aumentano le lesioni al fegato


Gli integratori alimentari dietetici o a base di erbe usati dai cultori del body building o dalle donne di mezza età per cercare di perdere peso sono diventati una causa sempre più importante di lesioni al fegato. Ad affermarlo uno studio pubblicato su Hepatology (Wiley press release) coordinato da Victor J. Navarro, dell’Einstein Medical Center di Philadelphia (Usa).

Lo studio è stato condotto per un periodo di dieci anni (tra il 2004 e il 2013) su 839 pazienti con danno epatico indotto da integratori o farmaci convenzionali. È emerso che 45 casi erano dovuti a supplementi per culturisti, 85 ad altri integratori (multivitaminici, supplementi di calcio od omega-3) e 709 da farmaci. Le lesioni epatiche più gravi (decessi o trapianti di fegato) sono causate dagli integratori a base di erbe solitamente assunti per perdere peso o disintossicarsi, oppure prodotti energizzanti o multivitaminici.

“Molti americani credono che gli integratori siano sicuri e i regolamenti governativi richiedono meno prove di sicurezza ai prodotti in vendita sul mercato rispetto a quelle richieste ai farmaci“, afferma Victor Navarro – primo autore dello studio. “In realtà, essendo sottoposti a controlli meno rigidi, questi integratori hanno potenzialmente conseguenze più pericolose, tali addirittura da mettere a repentaglio la vita“.



"Liver injury from herbals and dietary supplements in the U.S. Drug-Induced Liver Injury Network",
Victor J. Navarro, Huiman Barnhart, Herbert L. Bonkovsky, Timothy Davern, Robert J. Fontana, Lafaine Grant, K. Rajender Reddy, Leonard B. Seeff, Jose Serrano, Averell H. Sherker, Andrew Stolz, Jayant Talwalkar, Maricruz Vega and Raj Vuppalanchi
Hepatology Article first published online: 25 AUG 2014 | DOI: 10.1002/hep.27317

venerdì 7 novembre 2014

Sensibilizzazione cutanea e allergie alimentari

Secondo uno studio pubblicato su JCI, una particolare sensibilizzazione della pelle con un allergene (la proteina) di un alimento potrebbe promuovere lo sviluppo di allergia al cibo contenente lo stesso allergene. Lo studio, su animali, mostra che l'allergia alimentare non viene sviluppata nel caso in cui non ci sia stata una previa esposizione cutanea all’antigene.

La dermatite atopica (AD – malattia della cute che rientra nelle forme allergiche) e l’allergia ad alimenti sono strettamente collegate; tuttavia, attualmente non sono ancora ben noti i meccanismi che conducono l’evoluzione di questa dermatite verso lo sviluppo di una risposta allergica infiammatoria anche in altre mucose, comprese quelle del tratto intestinale. Oggi, uno studio scientifico pubblicato su the Journal of Clinical Investigations individua un potenziale meccanismo che collega la sensibilizzazione cutanea con l’infiammazione gastrointestinale e l’allergia alimentare: la ricerca, condotta su animali, mostra come un certo tipo di sensibilizzazione cutanea, effettuata ponendo l’allergene (proteina) a contatto con la pelle infiammata, potrebbe promuovere lo sviluppo di reazioni di tipo gastrointestinale e allergico. Lo studio, su modello murino, è stato condotto da un gruppo di ricercatori del Benaroya Research Institute, a Seattle, negli Stati Uniti.

L’allergia alimentare è un problema di salute, diffuso all’interno della popolazione (circa l’8% delle persone ne sono colpite), che può assumere diverse manifestazioni, tra cui anche asma, dermatite atopica, esofagite eosinofila e anafilassi, ovvero l’ipersensibilità ad un antigene che può comprendere forme gravi come lo shock anafilattico.

venerdì 24 ottobre 2014

L' olio extravergine d'oliva previene il cancro del colon.


È il risultato di uno studio condotto dall’Università Campus Bio-Medico di Roma e dall’Università degli Studi di Teramo, in collaborazione con l’Università degli Studi di Camerino e con il Karolinska Institute di Stoccolma. La ricerca mostra come l’olio extravergine di oliva sia in grado di aumentare l’espressione del gene oncosoppressore CNR1.

Che l’olio extravergine d’oliva fosse un alimento importante per ridurre l'incidenza di numerose neoplasie era stato suggerito, negli ultimi anni, da varie ricerche sperimentali. Non erano però ancora chiari i meccanismi alla base di quest’azione ‘benefica’ dell’antico derivato della spremitura di olive, protagonista della dieta dei popoli mediterranei da più di 60 secoli.

Uno studio condotto da Mauro Maccarrone, docente di Biochimica presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma, e da Claudio D’Addario, ricercatore in Biologia Molecolare presso l’Università degli Studi di Teramo, ha rivelato ora, su basi scientificamente fondate, il meccanismo grazie al quale il cosiddetto ‘oro giallo' riduce il rischio di sviluppare il cancro del colon. La ricerca, appena pubblicata sulla rivista internazionale Journal of Nutritional Biochemistry, mostra come l’olio extravergine di oliva sia in grado di aumentare l’espressione del gene oncosoppressore CNR1. Quest’ultimo, a sua volta, esprime un recettore molto importante per la salute del nostro organismo, perché è in grado di regolare i meccanismi all'origine delle alterazioni dei geni sensibili ai fattori ambientali, come la dieta.

Latte. L'evoluzione ci ha portato a tollerarlo.

Facciamo un po' di chiarezza.
Fino a 5000 anni dopo l’adozione delle pratiche agricole e 4000 anni dopo la diffusione di prodotti caseari, le popolazioni europee rimangono intolleranti al lattosio: il risultato proviene dall’analisi del DNA estratto da campioni ossei risalenti ad un’epoca compresa tra il 5700 a.C. e l’800 a.C. Lo studio su Nature Communications


La tolleranza al lattosio, zucchero contenuto nel latte dei mammiferi, è una condizione, frutto dell’evoluzione umana, ottenuta in epoche relativamente recenti: uno studio dello University College Dublin, infatti, rivela che gli antichi europei rimanevano intolleranti al lattosio fino a 5000 anni dopo l’adozione di pratiche agricole e fino a 4000 anni dopo l’introduzione di prodotti caseari da parte degli antichi allevatori.

Si ricorda che l’intolleranza al lattosio è una condizione verso la quale tuttora una congrua fetta della popolazione mostra una predisposizione, secondo studi anche recenti. Questo non significa che il latte sia da condannare o sia tossico, significa semplicemente che chi si è evoluto per poter tollerare il latte lo potrà consumare tranquillamente mentre chi ha conservato l'intolleranza originaria farebbe bene ad evitarlo.

Bibliografia "Genome flux and stasis in a five millennium transect of European prehistory".
Cristina Gamba et al., 2014.

mercoledì 15 ottobre 2014

Tolleranza al fruttosio, non è per tutti.

Nell’uomo, l’ormone FGF21 sembra essere stimolato dall’ingestione di fruttosio e, dunque, tale ormone potrebbe rappresentare un fattore predittivo attendibile per un test di tolleranza al fruttosio. Con implicazioni per lo studio del metabolismo di questo zucchero semplice e del diabete di tipo 2. Ad affermarlo, oggi, è uno studio di ricercatori del BIDMC, pubblicato su Molecular Metabolism

Il fruttosio, monosaccaride e zucchero semplice noto anche come zucchero della frutta, in alcuni specifici casi (come il consumo eccessivo) può avere effetti negativi sulla salute, specialmente in relazione al rischio di diabete e malattie cardiovascolari. Oggi, un gruppo di scienziati, studiando il metabolismo del fruttosio, ha scoperto che l’ormone FGF21 (Fibroblast Growth Factor 21 (FGF21) sembra essere stimolato dall’ingestione di questo monosaccaride: dunque, tale ormone potrebbe rappresentare un fattore predittivo attendibile per un test di tolleranza al fruttosio.

Lo studio, appena pubblicato su Molecular Metabolism, è stato condotto dai ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center (BIDMC) insieme ad altri Istituti.

Dopo dieci anni di studi sul FGF21, Maratos-Flierha osservato che, sia negli uomini che negli animali, elevati livelli di fruttosio risultavano associati con obesità, insulino-resistenza e ‘fegato grasso non alcolico’. In particolare, la ricerca odierna evidenzia che i livelli nel sangue dell’ormone in questione aumentano rapidamente e in maniera netta e notevole dopo l’ingestione di fruttosio. Nella ricerca, Mark Herman, MD, of the Division of Endocrinology, Diabetes and Metabolism at BIDMC e Assistant Professor of Medicine alla Harvard Medical School (HMS), ha rivolto la sua attenzione ad un fattore cellulare, chiamato Carbohydrate Responsive-Element Binding Protein (ChREBP), che ‘rileva’ gli zuccheri semplici e risponde attraverso l’attivazione di ‘programmi’ di espressione genica cellulare. L’osservazione che il fruttosio attiva potenzialmente il ChREBP nel fegato dei roditori e che il ChREBP può regolare l’espressione dell’ormone sotto studio, FGF21, ha suggerito a Maratos-Flier e Herman l’ipotesi che l’ingestione di fruttosio possa stimolare la produzione dell’ormone circolante anche nell’uomo.

