Dott. Vincenzo Tedesco

Nutrizionista e Neuroscienziato

Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare

Dottore di Ricerca in Biomedicina Traslazionale e Farmacogenomica


Diete personalizzate

Nutrizione neuropsichiatrica e neurodegenerativa

Nutrizione estetica

Nutrizione sportiva per agonisti ed amatori

Intolleranze alimentari


Studio Borgo Roma - Via Santa Teresa 47 (ingresso Via Bozzini 3/A), 37135, Verona.

Info. e prenotazioni - Segreteria: 349.6674360

e-mail: info@tedesconutrizionista.it

e-mail pec: vincenzo.tedesco@pec.enpab.it

web: www.tedesconutrizionista.it

lunedì 29 novembre 2021

Chiave anti-aging? Controllare infiammazione, grassi e zuccheri

Sono tre i principali fattori che regolano l’invecchiamento, l’infiammazione, il metabolismo dei grassi e quello degli zuccheri, tutti e tre, quindi, ampiamente controllabili con una corretta alimentazione. È la conclusione di uno studio realizzato da una collaborazione tra I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (IS), Università di Bologna, Università dell’Insubria a Varese e Università Lobachevsky di Nizhny Novgorod (Russia) e pubblicato su Aging Research Reviews.

Il lavoro, che ha esaminato i dati di una serie di studi sull’argomento, potrebbe portare a nuove idee su come rallentare il processo di invecchiamento. Accanto a quella anagrafica esiste infatti un’età biologica, quella che realmente rispecchia di quanto il nostro corpo stia invecchiando. Modulando i processi infiammatori, nonché controllando grassi e zuccheri nel nostro corpo, si può almeno in parte frenare l’avanzare dell’età biologica di ciascuno di noi. Quindi, con la loro analisi i ricercatori sono stati in grado di definire tre principali ‘strade’ comuni che sembrano influenzare l’età biologica di una persona: l’infiammazione, il metabolismo e trasporto lipidico e il metabolismo dei carboidrati.

“Questi risultati – spiega Aurelia Santoro, ricercatrice al Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna – indicano come interventi sullo stile di vita, ad esempio aderire ad una dieta di tipo Mediterraneo, oppure la restrizione calorica o il digiuno intermittente, possano influire proprio sui tre processi biologici individuati, agendo sui metabolismi, lipidico e glucidico, ma riducendo anche il livello di infiammazione e di stress ossidativo dell’organismo”.

“Nonostante la grande eterogeneità che caratterizza la risposta agli interventi nutrizionali nell’uomo, dovuta sia a fattori genetici sia ambientali e culturali – aggiunge Claudio Franceschi, professore emerito dell’Università di Bologna e direttore del laboratorio di System Medicine for Healthy Ageing dell’Università Lobachevsky di Nizhny Novgorod in Russia – l’impatto del regime alimentare sui meccanismi di base dell’invecchiamento rimane determinante”.

“Sono prospettive estremamente interessanti per la medicina”, commenta Licia Iacoviello, direttore del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione del Neuromed e Ordinario di Igiene e Salute pubblica all’Università dell’Insubria di Varese. “Prima di tutto perché, conoscendo l’età biologica di una persona, potremo riuscire a personalizzare la prevenzione e le eventuali terapie non più sulla sola età anagrafica, ma su come quello specifico individuo stia invecchiando realmente. Inoltre, anche grazie a ulteriori studi che dovranno essere condotti per affinare questi risultati, possiamo cominciare a individuare alcuni elementi capaci di rallentare il processo di invecchiamento, primo fra tutti gli stili di vita come l’alimentazione”.


Novembre, 2021 Redazione Nutri & Previeni


Disturbi intestino per 3 italiani su 4: aumento durante Covid

Un periodo in cui il cibo è diventato centrale, come fosse Natale tutti i giorni. È stata così la pandemia: soprattutto nelle fasi critiche, complici stress e isolamento, spesso hanno vinto gli eccessi: di calorie, ma anche di grassi e zuccheri. Il risultato sono stati aumenti di peso, ma anche difficoltà digestive, gonfiore, nausea, senso di pesantezza. Tre italiani su 4 dichiarano di soffrire abitualmente di almeno un disturbo gastrointestinale, ma con il Covid la tendenza è in aumento: dal 47,8% del 2019 per chi soffre con  intensità di questi disturbi al 56% del 2021. In particolare, a rappresentare questa criticità, seppur nelle forme lievi, sono i trentenni. Emerge da una ricerca su un campione online di 1.000 persone di Human Highway per Assosalute.

“Se è vero che l’apparato digerente viene definito come ‘secondo cervello’, ciò che incide sulla vita può avere ripercussioni – spiega Attilio Giacosa, gastroenterologo e docente all’Università di Pavia – i dati durante il primo lockdown evidenziano come circa il 17% degli intervistati abbia avuto una riduzione dell’appetito, mentre il 34% ha manifestato un aumento di fame e desiderio di cibo, con un 48% che ha aumentato il peso. Queste variazioni hanno portato a difficoltà digestive e ad alterazioni delle funzioni intestinali.”

Fenomeni condizionati anche dalla sedentarietà. Ad intensificare i disturbi gastrointestinali in pandemia sono stati anche  stress e ansia (62,7%), soprattutto tra le donne. Vi sono poi connessioni tra l’infezione Covid e le alterazioni del microbiota intestinale. Il virus può portare, infatti, spiega Giacosa, “a effetti negativi per gli equilibri della flora intestinale, sia nella sede del colon che nell’intestino tenue”.

Rispetto al periodo pre-pandemico e nel caso di disturbi gastro-intestinali, gli italiani fanno sempre più frequentemente riferimento al medico di base, attenendosi alle sue indicazioni (44% del campione), con il 24,1% che si rivolge al farmacista. Soprattutto le donne ricorrono abitualmente ai farmaci di automedicazione (40%), curano l’alimentazione (49,3%) e utilizzano i “rimedi della nonna” (31,6%). Se il dolore persiste, il vomito non si arresta e in caso di perdita di sangue, sia per bocca che per via rettale, occorre però contattare il medico.

Redazione Nutri & Previeni

lunedì 1 novembre 2021

Allarme Covibesity: più dolci e meno attività

Negli Usa è raddoppiato l’incremento dell’indice di massa corporea rispetto al periodo pre-Covid mentre in Italia circa 4 bambini su 10 in Italia hanno modificato le proprie abitudini alimentari durante la pandemia. A lanciare l’allarme nei confronti della ‘Covibesity’, termine comparso in letteratura scientifica per descrivere l’aggravamento dei tassi di obesità dovuto al confinamento causato dal Covid è la Società Italiana di Pediatria (Sip) che lancia un appello a ripristinare sani stili di vita messi a dura prova in quasi due anni di pandemia.

