Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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sabato 9 dicembre 2017

Guarire dal diabete di tipo 2 con la dieta: una ‘mission possible’.

Lo studio DiRECT dimostra che una riduzione di peso di oltre 15 Kg ottenuta in soggetti con diabete insorto da pochi anni, è in grado di ‘cancellare’ questa condizione, permettendo la sospensione dei farmaci anti-diabete. La perdita di peso in questo studio è stata ottenuta attraverso una dieta liquida a basso contenuto calorico (poco più di 800 calorie al giorno suddivisi in 4 ‘bibitoni’) condotta per 3-5 mesi. Lo studio è stato interamente condotto in un contesto di cure primarie. Il diabete di tipo 2 colpisce una persona su 11 nel mondo; questo studio apre importanti prospettive di intervento.

Lancet pubblica questa settimana uno studio, presentato in contemporanea al congresso dell’International Diabetes Federation, in corso in questi giorni ad Abu Dhabi, che dimostra come sia possibile ‘guarire’ dal diabete di tipo 2 con dei ‘bibitoni’ sostitutivi di un pasto (quattro al giorno). Il ‘farmaco’ utilizzato in un contesto di cure primarie è stata questa speciale dieta ipocalorica (800 calorie al giorno) che ha consentito ai partecipanti di ottenere un’importante calo ponderale.

Lo studio DiRECT è stato condotto presso 49 studi di medicina generale in Scozia e nella regione di Tyneside (Inghilterra). I vari ambulatori sono stati assegnati, attraverso una lista generata da computer, a fornire ai pazienti un programma dietetico (intervento) o il miglior trattamento convenzionale, basato su linee guida (controlli).

Allo studio hanno partecipato soggetti di età compresa tra i 20 e i 65 anni, che avevano ricevuto una diagnosi di diabete nei 6 anni precedenti, non in terapia insulinica e con indice di massa corporea di 27-45 Kg/m2.

Ai soggetti del gruppo di intervento è stata sospesa la terapia anti-diabete e antipertensiva; l’intervento dietetico è consistito in un trattamento sostitutivo della dieta con alimentazione artificiale liquida a 825-853 Kcalorie/die per 3-5 mesi, seguito da una reintroduzione graduale degli alimenti nell’arco di 2-8 settimane. Veniva inoltre fornito loro un supporto strutturato per il mantenimento a lungo termine del peso raggiunto.

Gli endpoint primari consistevano in un calo ponderale di 15 Kg o più e la remissione del diabete(definita come il raggiungimento di un’emoglobina glicata inferiore a 6,5% (< 48 mmol/mol), dopo 2 mesi di sospensione di tutti i farmaci anti-diabete, dal momento iniziale a 12 mesi.

Dall’estate del 2014 a quella del 2017, sono stati arruolati 306 soggetti. A distanza di 12 mesi, il 24% dei partecipanti del gruppo di intervento (36 persone) era riuscito ad ottenere un calo ponderale di 15 o più chili, contro nessuno del gruppo di controllo. La remissione del diabete è stata ottenuta nel 46% (68 persone) dei partecipanti del gruppo di intervento e nel 4% (6 persone) di quelli del gruppo di controllo.

La remissione del diabeteappariva strettamente dipendente dal calo ponderale in tutta la popolazione studiata, raggiungendo punte dell’86% tra chi aveva ottenuto un calo ponderale pari o superiore a 15 kg(cioè in 31 dei 36 soggetti che avevano raggiunto questo calo ponderale). In generale, nel gruppo di intervento è stata registrata una riduzione di peso media di 10 Kg, contro 1 Kg nel gruppo di controllo.

La qualità di vita (valutata con la scala visuale analogica EuroQol 5 Dimensions) è aumentata di 7,2 punti nel gruppo di intervento e si è ridotta di 2,9 punti in quello di controllo.

Al netto degli eventi indesiderati (nove eventi avversi gravi nel gruppo di intervento – di cui due nello stesso paziente - contro due del gruppo di controllo), questo studio dimostra che a distanza di 12 mesi, circa la metà dei soggetti inclusi nel gruppo di intervento ha raggiunto la remissione del diabete, arrivando a sospendere del tutto la terapia anti-diabete. La conclusione degli autori è dunque che “la remissione del diabete di tipo 2 è un obiettivo conseguibile in un contesto di cure primarie”.

Perché perdere peso può far regredire un diabete di tipo 2 di recente insorgenza
“I principali fattori di rischio per il diabete di tipo 2 – ricorda in un commento editoriale Matti Uusitupa, Istituto di Salute Pubblica e Nutrizione clinica, Università della Finlandia Orientale, Kuopio – sono l’aumentare di peso e l’obesità, la sedentarietà e una dieta non salutare. E sono tutti fattori di rischio modificabili”.

I risultati di questo studio, si aggiungono ad altri precedenti e non fanno che consolidare la convinzione che la perdita di peso rappresenti un elemento cardine nel trattamento del diabete di tipo 2. “La perdita di peso – prosegue l’editorialista – migliora la sensibilità insulinica a livello dei muscoli e del fegato, riduce il grasso viscerale e potrebbe migliorare la secrezione insulinica. Sul lungo periodo, il calo ponderale, potrebbe anche contribuire a preservare la massa beta-cellulare”.

Sebbene i risultati dello studio DiRECT possano entusiasmare, bisognerà tuttavia attendere l’esito del follow-up, previsto per 4 anni. Questo perché molto spesso i risultati degli interventi dietetici, per quanto di successo nell’immediato, tendono a svanire nel corso del tempo, con i pazienti che riprendono i chili persi e con essi le patologie correlate.

Se poi si riuscisse a combinare la perdita di peso con un aumento dell’attività fisica, si riuscirebbe a portare a casa anche un altro importante obiettivo, quello della riduzione della mortalità cardiovascolare, “come dimostrano le analisi post hoc – ricorda Matti – dello studio Look AHEAD”.

“I risultati dello studio DiRECT – conclude l’editorialista - indicano che il momento migliore per prescrivere la perdita peso e le modifiche dello stile di vita è quello della diagnosi, quando il paziente è in genere molto motivato. Tuttavia la prevenzione di questa condizione dovrebbe rappresentare un obiettivo primario per contrastare la pandemia di diabete e obesità e questo richiede strategie sia individuali che di popolazione, compresa la tassazione degli alimenti non salutari”.

Fonte Quotidiano Sanità, Maria Rita Montebelli

martedì 7 novembre 2017

Cambio stagione: fame e disturbi dell'umore


Il freddo è alle porte e a breve, con il consueto passaggio all’ora solare, un’ora di luce al giorno è andata persa, ed è così che il cambio di stagione può influenzare anche pesantemente la nostra salute mentale e fisica, facendo strada al rischio di disturbi stagionali dell’umore, pigrizia, sonnolenza, aumento dell’appetito e chili di troppo.
E’ quanto spiegato sul magazine Psychology Today da Joel Young, dirigente medico del Rochester Center for Behavioral Medicine. Fortunatamente, anche per coloro che proprio non sopportano le stagioni fredde, ci sono rimedi per superare indenni autunno e inverno, spiega Young.

In primis è importante essere consapevoli di cosa innescano le stagioni fredde: la riduzione della luce naturale ha effetti sul nostro equilibrio psicofisico, infatti l’organismo ha bisogno di luce per produrre vitamina D (la cui carenza, guarda caso, è associata a disturbi depressivi).

Si stima che il 5% della popolazione soffra di disturbi stagionali dell’umore, quasi sempre disturbi depressivi autunnali e invernali. Inoltre un’ora in meno di luce, insieme a cielo grigio e freddo, può cambiare i ritmi naturali del nostro corpo, sconvolgendo orari di sonno e veglia e il controllo dell’appetito.