Per indagare questa ipotesi, i ricercatori, guidati dal primo autore Jody Dushay, MD, HMS Instructor in Medicine, hanno preso in considerazione 10 soggetti in salute e dalla corporatura magra. In primo luogo, hanno testato l’effetto del glucosio sull’FGF21 dando da bere ai volontari 75 grammi di glucosio e misurando nel corso di cinque ore i livelli nel sangue. Il risultato è che nell’immediato non si è osservata un’alterazione dei livelli dell’ormone, se non una modesta variazione a distanza di tre o quattro ore dall’ingestione. Al contrario, dopo aver ripetuto l’operazione con il fruttosio, i ricercatori hanno osservato un significativo aumento dell’ormone, in media del 400%.
“Ciò ci dice che il fruttosio controlla in maniera attiva il FGF21 negli esseri umani", ha affermato Maratos-Flier, suggerendo che l’FGF21 potrebbe svolgere un ruolo finora ‘imprevisto’ nella regolazione del metabolismo del fruttosio. Maratos-Flier aggiunge che i risultati dimostrano che la risposta FGF21 risultava in eccesso nei soggetti con malattie metaboliche, suggerendo che qualche elemento del metabolismo del fruttosio possa cambiare nello sviluppo della sindrome metabolica e/o che ci siano differenze innate tra le persone e che quelle con una più alta risposta dell’ormone sotto studio siano predisposte allo sviluppo della malattia.

“Questo studio fornisce una osservazione di base per un’ulteriore indagine sui determinanti genetici e ambientali della risposta metabolica individuale al fruttosio”, aggiunge Herman, “e questo tipo di conoscenza potrà essere essenziale per sviluppare raccomandazioni dietetiche personalizzate oltre che strategie farmacologiche per prevenire e curare le malattie cardiometabolico”.

martedì 14 ottobre 2014

Una nuova classe di grassi ‘buoni’.


Si chiamano 'Fahfa' e rappresentano una nuova classe di lipidi ‘buoni’ come gli omega-3. A differenza degli omega-3, però, i Fahfa vengono prodotti all'interno del corpo: così in teoria si potrebbe modularne il livello nell’organismo umano.

Un gruppo di ricercatori statunitensi ha identificato una nuova classe di molecole lipidiche, finora ‘sconosciute’, che potrebbero aumentare la sensibilità insulinica e il controllo dello zucchero nel sangue, aprendo nuove prospettive di ricerca per trattare il diabete di tipo 2. Lo studio*, pubblicato su Cell, è stato realizzato da un team di scienziati del Beth Israel Deaconess Medical Center (Bidmc) e del Salk Institute. I nuovi grassi, individuati su modello animale, si chiamano Fahfa (acid-hydroxyl fatty acids) e si trovano nelle cellule di grasso ed in altre cellule del corpo.

Queste molecole sono ‘buone’ come quelle di omega-3 contenute ad esempio nel pesce, ma al contrario degli omega-3, che non vengono prodotti dai mammiferi, i Fahfa vengono invece generati e scomposti all’interno dell’organismo umano.
“Questa importante caratteristica conferisce ai Fafha un vantaggio in termini di sviluppo terapeutico, perché potremmo essere in grado di modificare il tasso di produzione e la ripartizione in tutto il corpo”, osserva Barbara Kahn, senior author e Vice Presidente del Dipartimento di Medicina presso il Bidmc. “Dato che siamo in grado di misurare i livelli di Fahfa nel sangue, basse concentrazioni possono rivelarsi un indicatore precoce del rischio di sviluppare diabete di tipo 2. Di conseguenza, se il ripristino dei livelli Fahfa negli individui con insulino-resistenza rivela effetti terapeutici, a livello potenziale potremmo essere in grado di intervenire prima dello sviluppo del diabete”.

"Sulla base della loro biologia, possiamo aggiungere i Fahfa alla ristretta lista dei lipidi con effetti benefici”, ha affermato il co-autore senior Alan Saghatelian, PhD, Professore al the Clayton Foundation Laboratories for Peptide Biology al Salk Institute a La Jolla, in California. “Questi lipidi sono sorprendenti, perché possono anche ridurre l'infiammazione, suggerendo che potremmo scoprire le opportunità di queste molecole in malattie infiammatorie, come il morbo di Crohn e l'artrite reumatoide, oltre che al diabete”.

Depressione prima causa al mondo di disabilità. Dipendenze comportamentali nuova minaccia


Circa 350 milioni di persone soffrono di depressione e in generale i problemi di salute mentale sono in cima alla lista di tutte le malattie, secondo i dati dell’Oms. Emergenti sono le dipendenze comportamentali, come spiega il Professor Janiri (Cattolica)

Una persona su quattro almeno una volta durante la propria vita ha avuto esperienza di un problema legato alla salute mentale. Inoltre, fin dalla metà degli anni ’90 l’Oms ha stabilmente collocato i problemi di salute mentale in cima alla lista delle malattie; la depressione è la prima causa di disabilità al mondo, colpendo globalmente circa 350 milioni di persone. Oltre alla depressione, tra le problematiche più diffuse, ansia, stress, disadattamento, bipolarità dell’umore ed uso di sostanze; mentre, tra i disturbi ‘emergenti’, quelli del comportamento alimentare, le dipendenze patologiche e i disturbi da stress post-traumatico. Tutte queste patologie sono fonte di disagio familiare, sociale e in particolare possono colpire la sfera lavorativa.

mercoledì 8 ottobre 2014

I figli sono obesi, ma i genitori non lo vedono

Rispetto a dieci anni fa, i bambini in sovrappeso oppure obesi degli Stati Uniti hanno ancora meno probabilità di essere percepiti come tali dai propri genitori. La maggiore difficoltà dei genitori a percepire i figli in sovrappeso in modo appropriato può indicare un cambiamento generazionale nelle norme sociali legate al peso corporeo, scrive uno studio pubblicato su Pediatrics. Occorre infatti ricordare che molti genitori tendono a paragonare il peso dei loro figli a quello di amici e compagni, e che non hanno a disposizione strumenti come le tabelle di crescita.
Lo studio voleva valutare la percezione dei genitori del peso del bambino, poiché questa percezione può influenzare la disponibilità della famiglia a promuovere comportamenti sani.
I dati sono stati raccolti nel corso di due studi, il NHANES 1988-1994 (n = 2871) e quello 2005-2010 (n = 3202). Ai genitori, soprattutto alle madri, è stato chiesto se giudicavano i figli, dai 6 agli 11 anni di età, in sovrappeso, sottopeso, o normopeso. Come riferimento sono stati utilizzati i grafici di crescita 2000 del Centers for Disease Control and Prevention.
La probabilità dei bambini in sovrappeso, oppure obesi, di essere percepiti correttamente con un peso eccessivo dai genitori è diminuito del 24% tra le due indagini (rapporto di probabilità = 0,76).
Il maggior incremento nei giudizi di peso normale rispetto a bambini con peso eccessivo avveniva nelle famiglie in situazione di disagio economico.

Fonte: Generational shift in parental perceptions of overweight among school-aged children. Hansen AR, Duncan DT, Tarasenko YN, Yan F, Zhang J. Pediatrics. 2014 Sep;134(3):481-8. doi: 10.1542/peds.2014-0012.

Supplementazione di ferro in gravidanza


La supplementazione di ferro aiuta le donne con flussi mestruali abbondanti

I medici dovrebbero attivamente prescrivere gli esami biochimici per evidenziare l’anemia sideropenica nelle donne con flussi mestruali abbondanti; inoltre, dovrebbero enfatizzare la supplementazione precoce di ferro come parte del trattamento. È quanto emerge da uno studio finlandese pubblicato sulla rivista Acta Obstetricia et Gynecologica Scandinavica. La ricerca ha scoperto che correggere l'anemia delle donne con il ferro porta a un miglioramento della qualità della vita correlata alla salute (HRQoL).Lo studio voleva valutare l'impatto sulla qualità della vita dell'anemia e della mancanza di ferro nelle donne trattate per flussi mestruali abbondanti. A questo scopo sono stati analizzati i dati di una sperimentazione controllata randomizzata, condotta in cinque ospedali della Finlandia, per un totale di 236 donne.
Le donne sono state assegnate in modo casuale al trattamento di isterectomia o con un sistema intrauterino di rilascio di levonorgestrel.
Le donne sono state divise in base ai valori di emoglobina pretrattamento [emoglobina <120 g / L (anemiche) vs emoglobina ≥120 g / L (non anemiche)] e alle concentrazioni di ferritina sierica (ferritina <15 μg/L vs. ≥15 μg/L). L'HRQoL è stata confrontata tra i gruppi all'inizio dello studio, e a 6 e 12 mesi dopo il trattamento. I valori di emoglobina e ferritina sono stati registrati per 5 anni.
La qualità della vita HRQoL è stata misurata con alcuni questionari.
All'inizio dello studio, 63 donne (27%) erano anemiche e 140 (60%) erano gravemente carenti di ferro (ferritina <15 μg / L). Solo l'8% delle donne anemiche aveva ricevuto una supplementazione di ferro.
Dodici mesi dopo il trattamento, i livelli di emoglobina sono aumentati in tutti i gruppi, ma erano ancora significativamente più bassi nelle donne inizialmente anemiche (128 g / L) rispetto alle donne non anemiche (136 g / L). Dodici mesi dopo il trattamento il questionario mostrava un miglioramento della qualità della vita , per energia, funzionamento fisico, sociale, depressione e ansia, più pronunciato nel gruppo delle donne anemiche rispetto all'altro gruppo. La ferritina sierica ha impiegato 5 anni per raggiungere i livelli normali.

Fonte: Effects of anemia and iron deficiency on quality of life in women with heavy menstrual bleeding.Peuranpää P, Heliövaara-Peippo S, Fraser I, Paavonen J, Hurskainen R. Acta Obstet Gynecol Scand. 2014 Jul;93(7):654-60. doi: 10.1111/aogs.12394. Epub 2014 Jun 9.

giovedì 4 settembre 2014

Bere tè allunga la vita

Uno studio francese condotto su 131 mila persone dimostra che i consumatori di tè presentano una riduzione della mortalità non cardiovascolare del 24%; il consumo di caffè avrebbe invece un effetto neutro sulla mortalità per cause cardiache e non.


