Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


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venerdì 31 marzo 2017

Un bagno caldo come attività fisica: effetti metabolico-glicemici.

Proprio come si usava nei tempi antichi, torna alla ribalta il bagno caldo. Oggi, infatti, la scienza promuove questo antico svago come un vero e proprio ‘tuffo di salute’, con effetti benefici comparabili a quelli dell’attività fisica. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista Temperature e condotto presso la Loughborough University in Gran Bretagna.

I ricercatori hanno dimostrato che un bagno caldo (40 gradi) di un’ora ha effetti comparabili a quello di un giro in bici di pari durata per il controllo della concentrazione di zucchero nel sangue. Inoltre consente di bruciare tante calorie (140 circa) quante vengono bruciate da una camminata di mezz’ora. In particolare gli esperti hanno visto che le due attività, passiva e rilassante la prima, attiva e anche un po’ faticosa la seconda, hanno effetti simili a livello metabolico. In entrambi i casi la temperatura corporea sale di un grado, migliora il controllo dello zucchero nel sangue, si bruciano calorie (anche se con la bici un po’ di più, l’effetto del bagno sulle calorie non è indifferente). Addirittura il bagno caldo è risultato più efficace della bici nel limitare il picco glicemico tipico del dopo pranzo. Anche a livello della risposta anti-infiammatoria bagno caldo ed esercizio fisico sortiscono un effetto simile, suggerendo che fare bagni caldi può contribuire a ridurre l’infiammazione cronica che è tipica proprio di malattie quali il diabete.

Infine, in un altro studio pubblicato sul Journal of Applied Phisiology lo stesso gruppo di ricerca ha dimostrato che il calore passivo (come quello appunto di un bel bagno caldo) stimola nell’organismo la produzione di ossido di azoto, una sostanza naturale che abbassa la pressione del sangue ed è fondamentale per proteggere i vasi sanguigni. Quindi il calore potrebbe rappresentare un buon rimedio per i diabetici che hanno sempre una carenza di ossido di azoto e tendono ad avere problemi circolatori.

Il gene che invecchia il cervello.

Il cervello invecchia a causa di un gene. Nello specifico, è un difetto genetico niente affatto raro si chiama ‘TMEM106B’ e una persona che nel suo Dna ne possieda due copie presenta un cervello più vecchio di 12 anni rispetto a un coetaneo che ha due copie del corrispondente gene sano. Lo studio – dal titolo Differential aging analysis in human cerebral cortex identifies variants in TMEM106B and GRN that regulate aging phenotypes – è stato condotto presso la Columbia University Medical Center (CUMC) e pubblicato su Cell Systems.

Lo studio
Pur in assenza di malattie, non tutti invecchiamo allo stesso modo; il cervello di alcuni resta scattante anche in età anziana, mentre quello di altri perde colpi dopo una certa età.
Gli scienziati Usa hanno analizzato dati genetici del cervello (post-mortem) di 1904 persone, tutte decedute senza malattie degenerative.

Gli esperti hanno in prima battuta stabilito la reale età biologica di ciascuno, proprio attraverso l’analisi dei geni espressi nel suo cervello al momento della morte. Dopo di che hanno analizzato l’età biologica di ciascuno in rapporto all’età anagrafica e sono andati alla ricerca di geni che in qualche modo condizionassero l’invecchiamento del cervello, in particolare della corteccia frontale, sede di cruciali funzioni intellettive.

E’ emerso che, a parità di età anagrafica, una persona che possieda nel proprio Dna due copie della mutazione TMEM106B ha un cervello più vecchio di 12 anni rispetto a un coetaneo che possiede due copie sane del gene. TMEM106B è piuttosto frequente: un terzo della popolazione ne possiede una copia, un altro terzo ne possiede due copie.

Gli esperti hanno anche visto che TMEM106B inizia ad esercitare i suoi effetti deleteri sul cervello dopo i 65 anni. In futuro un test genetico alla ricerca del gene TMEM106B potrebbe aiutare a capire chi è suscettibile a invecchiamento cerebrale precoce e più vulnerabile alla demenza.

sabato 25 marzo 2017

Obesità e Alzheimer: individuati potenziali collegamenti molecolari


L’insulino-resistenza come link tra l’eccesso di nutrienti e la malattia neurodegenerativa.


Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza degenerativa progressiva, colpisce la memoria e le funzioni cognitive, e può indurre stati di confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale. La malattia è strettamente associata a placche amiloidi e ammassi neurofibrillari riscontrati nel cervello, ma non è nota la causa primaria di tale degenerazione. Si ritiene ci siano diversi geni coinvolti nella patogenesi oltre a dei fattori di rischio come traumi, depressione o ipertensione.

