Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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venerdì 19 dicembre 2014

Scoperto un meccanismo nel cervello che spinge a desiderare cibi dolci


L’attività nel cervello di un enzima chiamato glucochinasi potrebbe essere la 'chiave' dell'appetito di alimenti ricchi di glucosio, tra cui cibi ricchi di amidi (pasta, pane) e alcuni dolci. Lo studio, su animali, è pubblicato su the Journal of Clinical Investigation. Un risultato che apre prospettive di studio anche per l’uomo.

Il glucosio è un importante componente dei carboidrati e la principale fonte energetica per le cellule cerebrali: il cervello si affida ad esso per ottenere energia. I ricercatori hanno identificato un processo, nel modello murino, mediante il quale viene percepita la quantità di glucosio che raggiunge il cervello e, quando questo componente non è sufficiente, l’animale viene sollecitato ad introdurne altro mediante l’alimentazione. Questo meccanismo potrebbe giocare un ruolo anche nella preferenza di cibi dolci e ricchi di amidi.
Il processo individuato sarebbe collegato alla glucochinasi, l’enzima che sembrerebbe ‘guidare’ il nostro desiderio di cibi dolci. Questo enzima, che rileva la presenza di glucosio nel fegato e nel pancreas, è presente in una regione cerebrale chiamata ipotalamo, la quale regola diverse funzioni cerebrali compresa quella preposta all’introduzione del cibo, i cui meccanismi non sono ancora ben noti. Gli scienziati hanno osservato che quando gli animali erano digiuni da alcune ore, l’attività della glucochinasi nel centro di regolazione dell’appetito all’interno dell’ipotalamo aumentava in maniera netta. I topolini avevano a disposizione una soluzione di glucosio e il loro normale cibo. All’aumentare dell’attività dell’enzima nell’ipotalamo, gli animali sceglievano di consumare più glucosio rispetto al resto del cibo. Al contrario, al diminuire dell’attività della glucochinasi, il consumo di glucosio diminuiva.
“Si tratta della prima volta in cui qualcuno scopre un sistema cerebrale che risponde ad un determinato nutriente, piuttosto che all’assunzione generica di energia”, ha dichiarato il Dottor James Gardiner, del Dipartimento di Medicina, che ha guidato lo studio. Gardiner suggerisce inoltre che negli uomini potrebbe in futuro rivelarsi plausibile l’idea di ridurre il ‘desiderio’ di glucosio modificando la propria dieta e utilizzando un eventuale farmaco che agisca opportunamente su questo sistema al fine di prevenire l’obesità.

Syed Hussain, Errol Richardson et al., Glucokinase activity in the arcuate nucleus regulates glucose intake. Journal of Clinical Investigation, 2014; DOI: 10.1172/JCI77172