03 SET - “Dovendo scegliere se bere un tè o un caffè – sostiene Nicolas Danchin, cardiologo dell’Hôpital européenGeorges-Pompidoudi Parigi-probabilmente è meglio orientarsi sul primo. Entrambi le bevande occupano un posto importante nella nostra vita e i loro effetti sull’apparato cardiovascolare sono stati ampiamente indagati, anche se le ricerche hanno prodotto risultati contrastanti. Per questo abbiamo deciso di studiare gli effetti del consumo di tè e caffè sulla mortalità cardiaca e non, in una vasta popolazione francese a basso rischio di malattie cardiovascolari”.

Gli oltre 131 mila partecipanti, di età compresa tra i 18 e i 95 anni, sono stati arruolati presso l’IPC Preventive Medicine Center di Parigi, tra il 2001 e il 2008; ilfollow up medio per ciascuno è stato di 3,5 anni. Il consumo di caffè, stabilito mediante questionari, veniva classificato come ‘assente’, ‘da 1 a 4’ o ‘più di 4’ tazze al giorno. In generale, gli uomini tendono a bere più caffè le donne amano di più il tè.
I consumatori di caffè presentavano un profilo di rischio cardiovascolare peggiore dei non bevitori di caffè, in quanto più spesso fumatori: a fumare erano il 17% dei non bevitori di caffè, il 31% di quelli che ne consumavano da 1 a 4 tazze al giorno e il 57% dei forti consumatori (oltre 4 tazze al giorno). I consumatori di caffè erano inoltre un po’ meno attivi fisicamente rispetto ai non estimatori della bevanda scura: solo il 41% riferivano un discreto livello di attività fisica, rispetto al 45% dell’altro gruppo.

I forti consumatori di tè, presentavano un profilo di rischio, opposto rispetto ai grandi bevitori di caffè: il 34% dei non bevitori di tè erano fumatori, rispetto al 24% di chi beveva 1-4 tazze di tè al giorno e al 29% di chi ne beveva più di 4 tazze.
Il forte consumo di tè correlava anche con una riduzione dei valori pressori; rispetto ai non bevitori di tè, nei forti consumatori la sistolica era più bassa di 4-5 mmHg e la diastolica di 3 mmHg

In questo periodo si sono verificati 95 decessi per cause cardiovascolari e 632 per cause non cardiovascolari. Il consumo di caffè non risultava statisticamente correlato ad un aumento della mortalità cardiovascolare o non cardiovascolare, ma non presentava neppure particolari benefici. Tra i consumatori di tè è stato registrato invece un trend in diminuzione per la mortalità cardiovascolare, che sfiorava la significatività statistica; notevole invece l’impatto del consumo di tè sulla mortalità per cause non cardiovascolari, che risultava ridotta del 24%. Curiosamente, a godere di più dei benefici del tè sembrano essere gli ex fumatori o quelli ancora in attività. Estendendo l’analisi al 2011, per un totale di sei anni di follow-up, questo dato risultava confermato.

“Il tè contiene anti-ossidanti – conclude Danchin – che possono risultare benefici; certo, i consumatori di tè seguono inoltre anche uno stile di vita più salutare e anche questo ha il suo peso. Ma ritengo che sia comunque legittimo raccomandare di bere tè, anziché il caffè”.

Maria Rita Montebelli

martedì 2 settembre 2014

La luce che cancella i brutti ricordi


Potrebbe rendersi utile nella terapia delle dipendenze...da cibo

Un elegante esperimento condotto su topini di laboratorio rivela l’area cerebrale deputata a rivestire di emozioni i ricordi e svela come l’esposizione ad una luce particolare possa riscrivere i sentimenti, associati ad una determinata memoria.


30 AGO - Si chiama optogenetica ed è una metodica che combina tecniche ottiche e genetiche, sfruttando la luce per manipolare l’attività dei neuroni. Un gruppo di scienziati del Massachusetts Institute of Technology (MIT) l’ha utilizzata per ‘riscrivere’ i ricordi , o meglio per cancellare e modificare le emozioni collegate ad un ricordo specifico. L’esperimento di manipolazione della memoria emotiva, condotto su topini di laboratorio, è descritto da Susumu Tonegawa e colleghi del RIKEN–MIT Center for Neural Circuit Genetics e del Howard Hughes Medical Institute presso il Massachusetts Institute of Technology (USA), in un elegante lavoro pubblicato su Nature.

Ai ricordi, inevitabilmente restano attaccate emozioni, belle o brutte, che possono modificarsi nel corso del tempo anche se il contenuto del ricordo di per sé rimane intatto. Un dessert al cioccolato mangiato durante una cena romantica, può rivestirsi di ricordi piacevoli e gratificante finché dura la relazione e ammantarsi di emozioni spiacevoli alla rottura della stessa. “La valenza emotiva della memoria è malleabile – spiegano gli autori del lavoro - in virtù della loro proprietà ricostruttiva intrinseca e questo viene sfruttato in clinica per trattare i comportamenti disadattivo”. Non è ancora del tutto chiaro tuttavia in quale zona del cervello i ricordi si ammantino di emozioni, anche se è noto che le memorie vengono immagazzinate in zone diverse del cervello.

I ricercatori del MIT hanno preso in esame il complesso baso-laterale dell’amigdala, ritenuta l’area deputata al conferimento di un’emozione negativa o positiva ai ricordi e il giro dentato dell’ippocampo, un magazzino della memoria, in un gruppo di topini per studiare l’attivazione delle cellule di queste aree durante la formazione di un ricordo.
Ai topi maschi veniva fornita un’emozione negativa (causata da una piccola scossa elettrica) o positiva (la possibilità di interagire con una topina), portando così l’animale a preferire o ad evitare una certa localizzazione nel momento in cui la memoria veniva riattivata optogeneticamente.

Successivamente, per cancellare l’emozione negativa o positiva, associata ad un certo gruppo di neuroni, i topini venivano condizionati con l’esperienza emotiva opposta, mentre i neuroni della memoria erano attivati in modo artificiale con la luce. I ricercatori hanno così dimostrato che i circuiti neurali del giro dentato vengono attivati nel corso dei tentativi di modificare le emozioni associate ad un certo ricordo e questo porta ad alterare le tracce mnesiche nel giro dentato e nell’amigdala, che possono essere ricondizionate e riscritte, dando così luogo a nuove associazioni ricordo-emozioni.

Maria Rita Montebelli

Alzheimer. L'azione anti-infiammatoria del melograno come strategia nutrizionale preventiva


Neuroscienze e Nutrizione: melograno contro l'Alzheimer.

La punicalgina, un polifenolo contenuto nel succo di melograno, ha una potente azione anti-infiammatoria e potrebbe trovare impiego come strategia nutrizionale preventiva nei disordini neurodegenerativi. I risultati della ricerca in un lavoro appena pubblicato su Molecular Nutrition & Food Research.


26 AGO - Si chiama punicalagina ed è un polifenolo del melograno che potrebbe trovare posto un giorno nell’armamentario terapeutico del morbo di Alzheimer. E non solo. La scoperta di Olumayokun Olajide, uno scienziato di origini nigeriane dell’Università di Huddersfield (UK), che dedica la sua vita allo studio delle proprietà anti-infiammatorie di prodotti naturali, è stata appena pubblicata su Molecular Nutrition & Food Research.
La punicalagina, secondo Olajide, potrebbe rallentare la progressione del morbo di Alzheimer, attenuando i sintomi legati alla neuro-infiammazione; ma potrebbe essere utile anche nel trattamento della sintomatologia dolorosa dell’artrite reumatoide e di altre patologie infiammatorie e neurodegenerative. Sono i risultati preliminari ottenuti dopo due anni di sperimentazione, che rappresentano la base per una nuova fase di ricerca, volta ad esplorare la possibilità di rallentare lo sviluppo di demenze tipo Alzheimer attraverso la somministrazione di questo polifenolo.

La punicalgina, secondo gli sperimentatori inglesi, è in grado di inibire la risposta infiammatoria della microglia (i macrofagi residenti nel sistema nervoso centrale), responsabile a sua volta della distruzione di gruppi di neuroni che determina il peggioramento delle condizioni dei pazienti con Alzheimer. L’antiossidante del melograno non viene presentato come una possibile cura per questa condizione ma, secondo i ricercatori inglesi, potrebbe comunque riuscire a rallentare la progressione della malattia.

Per la ricerca, condotta in collaborazione tra il dipartimento di Farmacologia dell’Università di Huddersfield e l’Università di Friburgo (Germania) sono state utilizzate cellule nervose isolate di ratto sulle quali è stata sperimentata l’azione della punicalagina. In coltura cellulare, il polifenolo estratto dal melograno ha inibito la produzione di TNF-alfa, IL-6 e prostaglandina E2.
Il pretrattamento della microglia di ratto con punicalgina, prima dell’esposizione a stimolo con lipopolisaccaride (LPS), un potente trigger infiammatorio, ha determinato una significativa inibizione della produzione di TNF-alfa, IL-6 e prostaglandina E2. Anche la produzione di cicclo-ossigenasi-2 e della prostastaglandina E sintetasi 1 microsomiale sono risultate ridotte dal pretrattamento con punicalgina. La punicalgina infine interferisce anche con il signalling dell’NF-kB.

Questi risultati, secondo i ricercatori inglesi, dimostrano che la punicalgina è in grado di inibire la neuro-infiammazione a livello della microglia, attivata da LPS, andando ad interferire con il segnale NF-kB; questo ne suggerisce un possibile impiego come strategia di nutrizione preventiva nei disordini neurodegenerativi.