Secondo uno studio del CDC (Centers for Disease Control and Prevention) Usa condotto su oltre 432 mila bambini e ragazzi tra 2 e 19 anni, il tasso di incremento dell’indice di massa corporea (che misura il rapporto tra peso e altezza) è raddoppiato rispetto al periodo pre-pandemico, mentre la percentuale di bambini e ragazzi obesi in un anno è passata dal 19,3% al 22,4%. E chi era già in sovrappeso lo è diventato ancora di più, ‘guadagnando’ oltre mezzo kg al mese, un ritmo di crescita che in 6 mesi significa 3-4 kg in più, più del doppio di quello che dovrebbe essere il giusto aumento di peso.

“Alla luce di questo scenario diventa ancora più importante promuovere una corretta alimentazione perché l’epidemia dilagante di obesità infantile, aggravata dalla pandemia, è più silenziosa ma altrettanto pericolosa di quella generata dal Covid-19”, afferma Annamaria Staiano, presidente Sip e professoressa ordinaria di Pediatria all’Università Federico II di Napoli. 

Sono sempre gli esperti della Sip a dare dei consigli su come invertire questa tendenza. Alimenti sani, 5 pasti al giorno e 5 pasti a settimana consumati in famiglia sono alcune delle strategie per ridurre il rischio di obesità indicate in un manifesto in 7 punti redatto proprio dalla Società Italiana di Pediatria per il progetto “Non siete soli” di ENI Foundation.

“Il modello alimentare di riferimento è la dieta mediterranea, ricca di alimenti di origine vegetale, caratterizzata dall’impiego di olio di oliva come principale fonte di grassi aggiunti e da un consumo moderato di pesce, uova, pollame e prodotti caseari abbinato ad un ridotto consumo di carne rossa. Diversi studi hanno dimostrato che minore è l’aderenza al modello mediterraneo e maggiore è la prevalenza di sovrappeso”, spiega Elvira Verduci consigliere nazionale Sip e professore associato di Pediatria all’Università degli Studi di Milano.

Nell’ambito del progetto la Sip promuoverà iniziative nelle scuole e distribuirà agli 11 mila pediatri che aderiscono alla Società Scientifica un poster che riassume 7 consigli da tenere a mente. Innanzitutto, consumare almeno 5 pasti alla settimana in famiglia, per promuovere l’adozione di sane abitudini, e consumare 5 pasti al giorno, ovvero due spuntini oltre ai tre pasti principali. Non saltare la prima colazione: farlo porta a un consumo di alimenti eccessivo nelle ore successive rispetto alla spesa energetica giornaliera. Limitare alimenti da fast food, snack a elevato contenuto energetico, ricchi in grassi saturi, zuccheri raffinati e sale. Limitare le bevande zuccherate e attenzione, inoltre, alle porzioni degli alimenti, che devono essere corrette in base all’età. Infine, incoraggiare un’attività fisica giornaliera di intensità moderata-vigorosa per almeno 60 minuti e limitare il tempo speso davanti agli schermi, specialmente durante i pasti.

Nutri e previeni

martedì 31 agosto 2021

Il fruttosio nella dieta favorisce l'assorbimento dei nutrienti e l'aumento di peso

 

NUTRIZIONE | REDAZIONE DOTTNET | 24/08/2021 13:58

È stato scoperto che l'alimentazione di topi con sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio determina un aumento della superficie dell'intestino

L'incidenza dell'obesità è in costante aumento, triplicando a livello globale tra il 1975 e il 2016, con un costo elevato per la salute pubblica . L'obesità predispone gli individui a varie malattie, compreso il cancro, e il numero di decessi associati all'obesità a livello globale ogni anno  (stimato in 2,8 milioni) è in scala simile ai decessi associati a COVID-19 segnalati nella pandemia in corso. Sebbene le diete ricche di grassi abbiano preso gran parte della colpa per l'aumento dell'obesità, il consumo eccessivo di zuccheri trasformati e sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio (HFCS) in particolare, è fortemente implicato nell'obesità indotta dalla dieta. Se e come il fruttosio causi l'obesità negli esseri umani rimane una questione molto dibattuta. In un reportage su Nature questo dovrebbe far pensare due volte prima di ingurgitare bevande zuccherate con snack grassi, Taylor et al. propongono che gli HFC promuovano l'obesità aumentando la capacità dell'intestino di assorbire i nutrienti.

Prova è emersa  che l'intestino tenue funge da gatekeeper per il corpo dei mammiferi contro gli effetti nocivi del fruttosio, il principale dei quali l'accumulo anormale di grasso (steatosi definito) nel fegato. Quantità moderate di fruttosio, ad esempio quelle ingerite durante il consumo di frutta, vengono assorbite e scomposte dalle cellule intestinali. Quantità eccessive, come quelle che potrebbero essere ingerite dopo aver bevuto una bevanda zuccherata, sopraffanno la capacità di assorbimento dell'intestino e il fruttosio "fugge" nel flusso sanguigno per raggiungere il fegato intatto, oppure fuoriesce dall'intestino tenue e raggiunge il colon.

La scomposizione del fruttosio nelle cellule inizia con la sua conversione in fruttosio 1-fosfato (F1-P). Questa modifica comporta il trasferimento di un gruppo fosfato al fruttosio dalla molecola che fornisce energia ATP, attraverso l'azione dell'enzima chetoesochinasi (KHK). L'eccesso di fruttosio nel fegato alimenta l'elevata attività di KHK, che si ritiene stimoli l'espressione dei geni di sintesi dei lipidi attraverso diversi meccanismi . L'esaurimento di KHK nel fegato dei topi è sufficiente per prevenire la steatosi epatica indotta dal fruttosio.

Il fruttosio che finisce nel colon viene scomposto dai batteri residenti per produrre molecole che possono quindi alimentare la sintesi dei lipidi nel fegato. Inoltre, il fruttosio aumenta la "permeabilità" intestinale, una condizione in cui le connessioni allentate tra le cellule intestinali consentono ai nutrienti ingeriti e alle tossine dai batteri nel colon di sfuggire al fegato, dove attivano i segnali infiammatori delle cellule immunitarie che aumentano la steatosi. Pertanto, l'eccesso di fruttosio danneggia il fegato sia direttamente che indirettamente attraverso cambiamenti nell'intestino.