E non è solo il clima a buttare giù delicati equilibri psicofisici: fonte di stress sono pubblicità e trasmissioni natalizie (che iniziano sempre prima) che dipingono una realtà tutta infiocchettata di famiglie felici; ma la realtà è molto più cruda per molti, con dispute familiari infinite, scarsa voglia di unirsi ai parenti per i pranzi domenicali e festività.

Cosa fare allora contro questo ciclone di negatività? Prima di tutto sfruttare il più possibile la luce naturale, organizzarsi per una pausa pranzo all’aperto e, se necessario, fare sedute di luce-terapia. Poi regalarsi almeno 30 minuti al giorno di attività fisica per almeno 5 giorni a settimana e mangiare sano, prediligendo cibi ricchi di energetiche vitamine B come pesce, uova, legumi, avena, noci, banane.

martedì 31 ottobre 2017

Psoriasi. Il grasso addominale innesca infiammazione vascolare


Nei pazienti che soffrono di psoriasi, il grasso addominale può dar vita a un processo infiammatorio a livello vascolare, aumentando così il rischio di una malattia cardiovascolare. Lo studio è stato pubblicato dal Journal of the American College of Cardiology

(Reuters Health) – Al di là dell’indice di massa corporea, il grasso addominale giocherebbe un ruolo chiave nell’infiammazione vascolare, almeno nei pazienti che soffrono di psoriasi. È quanto emerge da uno studio pubblicato JAAC: Cardiovascular Imaging e coordinato da Joshua Rivers del National Institute of Health (NIH).

Per lo studio, i ricercatori hanno preso in considerazione 77 persone con psoriasi lieve o moderata e, attraverso la PET/CT, hanno studiato il rapporto tra adipe addominale e infiammazione vascolare, cercando di capire se il trattamento contro la psoriasi andava ad alterarli. I pazienti avevano un’età media di 52 anni ed erano prevalentemente maschi con un basso rischio cardiovascolare, determinato mediante il metodo di valutazione a 10 anni Framingham.

Le evidenze
Dai risultati è emerso che, nei pazienti con psoriasi, il grasso addominale era associato a un aumento dei fattori di rischio per le malattie cardiovascolari, inclusa l’infiammazione vascolare. Il rapporto con questo grasso, “è rimasto più robusto rispetto al grasso sottocutaneo”, dicono gli autori.

Inoltre, Rivers e colleghi hanno evidenziato che il grado di severità della psoriasi sembrerebbe avere una relazione dose-risposta con l’aumentare dei fattori di rischio della malattia cardiometabolica e che il trattamento della psoriasi avrebbe portato a un miglioramento dell’infiammazione vascolare e nel grasso addominale. Aspetti che suggeriscono come “la modulazione del volume di grasso all’addome possa svolgere un ruolo nella riduzione del fattore di rischio cardiovascolare dovuto allo stato di infiammazione cronica”.

Fonte: Journal of the American College of Cardiology

giovedì 5 ottobre 2017

Svelato il perché con gli anni si accumula grasso sull’addome: effetto del sistema nervoso-immunitario.


Le cellule del sistema immunitario, interagendo con il sistema nervoso, controllano il metabolismo, anzi lo ‘inceppano’.

Con il passare degli anni il grasso si accumula con sempre maggior facilità a livello dell’addome e questo porta ad un aumentato rischio di patologie croniche. Sistema nervoso e sistema immunitario parlano tra loro per controllare metabolismo e infiammazione. Uno studio pubblicato su Nature suggerisce una possibile spiegazione al perché sia così difficile ‘bruciare’ il grasso viscerale, aprendo così la strada a possibili nuovi approcci terapeutici.

Gli ‘adulti-anziani’ – osservano gli autori dello studio – a prescindere da quanto pesino presentano un aumento del grasso viscerale; tuttavia quando devono consumare energia, lo fanno senza intaccare le riserve immagazzinate nel grasso addominale, o almeno non con la stessa efficienza di quando erano più giovani. Un grasso ‘testardo’ dunque, quello viscerale, molto difficile da smaltire. Fino ad oggi non si sapeva perché.

L’attenzione di Vishwa Deep Dixit, professore di medicina e immunobiologia comparativa e colleghi è stata attirata dai macrofagi, o meglio da un tipo particolare di macrofagi che risiediono nelle terminazioni nervose del grasso addominale; questi macrofagi che vivono in prossimità dei nervi tendono ad infiammarsi con passare degli anni e in questo modo non consentono ai neurotrasmettitori di funzionare normalmente.

Lo stesso gruppo di ricerca ha isolato cellule del sistema immunitario dal tessuto adiposo di topi giovani e vecchi, andando quindi a sequenziare il genoma per cercare di comprendere cosa fosse a causare il problema. “Abbiamo scoperto - afferma Dixit che i macrofagi ‘anziani’ sono in grado di distruggere un tipo particolare di neurotrasmettitore, le catecolamine. In questo modo non consentono agli adipociti di rilasciare l’energia, dal grasso addominale, quando la domanda aumenta”.

In una seconda parte dello studio i ricercatori americani hanno scoperto che, riducendo nei macrofagi ‘anziani’ le concentrazioni di uno specifico recettore deputato al controllo dell’infiammazione, l’inflammasoma NLRP3, le catecolamine tornavano a fare il loro lavoro, cioè a indurre il catabolismo del tessuto adiposo, esattamente come nei topini giovani. 
In un altro esperimento, gli autori dello studio hanno scoperto che, bloccando un enzima, la monoamino-ossidasi A (MAOA) che risulta aumentato nei macrofagi ‘anziani’, si ripristinava il normale metabolismo del tessuto adiposo nei topi anziani. Questo enzima viene inibito anche da farmaci utilizzati in clinica per il trattamento della depressione, ma è azzardato al momento pensare di poterli usare negli anziani per ‘risvegliare’ il loro metabolismo.

I prossimi step di questo gruppo di ricerca consisteranno nell’esaminare più in dettaglio le cellule del sistema immunitario e come queste interagiscono con le terminazioni nervose. Se il controllo dell’infiammazione nelle cellule immunitarie invecchiate può migliorare il metabolismo, potrebbe indurre anche altri effetti positivi sul sistema nervoso o sui processi legati all’invecchiamento in generale. Un filone di ricerca insomma che, studiando le interazioni tra cellule immunitarie e sistema nervoso, cerca di trovare la strada per ridurre il grasso viscerale, stimolare il metabolismo e migliorare le performance nell’anziano.

giovedì 14 settembre 2017

Sclerosi multipla, alcuni batteri dell'intestino la favoriscono

In futuro nuove cure sulla flora intestinale

Una chiave per curare la sclerosi multipla potrebbe nascondersi nei batteri intestinali e in futuro il decorso della malattia si potrà rallentare o fermare con interventi sull'alimentazione dei pazienti, con probiotici o con un trapianto di flora intestinale per eradicare dalla pancia dei pazienti i batteri nocivi che favoriscono la malattia. Lo suggeriscono due studi pubblicati sulla rivista PNAS, di Sergio Baranzini, scienziato di origine italiana dell'Università di San Francisco.

I lavori mostrano che pazienti con sclerosi multipla presentano nell'intestino batteri rari in persone sane che esercitano effetti deleteri sul sistema immunitario, favorendo la malattia. Baranzini ha anche dimostrato che quando i batteri 'nocivi' sono trapiantati nella pancia di topolini con sclerosi multipla, la loro malattia peggiora più rapidamente. E ancora, Baranzini ha notato che nell'intestino dei pazienti vi è carenza di un altro batterio, buono, protettivo nei confronti della malattia. Nella prima parte del lavoro Baranzini ha confrontato la flora intestinale di 71 pazienti e di 71 soggetti sani di controllo, trovando nei primi concentrazioni maggiori di due batteri: Akkermansia muciniphila e Acinetobacter calcoaceticus.