“E’ noto che il consumo regolare di melograno – ricorda Olajide - fa bene alla salute da tanti punti di vista, compreso quello di prevenire la neuro-infiammazione correlata alla demenza. Per questo è consigliabile consumare succo di melograno puro che ha una concentrazione di punicalagina del 3,4%”.
Gli scienziati di Huddersfield hanno annunciato che cercheranno di mettere a punto dei derivati della punicalagina, somministrabili sotto forma di compresse.

Maria Rita Montebelli

lunedì 11 agosto 2014

Grassi saturi: non tutti sono da evitare?

I risultati dello studio EPIC-InterAct suggeriscono che alcuni acidi grassi saturi, in particolare quelli contenuti nei latticini, potrebbero non solo non essere pericolosi, ma addirittura proteggere dall’insorgenza del diabete. I diabetologi italiani invitano tuttavia a prendere questi risultati con molta prudenza.

08 AGO - Il solo termine ‘grassi saturi’ evoca scenari di danni per la salute, senza appello. I consigli dietetici attuali prevedono che la quantità di acidi grassi presenti in una dieta equilibrata non dovrebbe superare la soglia del 10% o addirittura del 7% dell’apporto calorico giornaliero totale. E questo per il bene della salute cardiovascolare, ma anche per prevenire la comparsa di diabete di tipo 2. Al momento tuttavia non sono molte le evidenze che confermino il ruolo causale degli acidi grassi saturi (SFA) nella comparsa di diabete di tipo 2 e addirittura, il Women’s Health Initiative Diet Modification Trialnon è riuscito a dimostrare che contenere l’apporto di SFA serva effettivamente a ridurre l’incidenza di diabete. Per contro, sono sempre più numerosi gli studi che suggeriscono che il consumo di latticini, tipicamente ricchi di SFA, potrebbe avere un effetto protettivo contro l’insorgenza di diabete. E questo ha sollevato dubbi in merito al fatto che tutti gli acidi grassi saturi siano effettivamente dannosi per la salute.

Le evidenze circa l’associazione tra acidi grassi saturi (SFA) e diabete di tipo 2, come visto, sono discordanti. Per tale motivo i ricercatori dello studio EPIC-InterAct (allo studio hanno preso parte anche diversi centri italiani), appena pubblicato su <a href="\" _cke_saved_href="\" http:="" www.thelancet.com="" journals="" landia="" article="" piis2213-8587(14)70146-9="" abstract"="" target="\" _blank\""=""><em>Lancet Diabetes Endocrinology</em> </a>hanno cercato di individuare in maniera oggettiva, in uno studio longitudinale caso-coorte, il rapporto tra fosfolipidi degli SFA plasmatici e comparsa di nuovi casi di diabete di tipo 2. Lo studio ha preso in esame una coorte di oltre 12 mila persone con diabete di tipo 2 incidente e un gruppo di oltre 16 mila persone selezionate da una coorte di 340 mila cittadini europei (studio EPIC). Sono stati individuati i casi di diabete di nuova insorgenza, fino al 31 dicembre 2007 ed è stata valutata in questi soggetti e nei controlli la distribuzione degli acidi grassi nei fosfolipidi plasmatici mediante gascromatografia. I ricercatori hanno evidenziato che i diversi SFA dei fosfolipidi plasmatici risultavano associati alla comparsa di nuovi casi di diabete in modo contrastante, fatto che dimostra che non tutti i SFA sono uguali e dall’effetto univoco. Questo suggerisce l’importanza di non fare di tutta l’erba un fascio e di analizzare in modo accurato i vari sottotipi di acidi grassi. Secondo i ricercatori dell’EPIC è inoltre indispensabile approfondire le conoscenze in merito alle diverse fonti dei vari acidi grassi, di quelli della dieta, rispetto a quelli di produzione endogena. <br> Dallo studio in particolare, che ha analizzato separatamente nove diverse classi di acidi grassi saturi, emerge una correlazione tra incidenza di diabete di tipo 2 e acidi grassi saturi a numero di ‘pari’ di atomi di carbonio (es. 14:0, 16:0, 18:0); al contrario quelli con catena a numero ‘dispari’ (es. 15:0, 17:0), presenti soprattutto nel latte e derivati, e quelli a catena più lunga (es. 20:0, 22:0, 23:0, 24:0) sembrava avere un effetto protettivo sull’insorgenza di diabete. In altre parole, i vari acidi grassi hanno un diverso impatto metabolico. I grassi saturi presenti nei prodotti caseari, come già suggerito da recenti studi, potrebbero avere dunque un effetto protettivo contro il diabete, anche e gli autori ricordano che anche la presenza di calcio e vitamina D potrebbero spiegare questo effetto benefico. <br> <br> “Questo lavoro – commenta il professor <strong>Enzo Bonora</strong>, Presidente della Società Italiana di Diabetologia - sostiene la grande complessità che esiste nelle relazioni fra il modo in cui mangiamo e il modo in cui il metabolismo del singolo individuo modula l’impatto della nostra alimentazione sullo stato di salute. Il lavoro, come molti altri in letteratura, mostra segnali deboli e in parte contrastanti su relazioni fra specifici componenti della dieta (es. prodotti caseari) e rischio aumentato o ridotto di diabete. Da questo lavoro non possono essere distillati messaggi nutrizionali diversi da quelli già noti. Il principale di questi, in termine di prevenzione del diabete è semplicissimo: dobbiamo mangiare un po’ di meno e consumare un po’ di più facendo un po’ più movimento”. 

Maria Rita Montebelli

giovedì 7 agosto 2014

Neuroscienze e Nutrizione: Il gene dei golosi


Scoperta da un gruppo di ricercatori dell’Università di Cambridge, una mutazione del gene MC4R, responsabile del craving per i cibi ‘appetitosi’ come la cioccolata, che contribuisce a determinare una condizione di obesità anche in giovane età

06 AGO - Uno studio pubblicato in ‘early release’ su Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism (JCEM) ha dimostrato che la mutazione del gene per il recettore della melanocortina 4 (MC4R), presente in almeno l’1% delle persone affette da obesità ereditaria, inducendo una risposta ‘esagerata’ alla vista di cibi appetitosi, contribuirebbe a determinare un marcato aumento di peso, già in giovane età.
L’obesità, patologia che interessa ormai un adulto su tre, è una condizione derivante da un eccesso di assunzione di calorie, scarsa attività fisica e assetto genetico. È in particolare l’assunzione di cibi appetitosi e ricchi di calorie a determinare l’aumento di peso; il consumo di alcuni alimenti, come ad esempio la cioccolata, induce a livello cerebrale una risposta di gratificazione e marcata soddisfazione (reward), che può indurre a consumare questi cibi in maniera esagerata. I segnali di reward sono processati in aree cerebrali dove sono presenti neuroni dopaminergici e finora non era noto se queste aree specifiche funzionassero in maniera diversa in alcuni individui con sovrappeso o obesità.


Agatha van der Klaauwe colleghi del Wellcome Trust-MCR Institute of Metabolic Science presso l’Addenbrooke’s Hospital di Cambridge (UK) hanno messo a confronto tre gruppi di soggetti: 8 obesi con mutazione del gene MC4R, 10 individui obesi o in sovrappeso, senza mutazione del gene e 8 persone normopeso, sottoponendoli a risonanza magnetica funzionale (fMRI), per valutare il grado di attivazione dei centri cerebrali di reward alla vista di cibi appetitosi (es. torta al cioccolato), rispetto alla vista di cibi quali riso o broccoli o alla vista di oggetti (es. una cucitrice).
Ne è risultato che i soggetti portatori della mutazione MC4R e i normopeso, alla vista di cibi appetitosi, mostravano un’attivazione dei centri reward decisamente maggiore rispetto agli individui obesi/in sovrappeso senza la mutazione di MC4R.

“Per la prima volta – ha commentato la dottoressa der Klaauw – abbiamo dimostrato che il pathway del MC4R è coinvolto nelle risposte cerebrali di reward al cibo; approfondire lo studio di questo pathwaypotrebbe dunque portare ad individuare degli interventi mirati ad arginare il consumo esagerato di cibi altamente palatabili e ricchi di calorie, che portano all’aumento di peso”.

Maria Rita Montebelli

lunedì 4 agosto 2014

Neuroscienze e Nutrizione: Individuato il meccanismo con cui il cervello percepisce la sazietà.

Durante il pasto, il segnale di sazietà prodotto dall'intestino, dal lipide oleoiletanolamide, viene 'tradotto' da specifiche aree cerebrali che utilizzano l’istamina come neurotrasmettitore. Il meccanismo, come una sorta di 'interruttore' della fame, favorisce la cessazione dell'attività alimentare.

03 AGO - È stato identificato il meccanismo chiave con cui il nostro cervello traduce alcuni segnali periferici di sazietà: l’istamina attiva determinate aree cerebrali (ipotalamo), veicolando il segnale di sazietà prodotto dall'intestino durante il consumo del pasto da parte del lipide oleoiletanolamide. A scoprire come avviene questo processo - in particolare alcune modalità del collegamento tra l’istamina e il lipide - è l’Università di Firenze e l’Istituto di biologia cellulare e neurobiologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibcn-Cnr) di Roma, in collaborazione con il Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia della Sapienza Università di Roma. Lo studio* è stato pubblicato su PNAS(Proceedings of the National Academy of Sciences).

“Abbiamo scoperto”, spiega Maria Beatrice Passani, ricercatrice del Dipartimento di Neuroscienze, Area del Farmaco e Salute del Bambino (Neurofarba) dell’Ateneo fiorentino, “che il segnale di sazietà prodotto dall’intestino durante il consumo di un pasto da parte di un lipide, l’oleoiletanolamide (Oea), attiva aree specifiche del cervello che usano l’istamina come neurotrasmettitore, favorendo così la cessazione dell’attività alimentare”.

