Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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venerdì 28 aprile 2017

Vista e memoria del cibo scatenano l’appetito

Ebbene sì, mangiare con gli occhi è possibile. Il segreto è in un meccanismo del cervello che collega direttamente la vista del cibo all’appetito e che è stato osservato in azione nei pesci zebra. Pubblicata su Nature Communications, la scoperta si deve ad un gruppo di ricercatori giapponesi dell’Istituto Nazionale di Genetica (Nig) guidati da Akira Muto. Da qui si potrà partire per capire il modo in cui il cervello controlla l’appetito e potrebbe aiutare a comprendere anche i disturbi alimentari.

”Negli animali vertebrati – ha precisato Muto – il comportamento alimentare è regolato da un’area del cervello chiamata ipotalamo, che funziona come una centralina che controlla ed elabora le informazioni sui bisogni energetici dell’organismo e quelle sulla disponibilità di cibo”. I pesci zebra, come gli esseri umani, ha aggiunto, ”utilizzano principalmente la vista per riconoscere il cibo e sappiamo che l’ipotalamo riceve le informazioni visive sulle prede”.

Tuttavia, finora non era chiaro come le informazioni visive sulle prede fossero trasmesse al centro dell’appetito dell’ipotalamo. Grazie alle tecniche che usano la luce per attivare le singole cellule del cervello, i ricercatori hanno osservato in tempo reale l’attività delle cellule nervose nelle larve del pesce zebra. E’ stato così possibile dimostrare che la vista delle prede attiva la centralina dell’appetito dell’ipotalamo.

Di conseguenza esiste un circuito nervoso che collega direttamente la vista del cibo a questa centralina. ”Lo studio dimostra – ha osservato Muto – che la percezione visiva del cibo e’ legata al comportamento alimentare. Questo è un passo importante per capire come viene regolato l’appetito, sia in condizioni normali, sia nei disturbi alimentari”.

venerdì 14 aprile 2017

I prodotti "diet": alcuni promuovono la formazione di grasso

Poche calorie o "zero calorie" e molto grasso.

Molte persone ritengono che i dolcificanti a basso contenuto calorico, siano da preferire allo zucchero. Ma non è una scelta giusta: il consumo in elevate quantità, in particolare di sucralosio, può promuovere la formazione di grasso, soprattutto nelle persone obese, che già ne hanno in eccesso. Ad aggiungere una nuova prova alla tesi che i dolcificanti promuovano disfunzioni metaboliche è uno studio presentato al 99/esimo congresso della Endocrine Society, ENDO 2017.

Il sucralosio è un dolcificante artificiale con un gusto fino a 650 volte più dolce dello zucchero, usato in tante bevande e cibi dietetici. I ricercatori della George Washington University hanno esposto a una concentrazione di sucralosio pari al consumo quotidiano di quattro lattine di bibita “diet”, cellule staminali derivate da tessuto adiposo umano, per un periodo di 12 giorni: le cellule staminali hanno mostrato un aumento dell’espressione di geni indicatori della produzione di grasso e infiammazione, insieme con un aumento di accumulo di goccioline di grasso.

I ricercatori hanno poi analizzato campioni bioptici di grasso addominale provenienti da otto adulti che consumavano dolcificanti, di cui quattro obesi e quattro normopeso. I risultati delle analisi hanno mostrato un’espressione anomala dei geni collegati alla produzione di grasso, se paragonata a quella normalmente visibile nei soggetti che non consumano dolcificanti artificiali. Allo stesso tempo il trasporto del glucosio dal sangue alle cellule è superiore alla media. Questi effetti risultavano, inoltre, maggiormente amplificati nei soggetti obesi, quelli verso i quali sarebbero particolarmente indirizzati i prodotti dietetici.

Insulino-resistenza e declino cognitivo.

Una ridotta sensibilità all’insulina può indurre un più rapido declino delle facoltà mentali nelle persone più anziane, anche tra quelle che non soffrono di diabete. A confermare questo collegamento è uno studio coordinato da David Tanne, della Tel Aviv University, in Israele, e pubblicato dal Journal of Alzheimer’s Disease.

I ricercatori israeliani hanno seguito 489 persone per più di vent’anni. All’inizio dello studio, i pazienti avevano un’età media di 58 anni e tutti soffrivano di malattie cardiovascolari. Le persone con diabete all’inizio dello studio, o che lo sviluppavano durante la ricerca, sono state escluse. Tanne e colleghi hanno eseguito misurazioni della funzionalità cognitiva attraverso test che valutavano memoria, funzione esecutiva, elaborazione del campo visivo e attenzione, quando i pazienti avevano un’età media di 72 anni e di nuovo quando avevano circa 77 anni. I ricercatori hanno evidenziato che chi aveva i più alti livelli di resistenza all’insulina, mostrava le peggiori performance cognitive e aveva i punteggi più bassi nei test di memoria e funzionalità.

Le osservazioni
Una limitazione dello studio è dovuta al fatto che è stato condotto principalmente su uomini, e dunque con le donne potrebbe emergere un risultato differente. Inoltre, una buona parte dei partecipanti non si è sottoposta alla seconda valutazione, facendo supporre che all’ultima parte dello studio abbiano partecipato solo le persone più sane. Probabilmente, gli alti livello di zucchero nel sangue dei partecipanti allo studio possono avere un impatto negativo sui vasi sanguigni a livello del cervello, come Barbara Bendlin, ricercatrice all’University of Wisconsin-Madison’s Alzheimer’s Disease Research Center, non era coinvolta nello studio.