Ad una serie di test è emerso che questi batteri, interagendo in modo deleterio col sistema immunitario del loro ospite, favoriscono l'insorgere di infiammazione. Poi Baranzini ha constatato la carenza di un terzo batterio, Parabacteroides distasonis, che al contrario ha un'azione antinfiammatoria e un'azione immuno-regolatrice, cioè fa da ''calmante'' al sistema immunitario, lo tiene a bada prevenendo reazioni esagerate. Infine gli esperti hanno trapiantato i batteri dei pazienti su topolini malati di sclerosi e visto che la loro malattia peggiora. Alla luce di questi risultati, conclude lo scienziato, si spera che agendo sulla flora intestinale dei pazienti si possa operare un controllo sul loro sistema immunitario e rallentare dunque la progressione della malattia.

venerdì 1 settembre 2017

Il rischio per il cuore arriva dai carboidrati e non dai grassi

La ricerca presentata al congresso europeo di cardiologia: i grassi saturi riducono l'ictus

Non sono i grassi i principali killer per il cuore ma i glucidi, cioè i carboidrati. Uno studio presentato a Barcellona nel corso del congresso europeo di cardiologia mette in discussione quanto indicato fino ora in tutte le linee guida di prevenzione della salute cardiaca e da decine di studi e documenti scientifici. Lo studio PURE (Prospective Urban Rural Epidemiology), stato condotto dall'Università di Hamilton, in Ontario ed i risultati sono stati presentati oggi e pubblicati su Lancet. La riduzione dei grassi, secondo Mahshid Dehghan, ricercatrice del Population Health Research Institute della McMaster University, ''non migliorerebbe la salute delle persone''. I vantaggi arriverebbero invece riducendo i glucidi, cioè in sostanza i carboidrati sotto il 60 per cento dell'energia totale, ''e aumentando l'assunzione di grassi totali fino al 35 per cento''.

I risultati delle analisi su oltre 135.000 individui provenienti da 18 paesi a basso, medio e alto reddito, nello studio prospettico epidemiologico dimostrano che e' l'elevata assunzione di carboidrati a determinare un maggior rischio di mortalita' cardiovascolare. L'assunzione di grassi, secondo i risultati presentati, è invece, a sorpresa, associata a minori rischi. Gli individui nella fascia alta del consumo di grassi mostravano una riduzione del 23 per cento del rischio di mortalità totale, ma anche una riduzione del 18 per cento del rischio di ictus e del 30 per cento del rischio di mortalità per cause non cardiovascolari. Ciascun tipo di grasso era associato alla riduzione del rischio di mortalità: meno 14 per cento per i grassi saturi, meno 19 per cento per i grassi monoinsaturi, meno 29 per cento per quelli polinsaturi. Una maggiore assunzione di grassi saturi e' stata anzi associata a una riduzione del 21 per cento del rischio di ictus.

martedì 1 agosto 2017

Abbondanza di zuccheri compromette salute mentale

L'elevata assunzione di zuccheri contenuti in alimenti e bevande, a lungo termine può influenzare negativamente la salute psicologica. A mettere in guardia è uno studio pubblicato sulla rivista Scientific Report e condotto presso lo University College London. L'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) raccomanda che gli zuccheri - come amido, glucosio, fruttosio - non dovrebbero rappresentare più del 5-10% del nostro totale apporto calorico. Sono però aggiunti a molti cibi preparati e bevande, come yogurt, succhi di frutta, salsa di pomodori, pasti pronti. Al punto che l'assunzione media di zuccheri è ormai spesso doppia rispetto al livello consigliato, aumentando problemi di salute come obesità, diabete e disturbi cardiovascolari. Ma anche problemi di salute mentale, come la depressione.

I ricercatori lo hanno dimostrato analizzato i dati raccolti nello studio Whitehall II, che ha reclutato oltre 10.000 impiegati pubblici di età compresa tra i 35 ei 55 anni. Ne è emerso che il rischio di sviluppare un comune disturbo mentale dopo 5 anni è stato del 23% più elevato tra gli uomini che hanno consumato più di 67g di zucchero giornalieri rispetto a quelli con un'assunzione inferiore a 40g. Ulteriori ricerche sono necessarie per confermare la causalità di questo aumento. Tuttavia, poiché limitare l'assunzione di zucchero ha già dimostrato di avere numerosi altri benefici per la salute, dovrebbe rimanere un bersaglio dietetico, da oggi con un valore aggiunto in più, ovvero la possibilità di una migliore salute psicologica.

venerdì 7 luglio 2017

Infiammazione delle cellule immunitarie del cervello e obesità

Se ingrassiamo per il troppo mangiare, la colpa potrebbe essere della neuroglia, cellule del sistema immunitario residenti nel cervello. Secondo uno studio appena pubblicato su Cell Metabolism sarebbero queste le responsabili dell’aumento dell’appetito e del conseguente aumento di peso, che si produce in risposta alle diete ricche di grassi.

Da tempo i neuroni dell’ipotalamo sono al centro dell’attenzione per la terapia farmacologica dell’obesità. Ma questo nuovo studio, siglato da ricercatori delle Università della California di San Francisco e del University of Washington Medical Center, suggerisce che anche le cellule della microglia potrebbero rappresentare un interessare target farmacologico, che tra l’altro consentirebbe di evitare molti degli effetti indesiderati dei farmaci anti-obesità attualmente in uso.

“Le cellule microgliali – spiega Suneil Koliwad, professore associato di medicina presso l’UCSF Diabetes Center – costituiscono il 10-15% di tutte le cellule del cervello e rappresentano una via finora inesplorata per trattare l’obesità e le sue conseguenze”.

Sarebbero dunque le cellule microgliali presenti nell’ipotalamo le responsabili dell’aumento di peso legato alle diete ricche di grassi. La regione medio-basale dell’ipotalamo contiene alcuni neuroni specializzati nella regolazione dell’assunzione di cibo e del consumo energetico. Normalmente questa regione cerca di bilanciare il numero di calorie ingerite, con il fabbisogno energetico necessario per mantenere un peso normale, ma studi precedenti avevano già dimostrato che i cibi ricchi di grassi possono alterare questo equilibrio.

Ipotalamo e cellule della microglia. 
I ricercatori americani hanno somministrato ad alcuni animali da esperimento (topi) per 4 settimane una dieta simil-fast food, cioè ricca di grassi; questo determina un’espansione delle cellule della microglia, che vanno ad innescare fenomeni infiammatori locali a livello della regione medio-basale dell’ipotalamo. Gli animali sottoposti a questa dieta, tendono a mangiare di più e a bruciare meno calorie, aumentando così di peso rispetto ai topi sottoposti a diete più salutari.

Un farmaco innovativo per ridurre le cellule della microglia nell’ipotalamo. 
Per capire se fossero proprio le cellule microgliali le responsabili dell’appetito incontrollabile di questi animali e della loro obesità, i ricercatori americani sono andati a ridurre il numero delle cellule della microglia all’interno dell’area medio-basale dell’ipotalamo somministrando loro un farmaco sperimentale, indicato dalla sigla PLX5622, messo a punto da un’aziendabiotech californiana. Gli animali trattati con il farmaco sperimentale finivano col ridurre l’assunzione di cibo del 15% e ingrassavano del 20% in meno rispetto al gruppo di controllo.