L’oleoiletanolamide è un composto lipidico rilasciato dagli enterociti, cellule nei villi intestinali, in risposta al consumo di grassi. Tale composto indirettamente segnala la sazietà ai nuclei ipotalamici, attivando fibre sensoriali del nervo vago che proiettano il segnale a livello centrale. L’istamina cerebrale viene rilasciata durante la fase dell’appetito, fornendo alti livelli di sollecitazione prima del pasto e media la sazietà. Essa funziona come un segnalatore di sazietà attivando il recettore dell'istamina H1 in specifici nuclei ipotalamici. Insomma, l'istamina potrebbe essere paragonata ad un 'segnalatore' della fame, che indica quando è cessato l'appetito.

“Le prove sperimentali raccolte in questo studio”, prosegue Roberto Coccurello dell’Ibcn-Cnr, al cui fianco hanno lavorato per lo stesso istituto Giacomo Giacovazzo e Anna Moles, “dimostrano per la prima volta che l’effetto anoressizzante di Oea viene drasticamente attenuato sia in animali privi della possibilità di sintetizzare istamina, sia in animali le cui riserve neuronali di istamina sono state temporaneamente inattivate attraverso la somministrazione diretta nel cervello di un agente inibitore. Grazie alla nostra ricerca siamo riusciti a individuare la natura dei neurotrasmettitori implicati e a comprendere i meccanismi attraverso cui determinate popolazioni di cellule nervose (neuroni) presenti nel cervello a livello dell’ipotalamo traducono l’informazione mediata da Oea sullo stato nutrizionale dell’organismo e sul corrispondente livello di sazietà. È stato identificato quindi nel sistema neurotrasmettitoriale dell’istamina una delle componenti fondamentali per veicolare il messaggio di sazietà generato da Oea a livello intestinale”.

“La conoscenza di questi meccanismi neuronali, che assolvono un ruolo essenziale nel comportamento alimentare, in quanto contribuiscono alla riduzione dell’appetito, offre nuove prospettive per sviluppare farmaci più efficaci e sicuri per il trattamento dell'obesità, che mirino a incrementare il rilascio di istamina nel cervello”, conclude Passani, al cui fianco hanno lavorato – nel team fiorentino - Gustavo Provensi, Hayato Umehara, Leonardo Munari, Nicoletta Galeotti e Patrizio Blandina.

Viola Rita

* G. Provensi et al., "Satiety factor oleoylethanolamide recruits the brain histaminergic system to inhibit food intake", Proceedings of the National Academy of Sciences, Luglio 2014, doi: 10.1073/pnas.1322016111

domenica 3 agosto 2014

Il mito appannato della prima colazione

La colazione, di qualunque tipo, si può considerare comunque il pasto più importante?

Forse la prima colazione non è così importante. Uno studio indica che il primo pasto della giornata porta benefici inferiori a quelli finora immaginati. Saltarla non porta all’aumento di peso, anche se “una prima colazione giornaliera regolare mantiene una risposta al glucosio più stabile nel pomeriggio e la sera”, scrivono i ricercatori sull’American Journal of Clinical Nutrition. Alcune persone pensano che la colazione sia il pasto più importante della giornata. Perciò, gli autori hanno condotto una sperimentazione randomizzata controllata, esaminando i nessi causali tra le abitudini riguardo alla colazione e tutte le componenti del bilancio energetico nelle persone, inserite nel loro contesto quotidiano. Il Bath Breakfast Project è una sperimentazione randomizzata controllata con misure ripetute all’inizio dello studio e al follow-up in una coorte di soggetti nel sud-ovest dell'Inghilterra tra i 21 e i 60 anni di età con quantità di massa grassa, misurata mediante la densitometria a raggi X, ≤ 11 kg/m2 nelle donne (n = 21) e ≤ 7,5 kg/m2 negli uomini (n = 12).Sono state misurate in condizioni ordinarie componenti del bilancio energetico (tasso metabolico a riposo, termogenesi dell'attività fisica, apporto di energia) e la risposta glicemica nelle 24 ore, con assegnazione casuale a una colazione giornaliera (≥ 700 kcal prima delle 11.00) oppure al digiuno prolungato (0 kcal fino alle 12.00) per 6 settimane.Contrariamente alla credenza popolare, non vi era alcun adattamento metabolico alla prima colazione (ad esempio, tasso metabolico a riposo stabile entro 11 kcal / die), con una limitata diminuzione dell’appetito (l’apporto energetico è rimasto 539 kcal / die maggiore che dopo il digiuno, 95% CI : 157, 920 kcal /die). Piuttosto, la termogenesi era nettamente superiore dopo la prima colazione che dopo il digiuno (442 kcal / die, 95% CI: 34, 851 kcal / die). Non c’erano differenze rispetto al peso corporeo e l’adiposità. La glicemia era più variabile durante il pomeriggio e la sera dopo il digiuno che dopo la colazione nell’ultima settimana dell'intervento (CV: 3,9%, IC 95%: 0,1%, 7,8%).In conclusione, la prima colazione quotidiana è causalmente legata alla maggiore termogenesi, con un maggiore apporto energetico globale, ma nessun cambiamento nel metabolismo a riposo. Gli indici di salute cardiovascolare non sono stati influenzati dal pasto, ma la colazione mantiene la glicemia più stabile durante il pomeriggio e la sera.Bisognerebbe verificare se tutte le colazioni danno lo stesso risultato. La colazione inglese, infatti, è solo un tipo di colazione (uova, bacon, pane e pomodori) assai diversa da quella italiana


Fonte: The causal role of breakfast in energy balance and health: a randomized controlled trial in lean adults. Betts JA, Richardson JD, Chowdhury EA, Holman GD, Tsintzas K, Thompson D. Am J Clin Nutr. 2014 Jun 4. pii: ajcn.083402.

Cancro e consumo di alimenti vegetali

Cosa c'è di vero?

Frutta, verdura, e alcune componenti degli alimenti vegetali, come la fibra, sono stati a lungo ritenuti una protezione contro il cancro. L’European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC) è uno studio prospettico di coorte che comprende più di 500.000 partecipanti provenienti da 10 paesi europei. Lo studio ha dato un contributo sostanziale alla conoscenza in questo campo di ricerca. Lo scopo di questo articolo è quello di riassumere i risultati pubblicati finora dallo studio EPIC sulle associazioni tra frutta, verdura, o il consumo di fibre e il rischio di cancro in 14 sedi diverse del corpo. Il rischio di cancro del tratto superiore dell'apparato digerente è risultato inversamente associato con l'assunzione di frutta, ma non c’è associazione con l'assunzione di verdura. Il rischio di cancro del colon-retto è risultato inversamente associato con l’apporto di frutta e verdura totale e l’apporto di fibra totale, mentre il rischio di cancro al fegato è inversamente associato con l'assunzione di fibra totale. Il rischio di cancro del polmone è risultato inversamente associato con l'assunzione di frutta, ma non è associato con l'apporto di verdura; l’associazione con l'apporto di frutta è stata limitata ai fumatori e potrebbe essere influenzata da un fattore confondente residuo dovuto al fumo. C'era una associazione inversa borderline tra assunzione di fibre e il rischio di cancro al seno. Per le altre 9 sedi tumorali studiate (stomaco, vie biliari, pancreas, cervice uterina, endometrio, prostata, rene, vescica e linfomi) non erano riportate associazioni significative di rischio con l’apporto di frutta totale, verdura, o fibra. Occorrerà sicuramente attendere altri risultati per chiarire il ruolo dei vegetali nelle patologie tumorali.


Fonte: Fruit, vegetable, and fiber intake in relation to cancer risk: findings from the European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC). Bradbury KE, Appleby PN, Key TJ. Am J Clin Nutr. 2014 Jun 11;100(Supplement 1):394S-398S.

giovedì 31 luglio 2014

Carboidrati e cancro al colon-retto


I ricercatori dell’University of Toronto hanno scoperto come i batteri della flora intestinale metabolizzano i carboidrati, provocando la proliferazione delle cellule intestinali e la formazione di tumori in topi geneticamente predisposti al cancro colon-retto.


I batteri intestinali che metabolizzano i carboidrati producono un acido grasso chiamato butirrato. Quando, livelli di butirrato nei topi trattati sono alti, è aumentata la proliferazione cellulare e il numero dei tumori intestinali.
I ricercatori hanno anche scoperto che gli antibiotici e una dieta povera di carboidrati riduce significativamente le probabilità dei topi di sviluppare questo tipo di tumore, suggerendo quindi che questi semplici interventi potrebbero aiutare a prevenire un tipo comune di cancro colonrettale negli essei umani.

“Poiche’ il cancro del colon-retto ereditario è associato con lo sviluppo di un tumore rapido e aggressivo, è fondamentale capire come i principali fattori ambientali, come i microbi e la dieta, interagiscono potenzialmente con i fattori genetici influenzando la progressione della malattia“, ha detto Alberto Martin, professore al Department of Immunology – University of Toronto, autore dello studio.