Lo studio di Taylor e colleghi rivela che il fruttosio ha un effetto precedentemente sconosciuto sulla struttura dell'intestino. Il lavoro precedente  aveva dimostrato che l'HFCS promuove le vie metaboliche che supportano la formazione di tumori del colon, quindi gli autori si sono chiesti quali conseguenze potrebbe avere una dieta ricca di HFCS per le cellule intestinali non cancerose. Taylor et al. hanno scoperto che i topi nutriti con HFCS avevano protrusioni intestinali più lunghe - strutture note come villi - e assorbivano più nutrienti dietetici rispetto ai topi che non ricevevano HFCS nella loro dieta. Inoltre, le diete grasse causavano un aumento di peso ancora maggiore nei topi se tali diete contenevano anche fruttosio rispetto a quando non lo contenevano.

Figura 1

Figura 1 | Cambiamenti intestinali mediati dal fruttosio. I nutrienti nell'intestino entrano nel flusso sanguigno dopo aver attraversato le cellule in una sporgenza intestinale chiamata villo. Le cellule sulla punta di un villo hanno un accesso limitato all'ossigeno (uno stato chiamato ipossia) e muoiono per motivi come l'esaurimento di energia e lo stress ossidativo. Taylor et al. 4riferiscono che, se i topi ricevevano sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio (HFCS) nella loro dieta, avevano villi più lunghi e livelli più elevati di lipidi nel sangue rispetto agli animali che non ricevevano HFCS. Gli autori suggeriscono che l'allungamento dei villi è dovuto all'aumento della sopravvivenza delle cellule ipossiche attraverso cambiamenti innescati dalla presenza di fruttosio. Il glucosio da HFC viene metabolizzato, guadagnando due gruppi fosfato (cerchi rossi) per generare la molecola fruttosio 1,6-bisfosfato (F1,6-BP), che favorisce la formazione della versione tetramerica ad alta attività dell'enzima PKM2. Questo enzima funziona in una via metabolica chiamata glicolisi. Quando il fruttosio dell'HFCS entra nelle cellule attraverso il trasportatore GLUT5, l'enzima chetoesochinasi (KHK) lo converte in fruttosio 1-fosfato (F1-P), che è strutturalmente simile a F1,6-BP. A differenza di F1,6-BP, F1-P provoca la dissociazione delle subunità PKM2 e sposta l'equilibrio dai tetrameri PKM2 attivi ai monomeri PKM2 a bassa attività. I monomeri PKM2 aumentano la sopravvivenza delle cellule dei villi nell'ipossia sopprimendo lo stress ossidativo e inducendo l'espressione di geni che aiutano a sostenere i livelli di energia.

Quando un villo si allunga quando si formano nuove cellule, le cellule intestinali più vecchie si spostano sulla punta dei villi, lontano dai vasi sanguigni, e sperimentano una limitazione gradualmente crescente nella disponibilità di ossigeno (entrando in uno stato chiamato ipossia). Gli autori riportano prove che sulla punta dei villi, dove l'ipossia era estrema, le cellule stavano morendo. Taylor e colleghi hanno anche scoperto che nuove cellule nei villi in crescita di topi alimentati con HFCS si sono formate a velocità simili a quelle dei topi senza HFCS nella loro dieta. Insieme, queste osservazioni suggeriscono che la morte cellulare indotta dall'ipossia limita la lunghezza dei villi e che i villi dei topi alimentati con HFCS erano più lunghi perché le loro cellule avevano meno probabilità di morire rispetto alle cellule ipossiche nei villi dei topi che non erano stati alimentati con HFCS.

Taylor et al. studiato come il fruttosio potrebbe promuovere la sopravvivenza delle cellule ipossiche. L'analisi degli autori delle cellule coltivate in vitro ha rivelato che il fruttosio ha determinato un aumento del livello di F1-P. Inoltre, il trattamento di queste cellule con fruttosio ha inibito la via metabolica della scomposizione del glucosio chiamata glicolisi nella fase catalizzata dall'enzima PKM2. La bassa attività PKM2 aiuta a reindirizzare le molecole intermedie dalla via della glicolisi alle vie biosintetiche e antiossidanti che consentono alle cellule di proliferare e sopravvivere sotto stress. Varie molecole intracellulari si legano e commutano PKM2 tra una forma tetramerica ad alta attività (contenente quattro subunità proteiche) e una forma monomerica a bassa attività (contenente una subunità proteica), a seconda dello stato della cellula. PKM2 monomerico può spostarsi nel nucleo per supportare il fattore di trascrizione HIF-1α nel guidare l'espressione di geni che aiutano le cellule ipossiche a mantenere le loro riserve energetiche

 Gli autori hanno scoperto che F1-P si lega a PKM2, probabilmente in virtù della sua somiglianza strutturale con il fruttosio 1,6-bisfosfato (F1,6-BP), una molecola della via della glicolisi che può attivare PKM2. A differenza di F1,6-BP, F1-P spinge PKM2 ad adottare una forma monomerica a bassa attività. Questo aiuta le cellule intestinali ipossiche alimentate con fruttosio a ridurre lo stress ossidativo e aumenta l'attività di HIF-1α per preservare i livelli di energia. Quando Taylor e colleghi hanno somministrato ai topi TEPP-46, una piccola molecola che blocca PKM2 in una forma tetramerica attiva che elude l'inibizione di F1-P, questo ha impedito l'allungamento dei villi nei topi alimentati con HFCS, indicando che F1-P derivato dal fruttosio aiuta le cellule ipossiche nei villi in crescita per sopravvivere controllando PKM2.

Per indagare ulteriormente sul ruolo di PKM2 e KHK nell'allungamento dei villi, gli autori hanno eliminato la parte del gene Pkm che codifica specificamente per PKM2 o il gene Khk . La modifica di Pkm per prevenire l'espressione di PKM2 ha guidato l'espressione di una versione alternativa di Pkm che codifica per una proteina chiamata PKM1, che è sempre attiva, in modo simile a PKM2 legato a TEPP-46. Queste delezioni genetiche hanno impedito l'allungamento dei villi come conseguenza di una dieta a base di HFCS e, soprattutto, hanno ridotto il livello di lipidi nel sangue nei topi alimentati con HFCS rispetto al livello nei topi in cui i geni non erano stati eliminati. Ciò suggerisce che l'allungamento dei villi indotto dal fruttosio consente un maggiore assorbimento dei grassi alimentari.