Sofisticati esperimenti con topi-Frankenstein. 
A questo punto, il team di ricercatori della Washington University ha ‘prodotto’ un tipo di topi geneticamente modificati in modo da prevenire l’attivazione delle risposte infiammatorie da parte della microglia; questi topi ‘bioingegnerizzati’ mangiavano il 15% in meno di quelli del gruppo di controllo e ingrassavano del 40% in meno, pur essendo nutriti con una dieta ricca di grassi. Questo dimostra che è proprio la ‘vocazione’ infiammatoria della microglia a determinare l’appetito eccessivo e l’aumento di peso in questi animali.

Per confermare questa ipotesi, i ricercatori dell’UCSF hanno messo a punto un’altra razza di topi bioingegnerizzati sui quali è stato testato un farmaco in grado di attivare ‘a comando’ la risposta infiammatoria della microglia. In questo modo sono riusciti a dimostrare che anche nei topi nutriti con una dieta sana, l’induzione dell’infiammazione da parte della microglia nell’ipotalamo faceva sì che gli animali mangiassero il 33% in più, consumassero il 12% in meno di calorie e si ritrovassero alla fine con un aumento di peso del 400% superiore a quello di topi sottoposti alla stessa dieta.

E’ l’infiammazione della microglia a determinare l’aumento di peso. 
“Tutti questi esperimenti – commenta JoshuaThaler, professore associato di medicina presso l’ UW Medicine Diabetes Institute – dimostrano che la reazione infiammatoria della microglia è non solo condizione necessaria per determinare l’aumento di peso osservato con le diete ricche di grassi, ma che è anche sufficiente di per sé nel determinare l’alterata regolazione del bilancio energetico ipotalamico, responsabile dell’aumento di peso”. E una conferma indiretta che questi meccanismi sono presenti anche nell’uomo potrebbe venire dai trial in corso con una altro farmaco sperimentale, il PLX3977, al vaglio di studi per il trattamento di leucemie difficili da trattare, tumori solidi e rare forme di artrite nell’uomo. 

La microglia ‘recluta’ rinforzi dal sangue. 
Nello studio pubblicato su Cell Metabolism, i ricercatori americani hanno anche dimostrato che le diete ricche di grassi inducono le cellule microgliali a reclutare altre cellule del sistema immunitario, richiamandole dalla circolazione e inducendole ad infiltrare l’area medio-basale dell’ipotalamo. Qui giunte, anche le ‘reclute’ contribuiscono attivamente ad amplificare la reazione infiammatoria già innescata dalla microglia residente. Secondo i ricercatori potrebbe essere dunque possibile controllare l'appetito e l’aumento di peso attraverso una serie di approcci immunitari andando a colpire sia le cellule microgliali, che quelle ‘reclutabili’ dal torrente sanguigno. Non è invece ancora chiaro quali siano i ‘segnali’ provenienti dalle diete ricche di grassi in grado di scatenare tute queste reazioni a catena.

Studi di imaging cerebrale hanno evidenziato che l’espansione delle cellule della microglia (gliosi), si riscontra sia negli obesi che nei soggetti affetti da patologie neurodegenerative nei, traumi cranici, nei tumori cerebrali. In questo senso, gli eccessi alimentari, soprattutto se ricchi di grassi, si comportano come una forma di danno cerebrale, che scatena una reazione infiammatoria locale.
Un’altra spiegazione tirata in ballo è la prospettiva evolutiva. In epoca preistorica, i cibi ricchi di calorie scarseggiavano; così quando un uomo primitivo aveva la possibilità di consumare un pasto ricco di calorie dopo un periodo prolungato di digiuno, la microglia diventava un elemento essenziale per stimolare l’appetito e accumulare così quante più calorie possibile per i tempi di magra. Un effetto questo assolutamente deleterio in epoca moderna quando i cibi ricchi di grassi cono facilmente reperibili e a basso costo. In epoca moderna, l’attivazione cronica della microglia diventa assolutamente svantaggiosa e deleteria in quanto induce una stimolazione permanente dei circuiti cerebrali che, portando ad un ulteriore aumento del consumo di cibi grassi, innescano un circolo vizioso che porta all’obesità.

martedì 20 giugno 2017

Parkinson: probabile origine nell’intestino.

Il Parkinson potrebbe partire dall’apparato digerente. E’ stata infatti individuata nell’intestino una molecola strettamente legata alla malattia. La scoperta, pubblicata JCI Insight, avvalora la tesi che la malattia di Parkinson parta dall’intestino stesso e non dal cervello.

Lo studio è stato condotto negli Stati Uniti, a Durham presso la Duke University. Nell’ultimo periodo è stato un susseguirsi di ricerche che hanno suggerito che il morbo di Parkinson, una malattia neurodegenerativa che porta alla morte di alcuni neuroni, abbia inizio nell’intestino: ad esempio numerosi studi hanno mostrato differenze nella flora intestinale dei pazienti; altri hanno evidenziato che recidere (per motivi medici) il nervo vago che collega intestino a cervello rende ”immuni” dalla malattia di Parkinson.

In questo nuovo lavoro su cellule umane e di topi gli esperti Usa hanno scoperto che in alcune cellule intestinali è presente l’alfasinucleina, la molecola che nel cervello dei parkinsoniani diventa malformata e forma degli accumuli dannosi. Gli esperti ipotizzano che vi sia nell’intestino un agente che rende l’alfasinucleina malformata e poi ne consente la dispersione – attraverso il nervo vago – verso il sistema nervoso, in modo molto simile a una malattia prionica (come mucca pazza). Serviranno naturalmente ulteriori studi per verificare questa ipotesi.

venerdì 2 giugno 2017

Sindrome maniaco-depressiva: attenzione alla flora intestinale

La sindrome 'maniaco-depressiva' (o disturbo bipolare), caratterizzata da alti e bassi patologici dell'umore, potrebbe essere legata a ''questioni di pancia'', in particolare ad alterazioni della flora batterica intestinale. Lo suggerisce uno studio pubblicato sul Journal of Psychiatric Research e condotto presso l'Università del Michigan. Diversi studi hanno in passato mostrato che la flora intestinale influenza nel neonato lo sviluppo del cervello e che negli adulti è intimamente collegata con la salute mentale. Di qui l'idea di studiare la flora intestinale di pazienti con disturbo bipolare e confrontarla con quella di soggetti sani di controllo.

Coinvolgendo 115 pazienti e 64 coetanei sani gli esperti hanno evidenziato molte differenze nella composizione della flora intestinale dei primi e dei secondi. In particolare la carenza nei pazienti di un batterio vantaggioso, il Faecalibacterium. Più il Faecalibacterium è carente, inoltre, maggiori risultano i sintomi e la gravità della malattia. Resta da capire se queste differenze siano una causa o una conseguenza della malattia stessa o magari dei farmaci che i pazienti prendono. Intanto i ricercatori hanno iniziato una sperimentazione clinica su pazienti con una dieta a base di grassi buoni per vedere se, cambiando la flora intestinale grazie a questa alimentazione, si ottiene qualche beneficio sul fronte dei sintomi del disturbo bipolare riferiti dai pazienti.

Gastroenterologia | Redazione DottNet | 19/05/2017 15:39

martedì 9 maggio 2017

Cibo salato stimola la fame


Alcuni ricercatori del Centro Max Delbrck di Berlino e della Vanderbilt University, nel Tennessee, approfittando dell’occasione di un viaggio simulato su Marte, hanno condotto uno studio a bordo della navicella disponibile per le simulazioni, che ha mostrato come i cibi salati, contrariamente a quanto si è sempre creduto, non farebbero venire sete, ma fame. I cosmonauti che mangiavano più sale infatti, trattenevano più acqua, e pertanto non avevano particolare sete ma bisogno di più energia.