Bibliografia:
Gut Microbial Metabolism Drives Transformation of Msh2-Deficient Colon Epithelial CellsStephen E. Girardin, Thomas M.S. Wolever, Winfried Edelmann, David S. Guttman, Dana J. Philpott, Alberto Martin + al.

giovedì 3 luglio 2014

I limiti del resveratrolo

Il resveratrolo, un polifenolo che si trova nell'uva, nel vino rosso, nella cioccolata e in alcune bacche e radici, potrebbe non avere alcun effetto sulla mortalità. Non avrebbe neanche un impatto sul cancro e sulle malattie cardiache. È quanto emerge da una ricerca pubblicata sulla rivista JAMA Internal Medicine, basata sull'indagine Invecchiare in Chianti (InCHIANTI). Lo studio voleva stabilire se i livelli del resveratrolo, da fonte alimentare, fossero associati con l'infiammazione, il cancro, la malattia cardiovascolare e la mortalità. 
È stato utilizzato lo studio di coorte prospettico InCHIANTI, che si è tenuto tra il 1998 e il 2009 in due paesi del Chianti, coinvolgendo un campione di 783 uomini e donne con almeno 65 anni di età che vivevano in comunità. 
Sono stati studiati i metaboliti del resveratrolo nelle urine nell'arco delle 24 ore. È stata calcolata la mortalità per tutte le cause e i marker dell'infiammazione, ovvero il livello sierico di proteina C reattiva (CRP), interleuchina (IL)-6, (IL)-1β, e del fattore di necrosi tumorale (TNF), la prevalenza e l'incidenza del cancro e della malattia cardiovascolare. 
Nei nove anni di follow up sono morti 268 partecipanti (34.3%). A partire dal quartile più basso fino a quello più alto di metaboliti del resveratrolo, la percentuale di decessi per tutte le cause tra i partecipanti era del 34.4%, 31.6%, 33.5%, e 37.4%. I partecipanti nel quartile più basso avevano un hazards ratio della mortalità di 0.80 (95% CI, 0.54-1.17) rispetto a quelli nel quartile più alto. I livelli di resveratrolo non incidevano sui livelli di CRP, IL-6, IL-1β, TNF, sulla prevalenza o l'incidenza del cancro o delle malattie cardiovascolari. 
Negli anziani residenti in comunità, la concentrazione totale urinaria dei metaboliti del resveratrolo  non era associato ai marker dell'infiammazione, alle malattie cardiovascolari o il cancro e non era predittiva della mortalità per tutte le cause. In questo studio i livelli di resveratrolo raggiunti con una dieta di tipo occidentale non hanno avuto un sostanziale impatto sullo stato di salute e il rischio di mortalità della popolazione, concludono gli autori.

Lo studio conferma quindi quello che da tempo è noto, che l’azione del resveratrolo è ad una concentrazione difficilmente raggiungibile con l’alimentazione.

Fonte:
Resveratrol Levels and All-Cause Mortality in Older Community-Dwelling Adults.
Semba RD, Ferrucci L, Bartali B, Urpí-Sarda M, Zamora-Ros R, Sun K, Cherubini A, Bandinelli S, Andres-Lacueva C. JAMA Intern Med. 2014 May 12. doi: 10.1001/jamainternmed.2014.1582. [Epub ahead of print]

Effetto calcio sui livelli dei lipidi plasmatici

Il calcio da fonti lattiero casearie potrebbe influire sui livelli dei lipidi plasmatici e sull'eliminazione fecale dei grassi, a causa della diversa composizione nutrizionale e della matrice alimentare.
Lo studio dell’Università di Copenhagen ha voluto vedere se alimentazioni contenenti latte o formaggio con apporti simili di calcio abbiano un impatto diverso sull'aumento dei lipidi plasmatici indotto dagli acidi grassi saturi. 
Nello studio sono stati coinvolti 15 giovani per tre periodi di 14 giorni nei quali hanno seguito tre tipi di diete isocaloriche, simili per contenuto di grassi e composizione: una dieta di controllo, priva di latticini (~500 mg Ca/die), una dieta a base di latte parzialmente scremato (1700 mg Ca/die), una dieta basata su un formaggio semiduro di latte vaccino (1700 mg Ca/die). 
Veniva effettuato un prelievo sanguigno prima e dopo ogni periodo, mentre le feci venivano raccolte per 5 giorni durante ogni periodo. 
Gli aumenti indotti dagli acidi grassi saturi di colesterolo e colesterolo LDL erano più bassi nella dieta del latte (media ± SD: 0.57 ± 0.13 e 0.53 ± 0.11 mmol/L, rispettivamente) (P < 0.01) e in quella del formaggio (0.41 ± 0.15 e 0.47 ± 0.12 mmol/L) (P < 0.05) che nella dieta di controllo (0.89 ± 0.12 e 0.84 ± 0.11 mmol/L, rispettivamente). 
L'eliminazione fecale di grassi aumentava di più sia con la dieta latte  (5.2 ± 0.4 g/d) e con  la dieta formaggio (5.7 ± 0.4 g/d) che con la dieta di controllo (3.9 ± 0.3 g/d) (P < 0.001). Non c'erano differenze riguardo alla pressione sanguigna, colesterolo HDL, trigliceridi e rapporti tra lipidi.
Rispetto alla dieta di controllo, quelle del latte e del formaggio attenuavano l'aumento indotto dagli acidi grassi saturi nel colesterolo totale e LDL e risultavano in una maggiore eliminazione fecale di grassi. Non c'era differenza tra la dieta basata sul latte e quella sul formaggio.

L'attenuazione dell'aumento di colesterolo totale e LDL potrebbe dipendere dal contenuto di calcio, ipotizzano gli autori.

Fonte:
Effect of dairy calcium from cheese and milk on fecal fat excretion, blood lipids, and appetite in young men. Karina V Soerensen, Tanja K Thorning, Arne Astrup, Mette Kristensen, and Janne K Lorenzen. Am J Clin Nutr May 2014 ajcn.077735

mercoledì 30 aprile 2014

Parkinson, la vitamina D contrasta il deficit cognitivo

Neuroscienze e Nutrizione: Parkinson e Vitamina D

Da ricerche precedenti era già emerso che la vitamina D ha un ruolo nel sistema nervoso centrale, anche se gli studi, per lo più trasversali, sul legame tra la vitamina e quadro cognitivo, non sono conclusivi. Inoltre, gli studi d’intervento sulla materia sono scarsi. La rivista scientifica Parkinson's Disease riporta un nuovo dato: valori più alti di vitamina D sono associati a un umore migliore e a un funzionamento cognitivo superiore nelle persone che soffrono di Parkinson. Gli autori hanno cercato di stabilire un rapporto tra livelli di vitamina D nel sangue e funzione neuropsichiatrica, nelle persone con malattia di Parkinson. Sono state esaminate le performance neuropsichiatriche e la concentrazione plasmatica di 25-idrossivitamina D di 286 persone con malattia di Parkinson, con e senza demenza.
Sono state effettuate scale di valutazione per la funzione cognitiva globale (MMSE, MOCA, Mattis Dementia Scale), memoria verbale (Hopkins Verbal Learning Test), fluenza (parole di animali, vegetali e FAS), funzione visuospaziale (Benton Line Orientation), funzioni esecutive (Trails Making Test e Digit-Symbol Substitution), severità del Parkinson (Hoehn & Yahr e Unified Parkinson's Disease Rating Scale) e depressione (Geriatric Depression Scale (GDS).
Concentrazioni più alte di vitamina D sono risultate associate a migliori performance in molti test neuropsichiatrici, nel sottogruppo di pazienti non affetto da demenza.
Sono state trovate associazioni significative tra la concentrazione di vitamina D e la fluenza verbale e la memoria verbale (rispettivamente t = 4.31 e t = 3.04). Le concentrazioni di vitamina D erano correlate (t =−3.08) anche con i punteggi di depressione nel gruppo senza demenza.
Quindi, concludono gli autori, “concentrazioni plasmatiche maggiori di vitamina D sono associate a una migliore funzione cognitiva e umore in questo campione di pazienti di Parkinson senza demenza”.
Per approfondire tali evidenze saranno necessari ulteriori studi. Esiste una banca dati sponsorizzata dall’associazione americana Michael J Fox Foundation, che recluta, attraverso il sito web Fox Trial Finder, pazienti e soggetti sani interessati a partecipare a studi di ricerca sul Parkinson.

Fonte: Memory, mood, and vitamin d in persons with Parkinson's disease. Peterson AL, Murchison C, Zabetian C, Leverenz JB, Watson GS, Montine T, Carney N, Bowman GL, Edwards K, Quinn JF. J Parkinsons Dis. 2013;3(4):547-55. doi: 10.3233/JPD-130206.

Sovrappeso: attenzione già da bambini



I bambini che a circa cinque anni e mezzo di età sono sovrappeso, tendono a esserlo anche successivamente. È la conclusione di una ricerca americana che è stata recentemente pubblicata sul New England Journal of Medicine.
Lo studio voleva misurare l'incidenza, invece che la prevalenza, dell'obesità nei bambini di scuola primaria negli Stati Uniti.
A questo scopo sono stati valutati i dati dell'Early Childhood Longitudinal Study, Kindergarten Class of 1998–1999. Si tratta di un gruppo di 7.738 bambini che frequentavano l'asilo negli Stati Uniti nel 1998. Per ogni bambino erano disponibili le misure di peso e altezza, registrate sette volte tra il 1998 e il 2007.
Dei 7.738 partecipanti, 6.807 non erano obesi all'inizio dello studio. Per classificare il peso dei bambini sono stati usati i parametri del Centers for Disease Control and Prevention.
All'età media di 5,6 anni, era obeso il 12,4% e sovrappeso un altro 14,9%. All'età media di 14,1 anni, era obeso il 20,8% e sovrappeso il 17,0%.
L'incidenza annuale dell'obesità diminuiva dal 5,4% dell'asilo all' 1,7% negli ultimi tre anni di scuola considerati dalla ricerca.
I dati indicano che ha una grande importanza il peso dei bambini in età prescolare. I bambini in sovrappeso a 5 anni avevano quattro volte più probabilità di diventare obesi rispetto ai normopeso. Tra i bambini diventati obesi tra l'età di 5 e di 14 anni, quasi la metà era già in sovrappeso all'inizio dello studio e il 75% era sopra il 70esimo percentile per il BMI.