Taylor et al . poi hanno studiato se i loro risultati nell'intestino normale fossero rilevanti anche per i tumori intestinali. Hanno trovato cellule ipossiche nei tumori intestinali di topi geneticamente predisposti a sviluppare questi tumori. Come precedentemente descritto, nutrire tali topi con HFCS ha portato a tumori più grandi rispetto a nutrirli con diete senza HFCS. Sebbene il trattamento di topi alimentati con HFCS con TEPP-46 non abbia eliminato questi tumori, ha impedito gli effetti di promozione del tumore dell'HFCS. Gli autori hanno anche osservato una maggiore espressione dei geni bersaglio HIF-1α e una bassa attività PKM2 in campioni di tumori del colon-retto umani rispetto a tessuti vicini, non cancerosi. Insieme, questi risultati suggeriscono che, analogamente alla situazione delle cellule ipossiche nei villi in crescita, uno stato di bassa attività di PKM2 potrebbe anche supportare la crescita del tumore consentendo alle cellule tumorali intestinali di sopravvivere all'ipossia.

Questo lavoro fornisce prove convincenti che PKM2 e il suo ligando F1-P appena descritto mediano gli effetti precedentemente non apprezzati del fruttosio nei tessuti intestinali sia normali che cancerosi. I risultati sollevano anche diverse domande relative alla nostra attuale comprensione di come l'intestino gestisce i nutrienti. Negli animali sani, gli enzimi intestinali chiamati lipasi scompongono i lipidi ingeriti in prodotti che vengono assorbiti dalle cellule intestinali e riconfezionati per la consegna attraverso il sistema linfatico e nel sangue. Quindi la domanda su come i lipidi alimentari ingeriti causino un aumento dei lipidi nel sangue, come sembrano fare nei topi alimentati con HFCS anche quando le lipasi sono inibite, secondo Taylor e colleghi, richiede ulteriori indagini. Forse l'allungamento dei villi è legato alla permeabilità intestinale e, quando i cibi grassi sopraffanno la capacità enzimatica delle lipasi, i lipidi in eccesso nella dieta bypassano le cellule intestinali e penetrano nel flusso sanguigno.

Il consumo di fruttosio aumenta il livello di espressione del trasportatore GLUT5 che aiuta l'ingresso del fruttosio nelle cellule , migliorando così l'assorbimento del fruttosio. Non è chiaro se l'allungamento dei villi fornisca un'ulteriore spinta all'assorbimento del fruttosio, che potrebbe ridurre la fuoriuscita di fruttosio nel colon e nel fegato come conseguenza del consumo persistente di fruttosio. In tale scenario, anche se l'allungamento dei villi favorisce l'assorbimento dei grassi, potrebbe anche mitigare in parte gli effetti dannosi del fruttosio stesso sul fegato. Sarà interessante determinare come il complesso equilibrio tra le capacità di assorbimento e metaboliche dell'intestino di fruttosio, lipidi e altri nutrienti e l'intersezione di questi processi con l'attività dei microrganismi nel colon contribuiscano insieme alle condizioni legate all'obesità.

Considerando il potenziale terapeutico di questo lavoro, gli esperimenti degli autori suggeriscono fortemente che PKM2 supporta la sopravvivenza delle cellule intestinali in cui è espresso. Tuttavia, PKM2 è espresso anche in molti altri tipi di cellule, come le cellule immunitarie, che mediano le funzioni necessarie per mantenere la salute sia dell'intestino che del fegato.

Curiosamente, nonostante la sua capacità di prevenire l'allungamento dei villi mediato dall'HFCS, TEPP-46 non ha migliorato la steatosi epatica negli esperimenti degli autori. Questo risultato contrasta con la diminuzione della steatosi indotta da fruttosio che gli autori hanno osservato con il Pkmcancellazione che impedisce l'espressione di PKM2. Questa discrepanza tra gli approcci genetici e farmacologici alla modulazione di PKM2 aumenta la possibilità che l'azione combinata degli attivatori di PKM2 su più tipi di cellule possa in definitiva determinare la loro capacità di modulare specifiche funzioni tissutali nella malattia. Nonostante le prime speranze, gli attivatori di PKM2 devono ancora raggiungere la clinica come terapie contro il cancro. Il lavoro di Taylor e colleghi evidenzia il fatto che acquisire una comprensione approfondita dei contesti tissutali e patologici potrebbe consentire ai ricercatori di suggerire nuove aree terapeutiche in cui l'attivazione di PKM2 potrebbe rivelarsi utile. Indipendentemente da ciò, evitare del tutto le bevande zuccherate potrebbe essere un buon inizio per frenare l'obesità.

 

fonte: Nature

lunedì 26 luglio 2021

Covid più “cattivo” con chi ha alimentazione inadeguata

Il coronavirus è “più aggressivo” con adulti e bambini malnutriti: secondo uno studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports, infatti, una condizione pregressa di malnutrizione aumenta il rischio di morte e di ventilazione assistita in caso di Covid.

Lo studio è stato condotto da Louis Ehwerhemuepha del Children’s Hospital of Orange County, in California ed ha coinvolto 8.604 bambini e 94.495 adulti (over-18) ricoverati per Covid in diversi ospedali statunitensi. Gli esperti hanno confrontato l’esito dell’infezione di ciascun paziente tenendo conto di chi nel campione era stato riconosciuto come malnutrito tra 2015 e 2019. 
Ebbene, è emerso che di 520 (6%) bambini con COVID-19 in forma grave, 39 (il 7,5%) avevano avuto in precedenza una diagnosi di malnutrizione, contro 125 (appena l’1,5%) dei 7.959 (98,45%) bambini con COVID-19 lieve. Inoltre è emerso che di 11.423 adulti con COVID-19 in forma grave, 453 (il 4%) erano stati riconosciuti in precedenza come malnutriti, contro appena l’1,8% (1.557 adulti) degli 81.515 adulti con COVID-19 in forma lieve.

Significa che è più probabile che il Covid si manifesti in forma grave in adulti e bambini denutriti. È altamente probabile, concludono gli esperti, che una condizione di nutrizione inadeguata debiliti il sistema immunitario e quindi renda più vulnerabile alle infezioni, Covid compresa.

Redazione Nutri e Previeni

martedì 29 giugno 2021

Il cioccolato, un toccasana al mattino e prima di addormentarsi

Secondo un piccolo studio condotto su 19 donne, il momento della giornata in cui si assume il cioccolato può avere effetti su sonno, energia e microbiota. Se consumato al mattino o prima di coricarsi, invece, non produce un aumento di peso e ha positive ripercussioni su glicemia e attività fisica.

28 GIU - (Reuters Health) – Un piccolo studio indica che consumare cioccolato al latte prima di ogni altra cosa al mattino o alla fine della giornata potrebbe non produrre un aumento di peso, ma le tempistiche potrebbero influire su sonno, energia e microbiota.