Lo studio
Gli scienziati hanno osservato due gruppi di 10 volontari (il primo esaminato per 105 giorni, il secondo per 205), cui sono state fornite diete uguali ma con diversi livelli di sale nel cibo. Coloro che avevano assunto più sale hanno urinato maggiormente ma questo non li ha portati a bere di più. Hanno anzi bevuto di meno poiché il sale ha innescato un meccanismo per conservare l’acqua. Prima si riteneva che gli ioni di sodio da cui è composto il sale si legassero alle molecole di acqua e la trasportassero nelle urine.

I nuovi risultati, pubblicati sul Journal of Clinical Investigation, mostrano invece che il sale viene trasportato nelle urine, mentre l’acqua resta immagazzinata nei reni, provocando minor necessità di bere. Secondo ricerche svolte sui topi è emerso che ciò potrebbe esser dovuto all’urea, sostanza che contrasta la tendenza delle molecole di acqua ad esser trascinate via dagli ioni di sodio. Ma la produzione di urea richiede molta energia, il che spiega perché i topi con una dieta con più sale mangiavano di più, così come i cosmonauti con dieta salata lamentava di essere più affamati.

Steatosi epatica non alcolica: il DHA in aiuto del fegato grasso

Uno dei grassi del gruppo degli omega-3, chiamato acido docosa-esa-enoico (DHA) è un grasso ‘buono’ presente ad esempio in pesci come salmone e tonno. Questo grasso sembra proteggere gli obesi da gravi danni e malattie del fegato come cirrosi o cancro. Lo rivela uno studio condotto presso la Oregon State University e pubblicato sulla rivista PLOS ONE.


Gli obesi vanno spesso incontro a una grave malattia del fegato, la steatosi epatica non alcolica (più comunemente detta fegato grasso) che sfocia spessissimo in cirrosi o cancro e per la quale ad oggi non esiste alcuna cura farmacologica. L’unica possibilità terapeutica è data dall’intraprendere una dieta molto stretta e portarla a termine fino in fondo, cosa che però pochi riescono veramente a fare.


Gli esperti hanno fornito del DHA a topi obesi con fegato grasso e visto che questa integrazione blocca la progressione della malattia e previene l’insorgenza di cirrosi o cancro anche se gli animali continuano a seguire una dieta sbagliata (la cosiddetta dieta occidentale), troppo ricca di grassi e zuccheri.


Infine gli esperti hanno visto che pazienti obesi con fegato grasso hanno pochi omega-3 nel sangue e che quando le quantità di questi grassi sani sono aumentate la progressione della steatosi si è fermata.


Nella situazione attuale in cui non esiste alcuna cura per la steatosi epatica, avere un nutriente così facilmente disponibile come il DHA potrebbe essere fondamentale per fermare la diffusione di gravi e spesso mortali malattie epatiche.

venerdì 28 aprile 2017

Vista e memoria del cibo scatenano l’appetito

Ebbene sì, mangiare con gli occhi è possibile. Il segreto è in un meccanismo del cervello che collega direttamente la vista del cibo all’appetito e che è stato osservato in azione nei pesci zebra. Pubblicata su Nature Communications, la scoperta si deve ad un gruppo di ricercatori giapponesi dell’Istituto Nazionale di Genetica (Nig) guidati da Akira Muto. Da qui si potrà partire per capire il modo in cui il cervello controlla l’appetito e potrebbe aiutare a comprendere anche i disturbi alimentari.

”Negli animali vertebrati – ha precisato Muto – il comportamento alimentare è regolato da un’area del cervello chiamata ipotalamo, che funziona come una centralina che controlla ed elabora le informazioni sui bisogni energetici dell’organismo e quelle sulla disponibilità di cibo”. I pesci zebra, come gli esseri umani, ha aggiunto, ”utilizzano principalmente la vista per riconoscere il cibo e sappiamo che l’ipotalamo riceve le informazioni visive sulle prede”.

Tuttavia, finora non era chiaro come le informazioni visive sulle prede fossero trasmesse al centro dell’appetito dell’ipotalamo. Grazie alle tecniche che usano la luce per attivare le singole cellule del cervello, i ricercatori hanno osservato in tempo reale l’attività delle cellule nervose nelle larve del pesce zebra. E’ stato così possibile dimostrare che la vista delle prede attiva la centralina dell’appetito dell’ipotalamo.

Di conseguenza esiste un circuito nervoso che collega direttamente la vista del cibo a questa centralina. ”Lo studio dimostra – ha osservato Muto – che la percezione visiva del cibo e’ legata al comportamento alimentare. Questo è un passo importante per capire come viene regolato l’appetito, sia in condizioni normali, sia nei disturbi alimentari”.

venerdì 14 aprile 2017

I prodotti "diet": alcuni promuovono la formazione di grasso

Poche calorie o "zero calorie" e molto grasso.

Molte persone ritengono che i dolcificanti a basso contenuto calorico, siano da preferire allo zucchero. Ma non è una scelta giusta: il consumo in elevate quantità, in particolare di sucralosio, può promuovere la formazione di grasso, soprattutto nelle persone obese, che già ne hanno in eccesso. Ad aggiungere una nuova prova alla tesi che i dolcificanti promuovano disfunzioni metaboliche è uno studio presentato al 99/esimo congresso della Endocrine Society, ENDO 2017.

Il sucralosio è un dolcificante artificiale con un gusto fino a 650 volte più dolce dello zucchero, usato in tante bevande e cibi dietetici. I ricercatori della George Washington University hanno esposto a una concentrazione di sucralosio pari al consumo quotidiano di quattro lattine di bibita “diet”, cellule staminali derivate da tessuto adiposo umano, per un periodo di 12 giorni: le cellule staminali hanno mostrato un aumento dell’espressione di geni indicatori della produzione di grasso e infiammazione, insieme con un aumento di accumulo di goccioline di grasso.

I ricercatori hanno poi analizzato campioni bioptici di grasso addominale provenienti da otto adulti che consumavano dolcificanti, di cui quattro obesi e quattro normopeso. I risultati delle analisi hanno mostrato un’espressione anomala dei geni collegati alla produzione di grasso, se paragonata a quella normalmente visibile nei soggetti che non consumano dolcificanti artificiali. Allo stesso tempo il trasporto del glucosio dal sangue alle cellule è superiore alla media. Questi effetti risultavano, inoltre, maggiormente amplificati nei soggetti obesi, quelli verso i quali sarebbero particolarmente indirizzati i prodotti dietetici.

Insulino-resistenza e declino cognitivo.

Una ridotta sensibilità all’insulina può indurre un più rapido declino delle facoltà mentali nelle persone più anziane, anche tra quelle che non soffrono di diabete. A confermare questo collegamento è uno studio coordinato da David Tanne, della Tel Aviv University, in Israele, e pubblicato dal Journal of Alzheimer’s Disease.

I ricercatori israeliani hanno seguito 489 persone per più di vent’anni. All’inizio dello studio, i pazienti avevano un’età media di 58 anni e tutti soffrivano di malattie cardiovascolari. Le persone con diabete all’inizio dello studio, o che lo sviluppavano durante la ricerca, sono state escluse. Tanne e colleghi hanno eseguito misurazioni della funzionalità cognitiva attraverso test che valutavano memoria, funzione esecutiva, elaborazione del campo visivo e attenzione, quando i pazienti avevano un’età media di 72 anni e di nuovo quando avevano circa 77 anni. I ricercatori hanno evidenziato che chi aveva i più alti livelli di resistenza all’insulina, mostrava le peggiori performance cognitive e aveva i punteggi più bassi nei test di memoria e funzionalità.