La nascita delle religioni moralizzanti: il segreto fu la sazietà

I movimenti ascetici e moralizzanti che hanno dato origine alle principali tradizioni religiose del mondo, come Buddismo, Islamismo, Giudaismo, Induismo e Cristianesimo, sono comparsi tutti più o meno nello stesso momento in tre regioni diverse: secondo un nuovo modello statistico basato sulla storia e sulla psicologia umana, questo fenomeno è dipeso dal miglioramento degli standard di vita nelle grandi civiltà eurasiatiche. Ciò implica che le religioni del mondo probabilmente hanno in comune più di quello che pensiamo in quanto, al di là delle dottrine molto diverse, esse affondano le loro radici nello stesso sistema di ricompense presente nel cervello umano. Sembra ovvio affermare che le religioni si occupino di questioni spirituali e morali, ma non è sempre stato così. Nelle società di cacciatori e raccoglitori le tradizioni religiose erano focalizzate su rituali, offerte sacrificali e tabù concepiti per scongiurare il male e la sventura: ciò è cambiato fra il 500 ed il 300 a.C., la cosiddetta età Assiale, in cui in Eurasia sono comparse nuove dottrine che enfatizzavano il valore della trascendenza personale, ossia della nozione secondo cui l’esistenza umana abbia uno scopo diverso dal successo materiale che dipende da un’esistenza morale e dal controllo dei propri desideri materiali tramite moderazione, ascesi e compassione. Alcuni studiosi sostengono che le grandi società sono rese possibili dalle religioni moralizzanti, tuttavia alcuni grandi imperi del passato veneravano Dei palesemente poco morali. Secondo il nuovo modello, la transizione verso le religioni moralizzanti è stata netta quando le persone hanno potuto iniziare a contare su 2.000 kcal/die, un livello di “sazietà” che significava, in senso lato, avere un tetto sulla testa e molto cibo a disposizione tanto nel presente che nel prossimo futuro. Non è una cosa scontata quando fino a poco tempo prima si affrontavano carestie e malattie e si viveva in case molto rudimentali: nell’età Assiale le cose sono iniziate ad andare meglio. Di conseguenza, le strategie di vita sono passate dalla risoluzione dei problemi quotidiani immediati agli “investimenti a lungo termine” sulle questioni spirituali. (Curr Biol online 2014)

Cervello degli obesi risponde di più agli zuccheri

Il cervello dei bambini obesi si “accende” letteralmente in modo diverso quando assaggia lo zucchero. Lo studio non dimostra che vi sia una relazione di causalità fra l’ipersensibilità allo zucchero e la tendenza a mangiare troppo, ma supporta l’idea secondo cui i giovani obesi presentano una risposta psicologica incrementata al cibo. Questo elevato senso della “ricompensa alimentare”, che implica l’essere motivati dal cibo e trarne sensazioni positive, potrebbe significare che alcuni bambini abbiano circiuti cerebrali che li predispongono a desiderare una maggiore quantità di zuccheri per tutta la vita. I bambini obesi presentano un incremento dell’attività a livello della corteccia insulare e dell’amigdala, due regioni del cervello implicate in percezione, emozioni, consapevolezza, gusto, motivazione e ricompensa. Uno degli aspetti più interessanti dello studio consiste nel fatto che le scansioni cerebrali effettuate potrebbero documentare per la prima volta le fasi precoci dello sviluppo del circuito di ricompensa alimentare nei preadolescenti. Qualunque esperto di obesità confermerebbe che perdere peso è difficile, e che si tratta di una battaglia da vincere con la prevenzione: ora sappiamo che essa deve iniziare più precocemente possibile, in quanto alcuni bambini potrebbero nascere con un’ipersensibilità verso le ricompense alimentari, oppure potrebbero apprendere la correlazione fra cibo e sensazione di benessere più rapidamente rispetto ad altri. (Int J Obesity online 2014).

giovedì 11 dicembre 2014

Al bando gli snack di mezzanotte


Al giorno d’oggi, con l’abbondanza di luce artificiale, TV, tablet e smartphone, adulti e bambini tendono a fare le ore piccole, ma con il ritardo dell’ora di andare a letto aumenta la tendenza agli spuntini. Un recente studio mette in guardia contro questo tipo di eccessi, suggerendo invece che confinare il consumo calorico ad un periodo di 8-12 ore come facevano i nostri nonni un secolo fa potrebbe aiutare a combattere colesterolo, diabete ed obesità. Insomma, non è soltanto quel che mangiamo ad influenzare la nostra salute, ma anche il momento in cui lo facciamo. Lo studio in questione, condotto sui ratti, ha dimostrato che la restrizione temporale dell’alimentazione ha un effetto più profondo di quanto pensato in precedenza, e può addirittura invertire obesità e diabete. I ratti non obesi, peraltro, pur mantenendo una dieta normale, non sono dimagriti, ma hanno modificato la propria composizione corporea, aumentando la massa magra a scapito di quella grassa. L’analisi di questi ratti ha dimostrato che molteplici cascate molecolari che vengono sconvolte nelle malattie metaboliche vengono ripristinate con la restrizione temporale della dieta. Questa potrebbe rappresentare un’opzione accattivante per le persone che non hanno accesso ad una dieta sana, rappresentando un’alternativa almeno parziale a quest’ultima. (Cell Metab 2014; 20:991)