In uno studio di crossover randomizzato, 19 donne in postmenopausa con indice di massa corporea (IMC) nella norma hanno consumato 100 grammi di cioccolato al latte al giorno – al mattino o alla sera – per due settimane in ogni condizione e successivamente si sono astenute del tutto per altre due settimane. Quattordici giorni di assunzione di cioccolato non hanno prodotto un aumento di peso, ma le tempistiche di consumo hanno avuto effetti diversi sulla spesa energetica delle donne, sul loro appetito e sonno e sui microbi all’interno dell’intestino.

Lo studio mostra che “se si consuma cioccolato al mattino, in una finestra temporale molto ristretta, e poi non se ne mangia più per il resto della giornata, può contribuire a mantenere il peso”, osserva l’autrice dello studio, Marta Garaulet, che lavora presso la divisione di disturbi del sonno e del ritmo circadiano all’interno dei reparti di medicina e neurologia del Brigham and Women’s Hospital di Boston ed è professoressa all’Università di Murcia in Spagna.

“Un altro messaggio importante è che se solitamente si va a correre o si pratica un esercizio fisico intenso al mattino, potrebbe essere utile assumere cioccolato quando ci si corica”, ha proseguito. “Se si mangia cioccolato di sera, quando ci si sveglia al mattino si avrà più energia”.

Lo studio
Per esaminare più approfonditamente l’effetto del consumo di cioccolato sulle donne in menopausa, i ricercatori hanno reclutato partecipanti con un’età media di 52 anni, un peso iniziale medio di 65,5 kg e un IMC medio di 25,0, con un grasso corporeo medio del 32,7%. I criteri di esclusione erano: IMC superiore a 35 kg/m2; disturbi endocrini, renali, epatici, alimentari o psichiatrici e assunzione di farmaci o integratori di fibre.

Le donne sono state invitate a seguire la loro normale alimentazione quotidiana mentre partecipavano allo studio, con un periodo di astinenza di una settimana tra l’una e l’atra durante il quale non hanno assunto cioccolato. Per tutte le donne sono state eseguite misurazioni al basale, all’inizio e verso la fine di ogni condizione. Tra le misurazioni figuravano: antropometria, apporto alimentare, parametri relativi al sonno, actimetria, calorimetria, glicemia a digiuno, campioni fecali e questionari sulla sensazione di fame.

Nella condizione che prevedeva di assumere cioccolato al mattino, le donne hanno consumato 100 g di cioccolato al latte ogni giorno entro un’ora dal risveglio e insieme alla colazione, ma non lo hanno assunto più per il resto della giornata, mentre nella condizione che prevedeva l’assunzione serale di cioccolato, le donne hanno mangiato i loro 100 grammi un’ora prima del coricamento e non lo hanno assunto ad altri orari.
Durante i periodi di astinenza, le donne sono state invitate a non toccare cioccolato. Tuttavia, potevano sempre consumare qualsiasi altro alimento a loro piacimento.

I ricercatori hanno stabilito che il consumo di cioccolato ha ridotto la fame e il desiderio di altri dolci. Quando le donne hanno mangiato cioccolato al mattino, il loro apporto energetico ad libitum è sceso di 300 kcal/giorno rispetto al basale e quando lo hanno consumato di sera, tale apporto si è ridotto di 150 kcal/giorno. Tuttavia, in nessuna situazione la riduzione ha eguagliato il contributo energetico del cioccolato (542 kcal/giorno).

Il consumo serale ha prodotto un aumento del 6,9% dell’attività fisica secondo l’actimetria, un aumento dell’1,3% nella dissipazione del calore dopo i pasti e un aumento del 35,3% nell’ossidazione dei carboidrati. Inoltre, ha condotto a un aumento della produzione di acidi grassi a catena corta e a variazioni nella composizione del microbiota intestinale.

Il consumo mattutino di cioccolato ha ridotto la glicemia a digiuno del 4,4%, la circonferenza vita dell’1,7% e ha aumentato l’ossidazione lipidica del 25,6%. Le mappe di calore della temperatura del polso e le registrazioni del sonno hanno mostrato che il consumo serale ha prodotto un timing più regolare degli episodi di sonno con una minore variabilità di insorgenza del sonno rispetto al consumo mattutino.

Fonte: The FASEB Journal

Linda Carroll

(Versione Italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)

28 giugno 2021
© Riproduzione riservata

Dieta e coronarie: cattiva alimentazione aumenta il rischio di una malattia coronarica più grave

La gravità della malattia coronarica (CAD) è direttamente associata a un modello dietetico malsano ed è mediata indirettamente dalla presenza della sindrome metabolica, mentre un modello dietetico sano ha avuto un’associazione diretta inversa con la gravità della CAD, ed è mediata indirettamente dall’assenza di sindrome metabolica, secondo uno studio pubblicato su Nutrition and Health.


“L’associazione di schemi dietetici e sindrome metabolica con la gravità della malattia coronarica (CAD) è poco nota. Per questo abbiamo voluto esplorare la relazione tra i principali modelli dietetici e la gravità della CAD tra i pazienti con nuova diagnosi utilizzando la modellazione delle equazioni strutturali (SEM)” spiega Mohamed Kuhail, della Tehran University of Medical Sciences, in Iran, primo autore dello studio.

I ricercatori hanno studiato 423 pazienti con CAD di nuova diagnosi, la cui gravità è stata valutata dal punteggio Gensini, di età compresa tra 35 e 65 anni, sottoposti ad angiografia coronarica. Tutti i pazienti hanno compilato un questionario semiquantitativo sulla frequenza del cibo e un questionario internazionale sull’attività fisica, la scala dello stress percepito, e sono stati esaminati per quanto riguarda il profilo lipidico, la glicemia a digiuno e le misurazioni antropometriche e della pressione sanguigna.

Gli esperti hanno identificato due modelli identificati come “modello dietetico non salutare” e “modello dietetico salutare”. I risultati dell’analisi SEM hanno mostrato che il modello dietetico non salutare ha un’associazione diretta positiva significativa con la gravità della CAD, che è indirettamente mediata dalla presenza di sindrome metabolica, dopo aver aggiustato per età e scala di stress percepito.

Il modello dietetico sano, invece, ha mostrato un’associazione diretta negativa significativa con il punteggio di Gensini e un’associazione indiretta attraverso la sindrome metabolica negativa, dopo aver aggiustato per genere, attività fisica e scala dello stress percepito.

Nutr Health. 2021 Jun 21;2601060211020655. doi: 10.1177/02601060211020655.