Le osservazioni
Una limitazione dello studio è dovuta al fatto che è stato condotto principalmente su uomini, e dunque con le donne potrebbe emergere un risultato differente. Inoltre, una buona parte dei partecipanti non si è sottoposta alla seconda valutazione, facendo supporre che all’ultima parte dello studio abbiano partecipato solo le persone più sane. Probabilmente, gli alti livello di zucchero nel sangue dei partecipanti allo studio possono avere un impatto negativo sui vasi sanguigni a livello del cervello, come Barbara Bendlin, ricercatrice all’University of Wisconsin-Madison’s Alzheimer’s Disease Research Center, non era coinvolta nello studio.

venerdì 31 marzo 2017

Un bagno caldo come attività fisica: effetti metabolico-glicemici.

Proprio come si usava nei tempi antichi, torna alla ribalta il bagno caldo. Oggi, infatti, la scienza promuove questo antico svago come un vero e proprio ‘tuffo di salute’, con effetti benefici comparabili a quelli dell’attività fisica. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista Temperature e condotto presso la Loughborough University in Gran Bretagna.

I ricercatori hanno dimostrato che un bagno caldo (40 gradi) di un’ora ha effetti comparabili a quello di un giro in bici di pari durata per il controllo della concentrazione di zucchero nel sangue. Inoltre consente di bruciare tante calorie (140 circa) quante vengono bruciate da una camminata di mezz’ora. In particolare gli esperti hanno visto che le due attività, passiva e rilassante la prima, attiva e anche un po’ faticosa la seconda, hanno effetti simili a livello metabolico. In entrambi i casi la temperatura corporea sale di un grado, migliora il controllo dello zucchero nel sangue, si bruciano calorie (anche se con la bici un po’ di più, l’effetto del bagno sulle calorie non è indifferente). Addirittura il bagno caldo è risultato più efficace della bici nel limitare il picco glicemico tipico del dopo pranzo. Anche a livello della risposta anti-infiammatoria bagno caldo ed esercizio fisico sortiscono un effetto simile, suggerendo che fare bagni caldi può contribuire a ridurre l’infiammazione cronica che è tipica proprio di malattie quali il diabete.

Infine, in un altro studio pubblicato sul Journal of Applied Phisiology lo stesso gruppo di ricerca ha dimostrato che il calore passivo (come quello appunto di un bel bagno caldo) stimola nell’organismo la produzione di ossido di azoto, una sostanza naturale che abbassa la pressione del sangue ed è fondamentale per proteggere i vasi sanguigni. Quindi il calore potrebbe rappresentare un buon rimedio per i diabetici che hanno sempre una carenza di ossido di azoto e tendono ad avere problemi circolatori.

Il gene che invecchia il cervello.

Il cervello invecchia a causa di un gene. Nello specifico, è un difetto genetico niente affatto raro si chiama ‘TMEM106B’ e una persona che nel suo Dna ne possieda due copie presenta un cervello più vecchio di 12 anni rispetto a un coetaneo che ha due copie del corrispondente gene sano. Lo studio – dal titolo Differential aging analysis in human cerebral cortex identifies variants in TMEM106B and GRN that regulate aging phenotypes – è stato condotto presso la Columbia University Medical Center (CUMC) e pubblicato su Cell Systems.

Lo studio
Pur in assenza di malattie, non tutti invecchiamo allo stesso modo; il cervello di alcuni resta scattante anche in età anziana, mentre quello di altri perde colpi dopo una certa età.
Gli scienziati Usa hanno analizzato dati genetici del cervello (post-mortem) di 1904 persone, tutte decedute senza malattie degenerative.

Gli esperti hanno in prima battuta stabilito la reale età biologica di ciascuno, proprio attraverso l’analisi dei geni espressi nel suo cervello al momento della morte. Dopo di che hanno analizzato l’età biologica di ciascuno in rapporto all’età anagrafica e sono andati alla ricerca di geni che in qualche modo condizionassero l’invecchiamento del cervello, in particolare della corteccia frontale, sede di cruciali funzioni intellettive.

E’ emerso che, a parità di età anagrafica, una persona che possieda nel proprio Dna due copie della mutazione TMEM106B ha un cervello più vecchio di 12 anni rispetto a un coetaneo che possiede due copie sane del gene. TMEM106B è piuttosto frequente: un terzo della popolazione ne possiede una copia, un altro terzo ne possiede due copie.

Gli esperti hanno anche visto che TMEM106B inizia ad esercitare i suoi effetti deleteri sul cervello dopo i 65 anni. In futuro un test genetico alla ricerca del gene TMEM106B potrebbe aiutare a capire chi è suscettibile a invecchiamento cerebrale precoce e più vulnerabile alla demenza.

sabato 25 marzo 2017

Obesità e Alzheimer: individuati potenziali collegamenti molecolari


L’insulino-resistenza come link tra l’eccesso di nutrienti e la malattia neurodegenerativa.


Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza degenerativa progressiva, colpisce la memoria e le funzioni cognitive, e può indurre stati di confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale. La malattia è strettamente associata a placche amiloidi e ammassi neurofibrillari riscontrati nel cervello, ma non è nota la causa primaria di tale degenerazione. Si ritiene ci siano diversi geni coinvolti nella patogenesi oltre a dei fattori di rischio come traumi, depressione o ipertensione.

Un recente lavoro scientifico suggerisce, per la prima volta, che l’obesità, oltre ad essere un fattore di rischio per gli eventi cardiovascolari, può anche contribuire all’insorgenza dell’Alzheimer. L’obesità porta spesso con sé altre condizioni particolari come l’insulino-resistenza che sembra essere un fattore chiave in entrambe le patologie. L’obesità, infatti, essendo associata ad un eccessivo introito di grassi e zuccheri, rappresenta uno stadio preclinico verso l’insulino-resistenza nel corso del quale gli interventi nutrizionali sembrano dare grandi benefici. In tale contesto, agire sugli stili di vita per impedire l’instaurarsi di fattori di rischio legati all’obesità potrebbe contemporaneamente aiutare a preservare le funzioni cognitive e controllare lo sviluppo e la progressione dell’Alzheimer.

Il lavoro di Rodriguez-Casado riassume:
i meccanismi molecolari coinvolti nell’insulino-resistenza indotta dall’obesità
il contributo dell’infiammazione periferica e delle vie di segnalazione difettive legate all’insulina
l’accumulo ectopico dei lipidi
lo sviluppo dell’Alzheimer attraverso l’attivazione dell’infiammazione cerebrale
insulino-resistenza neuronale
la disfunzione cognitiva legata al disordine neurodegenerativo

Attraverso uno studio approfondito delle migliori evidenze scientifiche e delle terapie farmacologiche e non-farmacologiche per la gestione dell’obesità, insulino-resistenza e Alzheimer, gli autori sono riusciti a definire i meccanismi molecolari alla base dell’interconnessione tra queste patologie.

L’importanza dello studio è legata alla possibilità di delineare degli interventi nutrizionali come possibili approcci per prevenire o ritardare la progressione dell’Alzheimer e trattare, parallelamente, l’obesità.


Medical Information Dottnet | 24/03/2017 10:07

Fonte:

Rodriguez-Casado et al. Defective Insulin Signalling, Mediated by Inflammation, Connects Obesity to Alzheimer Disease; Relevant Pharmacological Therapies and Preventive Dietary Interventions. Curr Alzheimer Res. 2017 Mar 16.

venerdì 17 marzo 2017

Nutrizione ed ormoni: indice/carico glicemico, diabete, ritenzione ed anti-aging.