Fonte: Incidence of childhood obesity in the United States. Cunningham SA, Kramer MR, Narayan KM. N Engl J Med. 2014 Jan 30;370(5):403-11. doi: 10.1056/NEJMoa1309753.

giovedì 3 aprile 2014

Dipendenza da internet e dieta


Neuroscienze e Nutrizione: dipendenza da internet ed alimentazione scorretta

Uno studio condotto su ragazzi coreani dai 13 a i 15 anni dimostra come la dipendenza da internet impatti sul tipo di dieta e sullo stile di vita degli adolescenti. La dipendenza da internet è correlata ad una dieta irregolare che prevede i) il consumo di molti snack ricchi di grassi e zuccheri, ii) il salto di alcuni pasti ed in particolare della cena per mancanza di appetito, iii) carenza di vitamine e sali minerali per il mancato apporto di frutta, verdura e prodotti caseari. Queste carenze nutrizionali possono compromettere la crescita ed il corretto sviluppo dei giovani adolescenti. 
La dipendenza da internet sembra inoltre favorire l'aumento del consumo di alcool e di tabacco.  
Induce inoltre una riduzione delle ore di sonno ed di attività fisica.


The effects of Internet addiction on the lifestyle and dietary behavior of Korean adolescents.

Data were collected from 853 Korean junior high school students. The level of Internet addiction was determined based on the Korean Internet addiction self-scale short form for youth, and students were classified as high-risk Internet users, potential-risk Internet users, and no risk Internet users. The associations between the students' levels of Internet addiction and lifestyle patterns and dietary behavior were analyzed using a chi-square test. Irregular bedtimes and the use of alcohol and tobacco were higher in high-risk Internet users than no risk Internet users. Moreover, in high-riskInternet users, irregular dietary behavior due to the loss of appetite, a high frequency of skipping meals, and snacking might cause imbalances in nutritional intake. Diet quality in high-risk Internet users was also worse than in potential-risk Internet users and no risk Internet users. We demonstrated in this study that high-risk Internet users have inappropriate dietary behavior and poor diet quality, which could result in stunted growth and development. Therefore, nutrition education targeting high-risk Internet users should be conducted to ensure proper growth and development.

 2010 Feb;4(1):51-7. doi: 10.4162/nrp.2010.4.1.51. Epub 2010 Feb 24.

giovedì 20 febbraio 2014

Supplementazione di DHA migliora la memoria nei soggetti sani

Tra gli acidi grassi omega-3, l'acido docosaesaenoico (DHA)

è il più diffuso nei tessuti del cervello. La sua presenza è indispensabile in quanto ha funzioni strutturali ed influenza numerosi processi neuronali e delle cellule gliali. In particolare, è noto che il DHA si accumula nelle aree del cervello coinvolte nella memoria e nell'attenzione, come la corteccia cerebrale e l'ippocampo. Studi condotti su animali hanno mostrato che un deficit di DHA ha effetti critici sullo sviluppo neuronale e sul comportamento, con conseguenti cambiamenti in fase di apprendimento e memorizzazione, nonché sulle risposte di tipo uditivo e olfattivo.

Lo studio di seguito riportato analizza l'effetto di una supplementazione a base di DHA in 176 soggetti adulti di giovane età, sani e con una dieta carente in acidi grassi omega-3 e valuta l'influenza del sesso nella risposta all'assunzione di DHA. In particolare sono state analizzate le capacità cognitive, quali la memoria episodica e di lavoro, i corrispondenti tempi di reazione e la velocità nella capacità di attenzione e di elaborazione dei compiti assegnati. Tali abilità sono state valutate attraverso una serie di test cognitivi computerizzati accettati dalla comunità scientifica e confrontati con pazienti a cui è stato somministrato un placebo.

Va ricordato che l'incorporazione del DHA nel doppio strato lipidico della membrana neuronale è essenziale per la neuroplasticità, la neurogenesi e il mantenimento della fluidità di membrana e delle funzioni proteiche che influenzano la velocità di trasmissione dei segnali, la neurotrasmissione e la regolazione dell'uptake di glucosio dal cervello. Un significativo aumento nei livelli di DHA degli eritrociti è stato riscontrato nei pazienti sottoposti a supplementazione rispetto al placebo (pari al 2.7%). E' stato inoltre verificato che una supplementazione a base di capsule di DHA (che forniscono 1.16 g DHA/g e 0.17 g di EPA/g) diminuisce in maniera significativa i tempi di reazione della memoria episodica, indipendentemente dal sesso. Inoltre l'accuratezza della memoria episodica è migliorata nelle donne rispetto agli uomini; in questi ultimi è stata invece riscontrata una diminuzione dei tempi di reazione della memoria di lavoro. Lo studio riportato mostra quindi che la supplementazione a base di DHA migliora le abilità cognitive quali la memoria e i suoi tempi di reazione in individui adulti sani di età compresa tra i 18 e i 45 anni. Inoltre i domini cognitivi correlati alla memoria e a funzioni cognitive più complesse e quindi a comportamenti comuni nella vita di tutti i giorni, sono influenzati nella risposta all'assunzione di DHA in maniera differente a seconda del sesso. Si può quindi concludere che individui adulti sani possono trarre beneficio, a livello di abilità cognitive, da un maggior consumo di DHA.



Bibliografia

W. Stonehouse, C.A. Conlon, J. Podd, S.R. Hill, A.M. Minihane, C. Haskell and D. Kennedy Am. J. Clin. Nutr 2013, 97, 1134-1143.

venerdì 7 febbraio 2014

Dipendenza da cibo

Neuroscienze e Nutrizione: Tra le dipendenze comportamentali c’è anche la dipendenza da cibo.

Una dipendenza caratterizzata da un appetito sempre più arrabbiato e sempre più associato ad un umore burrascoso e insoddisfatto. La dipendenza da cibo è ciò che trasforma un elemento scontato e piacevole, quale il cibo, in una schiavitù affliggente. Ma, dipendenti da cibo, si nasce o si diventa?
Dipendenza significa sostanzialmente esser legati a un desiderio di qualcosa e quindi essere coinvolti nel procurarselo e nel consumarlo ma allo stesso tempo, lottare inutilmente per far uscire quella stessa cosa dalla propria vita. In un certo senso i dipendenti sono condannati a volere. Ledipendenza da droghe e da alcol sono note da tempo… Solo da poco ci si è accorti che il cibo, ha tutte le caratteristiche per diventare oggetto di abuso e fonte di dipendenza.
Oggi si parla di “nuove dipendenze” o “dipendenze comportamentali”, per indicare situazioni in cui si è legati a un comportamento e non a una sostanza: sesso, gioco, shopping, comunicazioni virtuali. Tra queste dipendenze comportamentali c’è la dipendenza da cibo: una sorta di “impazzimento dell’appetito” in cui non si avrà mai abbastanza per poter esser soddisfatti. Il circolo “desiderio-consumazione-disagio” si ripete all’infinito lasciando senza parole e senza risorse chi ne è affetto. Puntualmente alla vergogna, legati all’ingrassare o al non essersi saputi controllare, segue di nuovo il desiderio di cibo. La sensazione è che la ruota della dipendenza è una ruota che non si ferma più: non è strano in sé che giri, ma è strano che il freno non funzioni.
Non si nasce dipendenti da cibo. La dipendenza da cibo si sviluppa attraverso vari stadi. In un primo momento si consuma cibo abitualmente e con piacere, in quantità maggiori del necessario e quindi si tende a prendere peso, ma con una lenta ascesa. Generalmente in questa fase definita “luna di miele”, la persona non soffre, non è a disagio e tende ad essere sempre più coinvolta nel piacere generato dal cibo stesso, con il timore nascosto di dover a un certo punto correre ai ripari. L’unica spia dall’allarme è il peso. Questa è la fase in cui, teoricamente, è facile tornare indietro.
Nella fase successiva si aggiunge la tolleranza al cibo, ovvero l’aumento delle quantità e della voracità, in questo stadio l’aumento del peso è sempre maggiore. Nella fase avanzata, il problema è visibile e la persona cerca aiuto per risolverlo. Tipicamente non ci si sofferma sul movente, cioè l’appetito, ma sul peso e si ritiene che sia l’aumento del peso, non l’appetito, il punto sul quale agire. Per questo motivo si risponde a strategie di dimagrimento con il risultato del “su e giù” tra ingrassamento e dimagrimento. Nella dipendenza da cibo il soggetto si ritrova a progettare diete, a compiacersi di non mangiare tra un pasto e l’altro, a scacciare l’appetito mangiando come se questo fosse un modo per mangiare meno per il resto del giorno. Nella dipendenza da cibo la persona, non desidera tanto il cibo quanto l’atto di mangiare, ci si abbuffa senza gustare. Si finisce per mangiare cibo anche non preparato, direttamente dalla confezione, a temperature non adatte (freddo), con le mani, mescolando sapori che non vanno d’accordo tra loro. Il cibo diventa qualcosa senza particolari distinzioni o connotati, diventa lo strumento per rispondere all’istinto di “buttar giù” roba.
Spesso le persone dipendenti da cibo chiedono aiuto ma poi negano di averne bisogno, assumono l’atteggiamento di chi difende il suo sintomo, lo nascondono, lo occultano.
Gli unici momenti in cui si ha la forza di rinunciare al cibo è quando si è sazi. A stomaco pieno si pensa “In fondo, del cibo posso fare a meno” e la dieta sembra non solo accettabile ma perfino naturale. Il mangiare è percepito e pensato come la cosa più gratificante della giornata. Ladipendenza da cibo, attiva nelle persone che ne sono affette, atteggiamenti furtivi e necessità di fingere, come se magiare fosse qualcosa di losco. Questi meccanismi si attivano perché in realtà la persona non sta semplicemente mangiando, lo sta facendo senza controllo. Mangiare senza controllo non è mangiare. Si comincia a vivere giorno per giorno nel sogno della dieta possibile e il sogno si nutre di cibo reale. Questo è il meccanismo che impedisce spesso di iniziare, spesso di continuare e quasi sempre di mantenere un regime dietetico. Esistono forme eclatanti didipendenza da cibo, che inducono la persona a comprare cibo di nascosto, a tenerlo nascosto e portarlo con sé sempre, a consumarlo di nascosto. Vi sono però anche forme subdole, dominate da una lotta quotidiana tra appetito e intenzione di controllare il comportamento.
La cura per questo tipo di dipendenza, molto spesso, comincia con un errore sostanziale, ovvero quello di trattare questi casi come patologia nutrizionale come se il tutto derivasse semplicemente da un appetito anomalo. Quasi sempre vengono somministrate diete, seguiti approccio farmacologici con l’obiettivo di placare l’appetito e la voracità fino ad arrivare alla chirurgia correttiva dell’obesità. Queste soluzioni portano solo a successi temporali.
In realtà la dipendenza da cibo prevede un approccio integrato di tipo psicologico-nutrizionale che miri a modulare fattori affettivi e cognitivi con l’obiettivo di riportare l’appetito in linea con la fame. Il dipendente da cibo mangia per gestire emozioni, mangia per colmare un vuoto, non potrà mai un semplice regime dietetico risolvere questi tipi di problemi.