Una dieta equilibrata può ridurre l’infiammazione della pelle e la psoriasi

Il segreto per una pelle e articolazioni più sane può risiedere nei microrganismi intestinali. 

Un recente studio ha scoperto che una dieta ricca di zuccheri e grassi porta a uno squilibrio nella cultura microbica dell’intestino e può contribuire a malattie infiammatorie della pelle come la psoriasi.

Il lavoro suggerisce che il passaggio a una dieta più equilibrata possa ripristinare la salute dell’intestino e sopprimere l’infiammazione della pelle.

Studi precedenti hanno dimostrato che la dieta occidentale, caratterizzata da un alto contenuto di zuccheri e grassi, può portare a una significativa infiammazione della pelle e alla comparsa della psoriasi. Nonostante siano disponibili potenti farmaci antinfiammatori per la pelle, lo studio attuale indica che semplici cambiamenti nella dieta possono anche avere effetti significativi sulla psoriasi.

Il cibo è infatti uno dei principali fattori modificabili che regolano il microbiota intestinale, la comunità di microrganismi che vive nell’intestino. Seguire una dieta occidentale può causare un rapido cambiamento della comunità microbica dell’intestino e delle sue funzioni. Questa alterazione dell’equilibrio microbico – nota come disbiosi – contribuisce all’infiammazione intestinale.

Dal momento che i batteri nell’intestino possono giocare un ruolo chiave nel plasmare l’infiammazione, i ricercatori hanno voluto testare se la disbiosi intestinale influenzi l’infiammazione della pelle e delle articolazioni.

Gli esperti hanno scoperto che esiste un chiaro legame tra l’infiammazione della pelle e i cambiamenti nel microbioma intestinale dovuti all’assunzione di cibo e che il danno causato da una dieta malsana è parzialmente reversibile. Passando cioè da una dieta occidentale a una più sana, l’infiammazione della pelle si riduce e le placche della psoriasi diventano più sottili.

Per gli esperti, questi risultati rivelano che i pazienti con psoriasi dovrebbero prendere in considerazione il passaggio a un modello alimentare più sano.

(Journal of Investigative Dermatology, http://dx.doi.org/10.1016/j.jid.2020.11.032)

di Michela Perrone

giovedì 24 giugno 2021

Fertilità ridotta per le donne che bevono più di 3 drink a settimana

Uno studio USA ha osservato nelle donne una correlazione tra consumo di alcool e ridotta fertilità. Maggiore è l'assunzione di alcool e maggiori sono le probabilità di difficoltà nel concepimento, soprattutto se questa assunzione avviene durante la fase luteale o nella finestra ovulatoria del ciclo mestruale. I ricercatori hanno definito un drink 35,4 centilitri di birra, 14,7 centilitri di vino o 4,4 centilitri di liquore

23 GIU - (Reuters Health) – Le donne che consumano tre o più drink a settimana durante la fase luteale del loro ciclo mestruale o più di sei drink a settimana durante la finestra ovulatoria potrebbero avere difficoltà a concepire. E’ quanto emerge da uno studio condotto negli USA e pubblicato da Human Reproduction.

I ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 413 donne dai 19 ai 41 anni che hanno completato diari giornalieri sull’assunzione di alcool e hanno consegnato una volta al mese campioni di urine per i test di gravidanza. Al momento dell’arruolamento, un quarto delle donne ha riferito che stava tentando di concepire; durante un follow-up mediano di 4 cicli mestruali, 133 partecipanti (32,2%) sono riuscite a rimanere incinte.

L’assunzione mediana di alcool segnalata si attestava a 0,27 drink al giorno, ossia 1,9 drink a settimana. I ricercatori hanno definito un drink 35,4 centilitri di birra, 14,7 centilitri di vino o 4,4 centilitri di liquore.

Rispetto alle controparti, le donne che assumevano alcool in maniera moderata (da 3 a 6 drink a settimana) e pesante (più di 6 drink a settimana) nella fase luteale del loro ciclo mestruale presentavano un rapporto di probabilità di fecondabilità notevolmente inferiore (rispettivamente pari a 0,56 e 0,51).

Nella fase follicolare del ciclo mestruale, anche un’elevata assunzione di alcool nella sottofase ovulatoria si associava a probabilità significativamente inferiori di concepimento (FOR, 0,39). Questa assunzione di alcool si correlava anche a una ridotta fecondabilità (FOR 0,54), ma tali risultati non erano coerenti quando i ricercatori hanno eseguito test di sensibilità.

“Il processo ovulatorio sembra essere molto sensibile a ingenti quantità di alcool, che sia consumato nel corso di diversi giorni o con un’abbuffata in uno dei giorni della finestra ovulatoria”, osserva l’autrice principale dello studio Kira Taylor, professoressa associata di epidemiologia e salute della popolazione presso la University of Louisville in Kentucky.”L’alcool può produrre un aumento dei livelli di estradiolo durante il ciclo mestruale, che riduce l’ormone follicolo-stimolante”.

Quando i ricercatori hanno esaminato specificamente l’”abbuffata di alcool”, definita come quattro o più drink al giorno, hanno riscontrato che ogni ulteriore giorno di binge drinking era significativamente associato a una ridotta fecondabilità in generale (FOR 0,91), nella sottofase ovulatoria (FOR 0,59) e nella fase luteale (FOR 0,81).

Fonte: Human Reproduction

Lisa Rapaport

(Versione Italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)

giovedì 11 febbraio 2021

Niente caffé in gravidanza

La caffeina durante la gestazione può cambiare importanti percorsi cerebrali nel nascituro

Se si riesce, meglio limitare il più possibile il caffè e le bevande con caffeina in gravidanza. Una nuova ricerca di Del Monte Institute for Neuroscience presso il Medical Center dell'Università di Rochester, rileva infatti che la caffeina consumata durante la gestazione può cambiare importanti percorsi cerebrali che potrebbero portare a problemi comportamentali più avanti nella vita.  I ricercatori, che hanno pubblicato i risultati della loro analisi sulla rivista Neuropharmacology, hanno preso in esame circa 9 mila scansioni cerebrali di bambini di nove e dieci anni, da cui sono emersi cambiamenti nella struttura del cervello in quelli esposti alla caffeina in utero. Si tratta di effetti contenuti, non di difficili problematiche psichiatriche, tuttavia come spiega John Foxe, uno degli autori dello studio, "problemi comportamentali lievi ma evidenti che dovrebbero farci considerare gli effetti a lungo termine dell'assunzione di caffeina in gravidanza".
"Suppongo -aggiunge il ricercatore - che questo studio avrà come risultato una raccomandazione sul fatto che la caffeina in gravidanza probabilmente non è una buona idea". Problemi comportamentali, difficoltà di attenzione e iperattività sono i sintomi osservati nei bimbi esposti alla caffeina in utero.  Esaminando le scansioni cerebrali sono emersi evidenti cambiamenti nel modo in cui le tracce della sostanza bianca, che formano connessioni tra le regioni del cervello, sono state organizzate nei bambini le cui madri hanno riferito di aver consumato caffeina durante la gravidanza. Proprio il fatto che i consumi di caffeina siano riferiti a distanza di tempo rappresenta una delle limitazioni dello studio secondo i ricercatori. "È importante sottolineare che si tratta di uno studio retrospettivo - conclude Foxe- facciamo affidamento sulle madri perché ricordino quanta caffeina hanno assunto durante la gravidanza". Già precedenti ricerche hanno evidenziato che la caffeina può avere un effetto negativo sulla gravidanza. È anche noto che il feto non ha l'enzima necessario per scomporla quando attraversa la placenta.