Un recente lavoro scientifico suggerisce, per la prima volta, che l’obesità, oltre ad essere un fattore di rischio per gli eventi cardiovascolari, può anche contribuire all’insorgenza dell’Alzheimer. L’obesità porta spesso con sé altre condizioni particolari come l’insulino-resistenza che sembra essere un fattore chiave in entrambe le patologie. L’obesità, infatti, essendo associata ad un eccessivo introito di grassi e zuccheri, rappresenta uno stadio preclinico verso l’insulino-resistenza nel corso del quale gli interventi nutrizionali sembrano dare grandi benefici. In tale contesto, agire sugli stili di vita per impedire l’instaurarsi di fattori di rischio legati all’obesità potrebbe contemporaneamente aiutare a preservare le funzioni cognitive e controllare lo sviluppo e la progressione dell’Alzheimer.

Il lavoro di Rodriguez-Casado riassume:
i meccanismi molecolari coinvolti nell’insulino-resistenza indotta dall’obesità
il contributo dell’infiammazione periferica e delle vie di segnalazione difettive legate all’insulina
l’accumulo ectopico dei lipidi
lo sviluppo dell’Alzheimer attraverso l’attivazione dell’infiammazione cerebrale
insulino-resistenza neuronale
la disfunzione cognitiva legata al disordine neurodegenerativo

Attraverso uno studio approfondito delle migliori evidenze scientifiche e delle terapie farmacologiche e non-farmacologiche per la gestione dell’obesità, insulino-resistenza e Alzheimer, gli autori sono riusciti a definire i meccanismi molecolari alla base dell’interconnessione tra queste patologie.

L’importanza dello studio è legata alla possibilità di delineare degli interventi nutrizionali come possibili approcci per prevenire o ritardare la progressione dell’Alzheimer e trattare, parallelamente, l’obesità.


Medical Information Dottnet | 24/03/2017 10:07

Fonte:

Rodriguez-Casado et al. Defective Insulin Signalling, Mediated by Inflammation, Connects Obesity to Alzheimer Disease; Relevant Pharmacological Therapies and Preventive Dietary Interventions. Curr Alzheimer Res. 2017 Mar 16.

venerdì 17 marzo 2017

Nutrizione ed ormoni: indice/carico glicemico, diabete, ritenzione ed anti-aging.


Con piacere comunichiamo che i posti disponibili per la serata sono quasi esauriti. Avvisiamo chi fosse intenzionato a partecipare che rimangono solo poche disponibilità. Un ringraziamento anticipato da parte degli organizzatori per la vostra partecipazione così numerosa anche a questa edizione.




mercoledì 15 marzo 2017

Stress e cibo spazzatura: negli adolescenti in aumento il rischio di malattie intestinali


Tra stress e cattive abitudini alimentari, “gli adolescenti sono tra le categorie più a rischio di sviluppare malattie infiammatorie croniche dell’intestino” e “rappresentano quasi il 25% dei pazienti”. E’ quanto afferma Antonio Gasbarrini, direttore dell’Area Gastroenterologia della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli, intervenuto ieri alla presentazione del progetto “In their shoes”, ovvero una app pensata perché si possa ‘vestire i panni’ dei pazienti comprendendo così le loro difficoltà quotidiane. Spiega l’esperto

Al lavoro come al cinema, a cena fuori come in vacanza. Tra mal di pancia, rischio di disidratazione, difficoltà a raggiungere una toilette e necessità di prevedere tutti gli spostamenti. Questa la quotidianità di chi soffre di morbo di Chron e colite cronica ulcerosa. Spesso la patologia “si attiva durante stress psicologici, come un esame, la perdita di un lavoro, la fine di un fidanzamento. Ma risente anche di un’alimentazione non sana”, spiega Gasbarrini, ordinario di Malattie dell’Apparato Digerente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Per questo “colpisce in particolare adolescenti e giovani adulti, anche mamme”.

I sintomi però mettono in imbarazzo. Per questo, vengono taciuti e spesso rimangono per anni nel sommerso. “Dei 200mila malati stimati in Italia, 161mila sono quelli diagnosticati mentre circa 40mila ancora non lo sono. Il nostro scopo è individuare precocemente chi ne soffre”, prosegue. Inoltre come tante altre malattie autoimmuni, “necessitano terapie personalizzate e un pool di medici multidisciplinare. Solo così si possono abbattere i costi della cura”. Costi che in Italia sono compresi tra 19 e 23mila euro annui per ogni paziente, senza considerare quelli indiretti dovuti alla ridotta produttività.