Con piacere comunichiamo che i posti disponibili per la serata sono quasi esauriti. Avvisiamo chi fosse intenzionato a partecipare che rimangono solo poche disponibilità. Un ringraziamento anticipato da parte degli organizzatori per la vostra partecipazione così numerosa anche a questa edizione.




mercoledì 15 marzo 2017

Stress e cibo spazzatura: negli adolescenti in aumento il rischio di malattie intestinali


Tra stress e cattive abitudini alimentari, “gli adolescenti sono tra le categorie più a rischio di sviluppare malattie infiammatorie croniche dell’intestino” e “rappresentano quasi il 25% dei pazienti”. E’ quanto afferma Antonio Gasbarrini, direttore dell’Area Gastroenterologia della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli, intervenuto ieri alla presentazione del progetto “In their shoes”, ovvero una app pensata perché si possa ‘vestire i panni’ dei pazienti comprendendo così le loro difficoltà quotidiane. Spiega l’esperto

Al lavoro come al cinema, a cena fuori come in vacanza. Tra mal di pancia, rischio di disidratazione, difficoltà a raggiungere una toilette e necessità di prevedere tutti gli spostamenti. Questa la quotidianità di chi soffre di morbo di Chron e colite cronica ulcerosa. Spesso la patologia “si attiva durante stress psicologici, come un esame, la perdita di un lavoro, la fine di un fidanzamento. Ma risente anche di un’alimentazione non sana”, spiega Gasbarrini, ordinario di Malattie dell’Apparato Digerente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Per questo “colpisce in particolare adolescenti e giovani adulti, anche mamme”.

I sintomi però mettono in imbarazzo. Per questo, vengono taciuti e spesso rimangono per anni nel sommerso. “Dei 200mila malati stimati in Italia, 161mila sono quelli diagnosticati mentre circa 40mila ancora non lo sono. Il nostro scopo è individuare precocemente chi ne soffre”, prosegue. Inoltre come tante altre malattie autoimmuni, “necessitano terapie personalizzate e un pool di medici multidisciplinare. Solo così si possono abbattere i costi della cura”. Costi che in Italia sono compresi tra 19 e 23mila euro annui per ogni paziente, senza considerare quelli indiretti dovuti alla ridotta produttività.

venerdì 24 febbraio 2017

Dieta e batteri intestinali: un ruolo nell'Alzheimer

I batteri intestinali possono giocare un ruolo nella malattia di Alzheimer
La composizione della flora intestinale è di grande interesse per la ricerca sulla malattia di Alzheimer.

Un nuovo studio condotto dall’Università di Lund in Svezia ha dimostrato che i batteri intestinali possono accelerare lo sviluppo della malattia di Alzheimer. I risultati aprono la strada a nuove opportunità per la prevenzione e il trattamento della malattia.

I batteri intestinali hanno un impatto importante sulla nostra salute attraverso l’interazione tra il sistema immunitario, la mucosa intestinale e la nostra dieta. La composizione della flora intestinale deriva dai batteri che riceviamo alla nascita, dai nostri geni e dalla nostra dieta.

Studiando topi sani e topi malati, i ricercatori hanno scoperto che i topi affetti dal morbo di Alzheimer hanno una diversa composizione della flora batterica intestinale rispetto ai topi sani. I ricercatori hanno anche studiato la malattia di Alzheimer nei topi che erano completamente privi dei batteri intestinali, per testare ulteriormente il rapporto tra batteri intestinali e la malattia ed hanno scoperto che i topi senza batteri avevano una quantità significativamente minore di placche beta-amiloide nel cervello, il segno distintivo della malattia di Alzheimer.

Per chiarire il legame tra flora intestinale e l’insorgenza della malattia, i ricercatori hanno trasferito i batteri intestinali di topi malati nei topi privi di batteri ed hanno scoperto che i topi che hanno ricevuto i batteri intestinali da topi malati hanno sviluppato più placche beta amiloidi nel cervello rispetto ai topi che hanno ricevuto il trasferimento di batteri intestinali da topi sani. “E’ stato sorprendente verificare che i topi che mancavano completamente di batteri hanno sviluppato meno placche beta amiloidi nel cervello”, dice il ricercatore Frida Fak Hallenius, del Food for Health Science Centre alla Lund.

I risultati indicano che ora si può iniziare a ricercare nuovi modi per prevenire la malattia e ritardarne l’insorgenza. I ricercatori affermano: “Riteniamo che questo sia un importante passo avanti poichè attualmente siamo in grado di alleviare solo i sintomi della malattia di Alzheimer con farmaci antiretrovirali”.

Si continua quindi a studiare il ruolo dei batteri intestinali nello sviluppo della malattia di Alzheimer e testare nuovi tipi di strategie preventive e terapeutiche basate sulla modulazione della flora batterica intestinale, attraverso la dieta e nuovi tipi di probiotici.

Celiachia e infiammazioni intestinali: individuato l'interruttore

E’ stato scoperto un ‘interruttore molecolare’ che sembra causare le malattie infiammatorie intestinali – morbo di Crohn e rettocolite ulcerosa – e la celiachia; una scoperta che potrebbe portare a trattamenti più efficaci e mirati. Lo confermano i risultati di una ricerca, condotta da scienziati del King’s College di Londra e dello University College di Londra (UCL) che sono stati pubblicati sulla rivista PLOS Genetics.

La scoperta
A svolgere questo ruolo chiave è una molecola del sistema immunitario chiamata T-bet, che regola il rischio genetico in malattie specifiche. T-bet svolge un ruolo importante nel coordinare le risposte immunitarie e, in pazienti con infiammazione intestinale cronica, e quando ha un comportamento anomalo, provoca la reazione immunitaria che porta allo sviluppo dell’infiammazione intestinale. Questo indicherebbe che, per la prima volta, i ricercatori possono avere un obiettivo specifico su cui indirizzare gli sforzi per mettere a punto nuovi trattamenti per queste condizioni autoimmuni croniche che colpiscono milioni di persone al mondo. Una grande quantità di lavoro, nel corso degli ultimi dieci anni, è stato fatto sulla predisposizione genetica alle malattie autoimmuni come in effetti sono quelle infiammatorie intestinali e la celiachia. Tuttavia, è stato molto difficile sviluppare trattamenti efficaci perché nello sviluppo di queste malattie sono coinvolti un gran numero di geni e ciascuno contribuisce in una parte molto piccola.

Commenti degli autori
“La nostra ricerca delinea un focus specifico su cui concentrarsi per lo sviluppo di nuove terapie per queste malattie che hanno un effetto profondo sulla vita dei malati”, ha commentato uno degli autori senior dello studio, Graham Lord del King’s College London. “Capire come il nostro DNA influenza il nostro rischio di sviluppare malattie specifiche – aggiunge il coautore Richard Jenner, dell’UCL Cancer Institute – è la chiave per lo sviluppo di terapie di precisione per le più gravi malattie. C’è ancora molto lavoro da fare prima di arrivare a nuovi trattamenti, ma questa scoperta è un significativo passo avanti”.

Vincere la depressione con la dieta mediterranea

La dieta mediterranea, insieme con altri accorgimenti a tavola, può essere d’aiuto anche per contrastare la depressione. In pratica si tratta di evitare alcuni cibi (ad esempio dolci e bibite) dando la preferenza ad altri (cereali integrali, legumi, uova, carni magre, olio d’oliva). E’ quanto rivela una sperimentazione clinica condotta in Australia da Felice Jacka della Deakin University.

Le premesse
Secondo quanto riferito sulla rivista BMC Medicine, il nuovo studio clinico si basa su una serie di evidenze scientifiche pubblicate in cui si misurava il rischio di depressione di persone che adottavano una dieta sana o, invece, inclini a mangiare in modo scorretto. Da questi studi emergeva che la depressione è più frequente tra coloro che conducono una dieta poco salubre così Jacka ha pensato di allestire una sperimentazione clinica per vedere se effettivamente la dieta mediterranea potesse in qualche modo trattare il disturbo depressivo.