NUTRIZIONE | REDAZIONE DOTTNET | 09/02/2021 13:52

martedì 19 gennaio 2021

I probiotici e il microbiota intestinale hanno effetti benefici sul sonno

FARMACI | REDAZIONE DOTTNET | 14/01/2021 11:21

Avviato un progetto di ricerca per esaminare il ruolo di integratori a base di probiotici che possono modulare il microbioma per migliorare il sonno, lo stress e l'ansia

 I probiotici e il microbiota intestinale stanno dimostrando di avere effetti benefici sulla qualità del sonno, aprendo così gli studi sull'effetto degli integratori a base di questi microrganismi. In questa direzione si muove il recente accordo sottoscritto tra la Fondazione Edmund Mach, la School of Human Development and Health (HDH) della Facoltà di Medicina dell'Università di Southampton e l'azienda OptiBiotix Health, che hanno appena avviato un progetto di ricerca per esaminare il ruolo di integratori a base di probiotici che possono modulare il microbioma per migliorare il sonno, lo stress e l'ansia. Con questo accordo vengono finanziati una borsa di dottorato ed uno studio umano in doppio cieco, controllato con placebo, condotto durante un periodo di interruzione del sonno indotta da stress.   La ricerca fa seguito a una serie di pubblicazioni che indicano una relazione tra il microbiota gastrointestinale, la neurobiochimica e il comportamento emotivo. Si basa sui risultati che dimostrano come i prebiotici hanno ridotto l'ansia e la depressione nei partecipanti.  Kieran Tuohy, responsabile del Dipartimento qualità alimentare e nutrizione FEM spiega che "i disturbi del sonno e l'apnea notturna sono fattori di rischio riconosciuti di cattiva salute metabolica e rischio cardiovascolare e sono strettamente correlati allo stress. Ricerche recenti hanno identificato un ruolo importante per il microbiota intestinale e specifici ceppi probiotici nella regolazione non solo dei ritmi circadiani e dell'orologio intestinale, ma anche nella costruzione della resilienza allo stress emotivo".

giovedì 14 gennaio 2021

Trovato il legame tra microbioma intestinale con dieta sana e salute cardiometabolica


MEDICINA INTERNA | REDAZIONE DOTTNET | 12/01/2021 12:30

Ogni persona ha un microbioma personalizzato e risponde in modo diverso al cibo e al controllo dei valori come glicemia, colesterolo e trigliceridi nel sangue

C'è un forte collegamento del microbioma intestinale con la dieta sana e con la salute cardiometabolica. Ogni persona, infatti, ha un microbioma altamente personalizzato e risponde in modo diverso al cibo e al controllo dei valori come glicemia, colesterolo e trigliceridi nel sangue. Lo ha evidenziato uno studio, coordinato dal Cibio dell'Università di Trento, pubblicato sulla rivista "Nature Medicine".  Lo studio rientra in un campo di indagine che il Laboratorio di Metagenomica computazionale nel Dipartimento Cibio di Biologia cellulare, computazionale e integrata dell'ateneo di Trento ha intrapreso per approfondire la correlazione tra microbioma, dieta e salute metabolica e si è avvalso in maniera determinante di nuovi strumenti informatici che sono stati sviluppati per l'analisi dei dati di microbioma.

"In questa ultima ricerca - sottolinea Nicola Segata, coordinatore del team di ricerca all'Università di Trento - ci siamo concentrati sul collegamento tra batteri intestinali, dieta e salute cardiovascolare ed è emerso con evidenza che ci sono batteri associati a diverse risposte metaboliche al cibo". "Il campione è stato monitorato nelle risposte a due identici pasti (colazione e pranzo) consumati sotto stretto controllo clinico, e in una serie di pasti di test assunti nell'arco di due settimane. Dall'analisi emerge che, in risposta a uno stesso cibo, ogni persona dopo mangiato fa registrare un andamento molto diverso dei livelli di grassi, di zucchero e di marcatori immunologici nel sangue. Questa variabilità è spiegata solo molto parzialmente dalla genetica, perché abbiamo verificato che gemelli identici con stile di vita molto simile hanno anche loro risposte al cibo parecchio diverse". 


Covid. Microbioma intestinale può influenzare la risposta immunitaria

La gravità dell’infezione da Sars-CoV-2 e la risposta immunitaria correlata possono essere influenzate dal microbioma intestinale. A questa conclusione è giunto uno studio condotto a Hong Kong, che ha coinvolto circa 200 adulti. "I pazienti Covid non presentano alcuni batteri buoni noti per regolare il sistema immunitario”, osserva Siew Ng, della Chinese University di Hong Kong, autrice principale dello studio.

 

“La composizione dei microrganismi intestinali (microbiota) nei pazienti con Covid-19, molto diversa rispetto agli individui non infetti, è correlata alla gravità della malattia. I pazienti Covid non presentano alcuni batteri buoni noti per regolare il sistema immunitario”, osserva Siew Ng, della Chinese University di Hong Kong, autrice principale dello studio.”Il microbiota intestinale anomalo (disbiosi) nei pazienti con Covid persiste dopo l’eliminazione del virus. Queste alterazioni potrebbero rivestire un ruolo nel “long Covid”. La gestione clinica non dovrebbe mirare solo a eradicare il virus ma anche a ripristinare il microbiota intestinale anomalo.


Lo studio

Il team di ricerca ha ottenuto campioni di sangue e feci da 100 adulti (età media 36 anni, 47 donne) ricoverati con Covid-19 e da 78 adulti (età media 45 anni, 45 donne) senza l’infezione che stavano partecipando a uno studio sul microbioma prima della pandemia. 41 dei pazienti Covid hanno fornito diversi campioni di feci mentre erano ricoverati e 27 di essi hanno fornito campioni fecali in serie fino a 30 giorni dopo l’eliminazione dell’infezione.