Ortoressia: quando i cibi sani diventano ossessione

Neuroscienze e Nutrizione: Nuovo disturbo del comportamento alimentare è la fissazione per il mangiar sano.

Ortoressia è apprensione eccessiva per la qualità del cibo. Ortoressia è paura di contaminazione, angoscia che il cibo sia sporco o non sano.“Il burro e la carne rossa aumentano il colesterolo, il pesce contiene mercurio, nelle verdure ci sono i pesticidi”: questi sono solo alcuni dei divieti che, se non controllati, ci trascinano verso un nuovo disordine alimentare definito “ortoressia nervosa”.
Quasi sempre alla base dei disturbi alimentari c’è la preoccupazione per la quantità di cibo; nel caso dell’ortoressia l’attenzione (ossessione) si sposta dalla “quantità” alla “qualità” degli alimenti.
Ciò che rende l’ortoressia particolarmente pericolosa è la sua “buona apparenza” che rende estremamente sottile e inizialmente impercettibile la linea di confine tra un atteggiamento sano e l’atteggiamento patologico. Con l’ortoressia si comincia con l’escludere dalla propria alimentazione cibi trattati con pesticidi, additivi artificiali e tutti quelli percepiti come “cattivi” per la salute e pian piano il criterio di ammissibilità di un cibo nella propria alimentazione diventa sempre più restrittivo. L’ortoressia è un rapporto distorto con il cibo che si stabilisce in maniere graduale, partendo da quella che potrebbe essere considerata una sana attenzione verso una corretta alimentazione fino ad arrivare alla psicosi e al rifiuto del cibo come “piacere”. I soggetti conortoressia in breve tempo cambiano il proprio stile di vita, tendono ad isolarsi, si difendono da chi non la pensa come loro o da chi li contraddice, vivono perennemente in ansia e cercano di sedare tale ansia con il rispetto di regole ferree. Quando l’ortoressia, da patologia diventa poi maniacale il soggetto comincia a credere che tutto dipenda dal cibo facendolo diventare un pensiero fisso: rinuncia al gusto e al profumo delle pietanze per mangiare più sano, controlla tutto per prevenire malattie e contagio e, anche se proverà disgusto per certi cibi, sarà costretto a mangiarli ritenendoli “sani”. In questo modo l’ortoressico diventa ossessivo, fobico, asociale e, fidandosi solo della rigida dieta, potrà arrivare a carenze nutrizionali gravi. L’ortoressia porta il soggetto a non sentirsi mai appagato e confidando solo in se stesso ha difficoltà ad istaurare relazioni amicali e affettive. Quasi sempre l’ortoressico consuma il proprio pasto in solitudine. Tali soggetti sono estremamente sicuri delle loro convinzioni e si sentono superiori alle persone che non hanno, secondo loro, un simile “autocontrollo”.
La diffusione dell’ortoressia potrebbe essere correlata alle “mode alimentari” che iperselezionano alcuni alimenti in nome di filosofie di vita. Tra queste troviamo diete “vegetariane”, “vegane”, “macrobiotiche” , “crudiste”, “fruttariste” etc. che, se esercitate in modo ossessivo, possono portare carenze proteiche e vitaminiche anche molto gravi. La terapia dell’ortoressia rientra fra quelle previste per gli altri disturbi del comportamento alimentare, con l’attuazione di un approccio globale (psicologico + nutrizionistico) da parte di specialisti esperti del settore.

Memoria per cibi grassi, il ruolo dell'OEA

Neuroscienze e Nutrizione: Memoria per cibi grassi, il ruolo dell'OEA

L'assunzione di cibi ricchi di grassi potenzierebbe nel cervello la formazione di memorie a lungo termine specifiche per questa attività. Lo ha scoperto un team internazionale formato da ricercatori di UC Irvine, University Medical Center di Groningen e Utrecht e Università di Roma La Sapienza, il cui studio è pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (Campolongo P et al., Fat-induced satiety factor oleoylethanolamide enhances memory consolidation, PNAS 2009).

Come si legge nel comunicato UC Irvine, lo studio si aggiunge ai recenti lavori dei ricercatori guidati da Daniele Piomelli e James McGaugh sul rapporto tra grassi alimentari e controllo dell'appetito, che sembrano promettenti per il trattamento dell'obesità e degli altri disturbi dell'alimentazione.

I precedenti studi di Piomelli avevano già identificato come gli acidi oleici dei cibi grassi vengono trasformati nell'intestino in un composto chiamato oleoiletanolamide (OEA), che invia al cervello stimoli che riducono l'appetito e aumentano il senso di sazietà e, a livelli elevati, può ridurre il peso e abbassare i valori di colesterolo e trigliceridi nel sangue. L'OEA influenzerebbe anche il consolidamento della memoria, attraverso l'attivazione nell'amigdala di segnali di potenziamento mnesico. Studi animali hanno anche dimostrato che la somministrazione di OEA ai ratti ne ha migliorato la memoria, mentre il blocco dei recettori per l'OEA ha diminuito la ritenzione mnesica.

"L'OEA è parte della colla molecolare che rende adesive le memorie: aiutando i mammiferi a ricordare dove e quando hanno assunto un pasto ricco di grassi, l'attività di potenziamento mnesico dell'OEA sembra essere stato un importante strumento evolutivo per le civiltà primitive", ha spiegato Piomelli. "Ricordare la localizzazione e il contesto in cui si è assunto un cibo ricco di grassi è stato probabilmente un importante meccanismo di sopravvivenza per i primi umani. Oggi però questo potenziamento di memoria può non essere così benefico: benchè l'OEA produca sensazioni di sazietà dopo un pasto, allo stesso tempo può generare craving a lungo termine per i cibi grassi che, se assunti in eccesso, possono dar luogo a obesità".

Sono attualmente in corso trial clinici con farmaci che mimano il meccanismo d'azione dell'OEA finalizzati al controllo dei trigliceridi nell'organismo umano.

venerdì 10 gennaio 2014

Per la dieta, l'indice di qualità conta più delle calorie


Ecco il nuovo parametro identificato dai ricercatori della Sapienza

Fare attenzione alle calorie non è l'unico accorgimento necessario per riuscire a dimagrire, anzi, secondo i ricercatori dell'Università “La Sapienza” di Roma il tipo di alimenti che si sceglie di portare a tavola può essere ancora più importante. Gli esperti ne hanno parlato in occasione del 7° congresso regionale della Società Italiana dell'Obesità (Sio), svoltosi lo scorso sabato nella capitale, durante il quale Andrea Lenzi, direttore della Sezione di Fisiopatologia Medica e Endocrinologia del Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza, ha presentato un nuovo parametro, l'indice di qualità della dieta, utile per capire se i cibi introdotti nell'alimentazione quotidiana facciano ingrassare oppure no, indipendentemente dalle calorie che portano con loro.


Lenzi ha spiegato che “non è solo l'introito calorico a determinare lo sviluppo dell'obesità e del sovrappeso ma come si costruisce il menu, bilanciando i cibi contenenti grassi saturi o glucidi con le fibre”. A dimostrarlo sono gli esperimenti condotti all'ateneo romano, che hanno coinvolto 120 individui con uno stile di vita simile in termini di livelli di attività fisica e di calorie assunte quotidianamente, ma che seguivano regimi alimentari diversi fra loro. In particolare, 30 erano vegani, 30 latto-ovovegetariani, 30 onnivori magri e 30 onnivori obesi. Come ha spiegato Lenzi, dal confronto fra i loro diari alimentari è emerso che “a parità di calorie assunte ogni giorno da vegani, vegetariani che includono latte e uova, magri onnivori e obesi onnivori si evidenziano pesi decisamente differenti”.



I dati raccolti hanno permesso ai ricercatori di concludere che mentre i pasti ricchi di carboidrati, zuccheri, grassi saturi e alcuni tipi di formaggi aumentano il rischio di sovrappeso, alcuni cibi possono contrastarne l'effetto dannoso. A fare la differenza sono soprattutto le verdure, i cereali integrali e, più in generale, gli alimenti ricchi di fibre, che aumentano l'indice di qualità della dieta.



Il concetto espresso dai ricercatori della Sapienza ricalca, quindi, i principi della dieta mediterranea. Infatti, come ha ricordato Lenzi, “i piatti privi di fibre e verdure e ricchi di grassi saturi, in particolare le carni rosse, non solo fanno ingrassare ma facilitano lo sviluppo di malattie correlate all'obesità”.