Latte non vaccino e vitamina D


I prodotti sostitutivi del latte potrebbero non fornire abbastanza vitamina D ai bambini. La conclusione deriva da una ricerca nordamericana, che ha valutato i livelli di 25-idrossivitamina D in bambini di età prescolare, di 1-6 anni di età, che consumavano latte vaccino o sostituti del latte. Nel Canada e negli Stati Uniti il latte vaccino deve avere un livello minimo di vitamina D, mentre non c'è alcuna richiesta per le altre bevande, come il latte di soia, riso, mandorla, cocco, avena o per il latte di capra. Nello studio pubblicato sul Canadian Medical Association Journal sono stati inclusi 2831 bambini.
Il livello di 25-idrossivitamina D era inferiore a 50 nmol/L nel 11% dei bambini che consumavano esclusivamente i prodotti sostitutivi e nel 4,7 % dei bambini che bevevano solo latte vaccino. 
Il consumo dei prodotti sostitutivi del latte era associato a una diminuzione di 25-idrossivitamina D pari a 4.2-nmol/L per ogni tazza di 250-mL di latte consumato dai bambini che consumavano anche latte vaccino. 
I bambini che bevevano solo sostituti del latte avevano un rischio maggiore di avere livelli di 25-idrossivitamina D inferiori a 50 nmol/L rispetto ai bambini che consumavano solo latte vaccino.

Fonte:
"Consumption of non–cow’s milk beverages and serum vitamin D levels in early childhood." Lee, Grace J., et al. Canadian Medical Association Journal 186.17 (2014): 1287-1293.

Obesità infantile, conta anche l'atmosfera attorno alla tavola


Per diminuire il sovrappeso o l'obesità dei bambini potrebbe essere importante lavorare con le famiglie, allo scopo di migliorare la dinamica a livello familiare e quella legata al cibo durante i pasti consumati in famiglia.
La recente letteratura scientifica suggerisce che consumare i pasti in famiglia potrebbe essere associato a una serie di benefici per la salute per i bambini. Tuttavia, non è chiara l'associazione con l'obesità. Questa considerazione porta a chiedersi quali siano le caratteristiche specifiche dei pasti in famiglia che hanno un effetto protettivo sull'obesità infantile. Questo studio ha esaminato le associazioni tra le dinamiche familiari e interpersonali legate all'alimentazione durante i pasti consumati in famiglia e lo stato di obesità infantile.
Lo studio ha incluso 120 bambini (47% bambine; età media: 9 anni) e genitori (92% donne; età media: 35 anni) provenienti da comunità a basso reddito e di minoranze. 
Le famiglie hanno partecipato a uno studio osservazionale diretto di 8 giorni in cui i pasti consumati a casa in famiglia sono stati videoregistrati. 
Sono state descritte le caratteristiche del pasto in famiglia (ad esempio, la lunghezza del pasto, i tipi di alimenti serviti) e le dinamiche a livello familiare e quelle legate all'alimentazione (ad esempio, il controllo sugli alimenti da parte dei genitori) durante i pasti in famiglia. È stato anche verificato il peso del bambino.
I ricercatori hanno trovato associazioni significative tra le dinamiche positive a livello familiare e genitoriale durante i pasti in famiglia e un rischio ridotto di sovrappeso infantile. Associazioni significative sono state trovate anche riguardo alla riduzione del rischio di obesità infantile.
La ricerca è stata pubblicata su Pediatrics.

Fonte:
"Childhood Obesity and Interpersonal Dynamics During Family Meals." Berge, Jerica M., et al. Pediatrics (2014): peds-2014.