I ricercatori hanno osservato che la composizione del microbioma intestinale era alterata in maniera statisticamente significativa nei pazienti con Covid-19 rispetto alle controparti, a prescindere che fossero stati trattati o meno con antibiotici.


Diversi batteri intestinali commensali noti per influenzare la risposta immunitaria, tra cui Faecalibacterium prausnitzii, Eubacterium rectale e alcune specie di bifidobatteri, erano ridotti nei pazienti Covid e il loro numero è rimasto basso nei campioni raccolti fino a un mese dopo la risoluzione della malattia.


L’analisi dei campioni di sangue ha mostrato che lo squilibrio microbico rilevato nei pazienti con Covid si correlava con elevate concentrazioni di citochine infiammatorie e marcatori del sangue come proteina C-reattiva, lattato deidrogenasi, aspartato aminotransferasi e gamma-glutamil transferasi.


“I nostri risultati indicano che la disbiosi indebolisce le nostre difese immunitarie, predisponendo quindi a infezioni SARS-CoV-2 più gravi e contribuendo al long Covid” , conclude Siew Ng. “I probiotici, se si usa la giusta combinazione dei batteri mancanti per rafforzare l’immunità, potrebbero essere utili come terapia adiuvante”.


Fonte: Gut


(Versione italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)


13 gennaio 2021

© Riproduzione riservata

sabato 9 gennaio 2021

Quattro batteri intestinali con un un ruolo chiave nel diabete di tipo 2

DIABETOLOGIA | REDAZIONE DOTTNET | 04/01/2021 18:10

Si tratta del Lactobacillus johnsonii, del Lactobacillus gasseri, del Romboutsia ilealis e del Ruminococcus gnavus

Sono state scoperte 4 specie di microrganismi che si trovano nella flora batterica intestinale e che svolgono un ruolo chiave nel diabete di tipo 2. Questo obiettivo, raggiunto dai ricercatori dell'Università dell'Oregon, apre la strada a nuovi possibili trattamenti probiotici contro la patologia. Il diabete di tipo 2 è una condizione cronica che colpisce il modo in cui il corpo metabolizza il glucosio, uno zucchero che è una fonte fondamentale di energia. In alcuni pazienti, il corpo resiste agli effetti dell'insulina, l'ormone prodotto dal pancreas che apre la porta allo zucchero per entrare nelle cellule. Altri, invece, non producono abbastanza insulina per mantenere normali livelli di glucosio. Gli studiosi, nel lavoro pubblicato su Nature Communications, raccontano di essere riusciti a identificare quattro specie di batteri che sembrano influenzare il metabolismo del glucosio: si tratta del Lactobacillus johnsonii, del Lactobacillus gasseri, del Romboutsia ilealis e del Ruminococcus gnavus. "I primi due microbi sono considerati potenziali 'miglioratori' del metabolismo del glucosio, gli altri due potenziali 'peggioratori'", ha detto Natalia Shulzhenko, co-coordinatrice della ricerca. Lo studio è stato condotto sui topi, nutriti con l'equivalente di una dieta "all'occidentale". I lattobacilli hanno aumentato la salute mitocondriale nel fegato, portando a miglioramenti nel modo in cui si metabolizza glucosio e lipidi.

lunedì 4 gennaio 2021

Rischio sindrome metabolica anche per bimbi e ragazzi

 


Si registra un aumento importante in età pediatrica e adolescenziale del sovrappeso e dell'obesità a causa del diffondersi di uno stile di vita meno salutare fin da piccoli

Non solo un problema legato all'età adulta: la sindrome metabolica e' un rischio in agguato anche tra bambini e adolescenti. Ad evidenziarlo è il dottor Giuseppe Ventriglia, medico chirurgo, docente al Master di Clinical Pharmacy alle Università di Milano-Cagliari-Granada. "Si tratta di una condizione - spiega Ventriglia - nella quale esiste un aumento della probabilità di sviluppare complicazioni sia a livello cardiovascolare (quindi con precoce aterosclerosi e maggior rischio di infarto, ma non solo) sia a livello metabolico con maggiore rischio di sviluppare un diabete mellito. Con tutto quello che ne consegue in termini di danno a carico di tutto l'organismo: cuore, cervello, occhi, reni, fegato.

Negli ultimi anni stiamo osservando un aumento importante in età pediatrica e adolescenziale del sovrappeso e dell'obesità a causa del diffondersi di uno stile di vita meno salutare fin da piccoli: maggiore sedentarietà, poca attività fisica, alimentazione meno "mediterranea" e quindi con eccesso di grassi e di dolci raffinati, poca frutta e verdura fresche. E la maggiore frequenza dell'obesità di accompagna all'innesco di una serie di fenomeni che portano fatalmente, se non si interviene in maniera decisa, verso la sindrome metabolica". Una correzione degli stili di vita è quindi essenziale ad avviso dell'esperto ai fini della prevenzione, sin da giovani. "Un caposaldo assoluto nella lotta alla sindrome metabolica ed ai suoi danni potenziali - aggiunge infatti Ventriglia - è la correzione degli stili di vita scorretti. È importante abituarsi fin da bambini a fare attività fisica in modo regolare. Se non cominciamo da piccoli sarà più difficile farlo da grandi. E poi un altro tema riguarda l'alimentazione. Nei Paesi occidentali in genere si mangia troppo e con troppi dolci raffinati e con eccesso di carni e di grassi. E se a questo uniamo la sedentarietà, abbiamo spalancato la strada alla sindrome metabolica"."Fortunatamente la ricerca - sia in laboratorio sia sull'uomo - conclude - sta mettendo in luce le proprietà indiscusse, anche in questo campo, di alcune sostanze naturali.  Sostanze complesse che hanno dimostrato la loro capacità di interferire positivamente in alcuni dei complessi meccanismi che controllano, ad esempio, l'equilibrio dei batteri intestinali e i rapporti tra questi e il fegato e di qui all'intero organismo.  Potremmo dire che oggi sofisticate indagini e attenti studi clinici hanno evidenziato come una condizione 'complessa' come la sindrome metabolica può trarre giovamento dalle proprietà benefiche (dimostrate anche nei ragazzi e negli adolescenti) delle sostanze naturali con le quali l'uomo si è co-evoluto in milioni di anni".

MEDICINA INTERNA | REDAZIONE DOTTNET | 29/12/2020 16:46