Lo studio
Nello studio Smiles, Jacka ha coinvolto 67 pazienti con depressione da moderata a grave: metà del campione ha seguito per 12 settimane una dieta mediterranea modificata a base sostanzialmente di cereali integrali, molti legumi, carne magra, uova, pesce latticini non zuccherati. con un limitatissimo consumo di bibite e alcolici Il resto del campione per le 12 settimane doveva invece continuare la propria dieta di sempre. Il livello di depressione di tutti i partecipanti è stato misurato con una scala (da 0 a 60 dove 60 indica depressione grave e 0 remissione) prima e dopo le 12 settimane. E’ così emerso che tra coloro che hanno seguito la dieta mediterranea il livello di depressione è calato; in alcuni pazienti si è addirittura raggiunta la remissione.

Resta comunque da approfondire quali siano gli ingredienti della dieta mediterranea con effetti antidepressivi, ma è probabile che sia un mix di tutto ad esempio la ricchezza di grassi buoni che proteggono il cervello e il ridotto consumo di zuccheri tossici per il cervello.

giovedì 9 febbraio 2017

Soia e tumore della mammella: il paradosso.

La soia protegge contro il tumore della mammella, ma guai a farsi prendere dalla passione dopo la diagnosi del tumore perché può vanificare la risposta al tamoxifene e favorire la comparsa di recidive. Questo in sintesi il messaggio di uno studio appena pubblicato su Clinical Cancer Research. 

Mangiare o bere prodotti a base di soia durante il trattamento per tumore della mammella fa bene o male? I ricercatori del Georgetown Lombardi Comprehensive Cancer Center rispondono a questa domanda in uno studio appena pubblicato su Clinical Cancer Research. 

La ricerca, condotta su modelli animali (ratto), ha consentito di individuare le modalità attraverso le quali un consumo costante di soia sul lungo periodo migliora l’efficacia del tamoxifene e riduce il rischio di recidiva del tumore della mammella. Lo stesso studio rivela però anche che iniziare a consumare prodotti a base di soia per la prima volta durante il trattamento con tamoxifene riduce l’efficacia di questo farmaco e dunque facilita la comparsa di recidive.

Ad esercitare questo effetto ‘positivo’ o ‘negativo’ sull’outcome del trattamento con tamoxifene è soprattutto la genisteina, uno degli isoflavoni più attivi della soia.

“Da tempo è noto il cosiddetto paradosso della genisteina – spiega Leena Hilakivi-Clarke, professore di oncologia al Georgetown Lombardi - un composto che ha una struttura simile a quella degli estrogeni e che è in grado, entro certo limiti, di attivare i recettori per gli estrogeni. E’ noto che gli estrogeni svolgono un importante ruolo nella crescita del tumore della mammella; per questo l’elevato consumo alimentare di soia tra le donne asiatiche correla con un tasso di tumore della mammella cinque volte inferiore a quello registrato nelle donne dei Pesi occidentali, che di soia ne consumano molto meno. Ma allora perché la soia, che mima gli estrogeni, risulta protettiva contro il cancro della mammella nelle donne asiatiche?”

Oltre il 70% dei tumori della mammella (nel 2012 ne sono stati registrati 1,67 milioni di nuovi casi nel mondo) hanno recettori per gli estrogeni; il tamoxifene e le altre terapie endocrine utilizzate per questo tumore hanno appunto lo scopo di ridurre questo effetto di promozione della crescita tumorale tipico degli estrogeni. Purtroppo, circa la metà delle pazienti trattate con questi farmaci finiscono con il diventare resistenti a queste terapie e/o sviluppano una recidiva tumorale.

Lo studio appena pubblicato è riuscito ad evidenziare su modello di ratto di tumore della mammella che è il timingdi assunzione della genisteina il fattore cruciale per far pendere l’ago della bilancia verso un outcome positivo o al contrario negativo nei soggetti in trattamento con tamoxifene.

Chi è abituato da tempo a consumare prodotti a base di soia prima della comparsa di un tumore della mammella, mostra una migliore immunità globale contro questa forma di tumore che lo protegge dallo sviluppo e dalle recidive di tumore della mammella. “La genisteina – spiega il leader dello studio Xiyuan Zhang – inibisce anche il meccanismo dell’autofagia che consente alle cellule tumorali di sopravvivere e che spiega perché funziona il tamoxifene.”

Studi condotti in passato su donne non hanno dimostrato effetti negativi del consumo di soia sull’outcome del tumore della mammella; addirittura le donne asiatiche o caucasiche che consumano anche solo 1/3 di tazza di latte di soia al giorno (l’equivalente di 10 mg di isoflavoni) sono quelle che presentano il più basso rischio di recidiva di tumore della mammella.

Dunque un effetto protettivo importante. Ma la storia è molto diversa, sembra suggerire questo studio, se la passione per la soia scatta dopo che il tumore della mammella ha fatto la sua comparsa.
In questo studio su animali da esperimento, cominciare ad assumere genisteina dopo la comparsa del tumore ha fatto si che non si scatenasse una risposta immunitaria anti-cancro; “inoltre – spiega Zhang - anche se non sappiamo ancora attraverso quale meccanismo, questo ha reso gli animali resistenti agli effetti benefici del tamoxifene,aumentando così il rischio di una recidiva”.

I ratti che avevano consumato genisteina da adulti presentavano infatti un rischio di recidiva di carcinoma della mammella del 7% dopo trattamento con tamoxifene, contro il 33% di quelli esposti alla genisteina solo dopo la comparsa del tumore.

“Siamo riusciti a risolvere il puzzle del rapporto genisteina-cancro della mammella nel nostro modello di ratto, riuscendo a spiegare perfettamente il paradosso osservato negli studi animali e sull’uomo condotti in passato. Molti oncologi consigliano tout court alle loro pazienti di non assumere dei supplementi di isoflavoni o di consumare alimenti a base di soia. Ma i nostri risultati – afferma Hilakivi-Clarke - suggeriscono un messaggio più sfumato: le pazienti con cancro della mammella dovrebbero continuare a consumare alimenti a base di soia dopo la diagnosi, ma non è il caso di cominciare a consumarli dopo una diagnosi di cancro della mammella, se non si è mai assunta in precedenza la genisteina.”

giovedì 2 febbraio 2017

Bulimia: elettrostimolazione cerebrale efficace e poco invasiva

Un esperimento condotto presso il King’s College di Londra e pubblicato sulla rivista Plos One ha rivelato che stimolando il cervello con una impercettibile corrente si spengono i sintomi della bulimia. I pazienti trattati riducono le abbuffate, hanno più autocontrollo a tavola, diminuiscono i comportamenti a rischio come i digiuni, e manifestano meno preoccupazioni relativamente al proprio corpo e al proprio peso.

L’esperimento
Questi risultati sono stati ottenuti su 39 pazienti con bulimia trattati con la stimolazione transcranica a corrente diretta, (tecnica già in uso in America contro la depressione) che consiste nell’applicare degli elettrodi sulla scalpo e, tramite questi, inviare una corrente del tutto indolore e non invasiva (che il soggetto neppure percepisce) alla sua corteccia cerebrale. I ricercatori hanno sottoposto l’intero campione sia a una seduta di 20 minuti di stimolazione vera, sia a una stimolazione placebo ed hanno osservato quanto l’uno e l’altro trattamento incidessero sui sintomi riportati dai pazienti il giorno dopo la seduta.

E’ emerso che la stimolazione vera, ma non quella placebo, riduce in modo considerevole i sintomi della bulimia, con effetti osservabili il giorno dopo la stimolazione stessa. Secondo i ricercatori un ciclo prolungato di sedute di stimolazione transcranica potrebbe avere effetti a lungo termine sui pazienti bulimici e potrebbe essere una valida alternativa alla psicoterapia che non funziona su tutti i pazienti.